La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

Libri e arte » Teatro »

Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

Inchieste » Quali riforme? »

Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

Piccoli editori » Edizioni Diabasis »

Le fate crudeli nascoste nella neve

03-12-2009

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Sull’altopiano dell’Azerbaigian una sera le stelle appaiono

vicinissime, in un cielo regale, e gli abitanti del quartiere tiran fuori i loro

korsi11. Nella notte il termometro precipita a – 30°; il giorno dopo, l’inverno è in

città. Un vento tagliente scende da nord a raffiche, investe la neve e ghiaccia la

campagna. I lupi si fanno arditi e i senza-lavoro dei sobborghi s’organizzano in

bande per spogliare i contadini. Le barbe e i baffi si coprono di brina, fumano i samovar,

le mani restano in fondo alle tasche. Non si hanno in mente che tre parole:

tè… carbone… vodka. Sulla porta del nostro cortile, i ragazzini armeni hanno

disegnato col gesso una grossa puttana con gli stivali, innumerevoli gonnelle, e

un piccolo sole sul basso ventre. Il che certo non manca di poesia, almeno fino a

quando si riesce a riempire la stufa e a pagare il venditore di legna.

Il nostro amico conosceva una sola parola in tedesco: Guten Tag, che nella sua bocca

sdentata era divenuta huda daa; poco importava: era una parola straniera, noi

eravamo stranieri, dovevamo capirla. Era un vecchietto minuto, dagli occhi lagrimosi

e le mani spaccate dai geloni, che innaffiava tremando i suoi ciocchi di

legno, per renderli più pesanti: fico, salice, giuggiolo dalle venature violacee; legni

biblici e che gonfiavano bene. Quando lo sorprendevo in quest’operazione,

sbottava in un riso candido e m’osservava da sopra i baffi per vedere se mi arrabbiavo

sul serio. Le comari armene del quartiere gli facevano ben notare che

la sua condotta offendeva Dio, e cercavano di farlo vergognare di vendere quella

roba; ma finivano per comprare. Il legno scarseggiava; bagnato o no, era comunque

un affare.

Mentre Thierry lavorava alle tele che contava di vendere a Teheran, io avevo

preso degli allievi per assicurare la sussistenza. Venivano al calar del giorno, dal

giardino, con la neve fino alle anche.

Ah! professore… nella Tabriz è davvero nera la nostra vita…

Il farmacista. sapeva il francese a sufficienza per discutere gli avvenimenti

della città, per spiegarmi senza errori i tre stadi della sifilide che aveva prudentemente

studiato nel Larousse médical, o per assaporare lentamente Pelle d’asino, Il

gatto con gli stivali e tutti quei racconti cristallini che riconciliano logica e poesia

e non conoscono altra fatalità che il lieto fine. Per esempio, faticavo non poco a

spiegargli cosa fossero le fate, perché nulla qui corrispondeva a quelle apparizioni

fugaci, a quei cappelli a cono, a quella femminilità affinata ma astratta. Le incantatrici

del folklore locale erano ben diverse: erano o le peri, le ancelle del Male

della tradizione mazdeista, o i robusti geni femmine dei racconti curdi, che divoravano

i viaggiatori attirati dai loro incanti dopo averli ben bene sfiniti in un letto.

Pure, quei racconti piacevano. Finito un capitolo, il farmacista si asciugava

gli occhiali, mormorava: «Mi piace Perrault… è così dolce» e su questa confessione,

si seppelliva nel suo quaderno, rosso come un peonia. Mentre Carabosse

o Carabas, sillaba dopo sillaba, svelavano prestigi e segreti, la notte scendeva

sulla città, e poi la lana della neve sulle strade nere. I miei vetri si coprivano di

piumette di brina e i primi cani miserabili cominciavano a urlare. Io smoccolavo

la lampada a petrolio. Avevamo lavorato bene. Il farmacista si rimetteva la

pelliccia, mi porgeva i cinque toman che noi avremmo al più presto cambiato in

vodka, e mi lasciava sulla soglia sospirando: «Ah! professore, che inverno perso,

atroce, qui… nella Tabriz».

In vodka, o in biglietti del cinema Passage, sempre gremito perché ci faceva

caldo. Strano locale: sedie di legno, soffitto basso, una larga stufa rovente a volte

più brillante dello schermo. E un pubblico meraviglioso: gatti intirizziti, mendicanti

che giocavano a dama sotto la lucina dei lavabo, bambini che piangevano

dal sonno e un gendarme incaricato di mantenere l’ordine quando veniva trasmesso

l’inno nazionale proiettando sullo schermo il ritratto dell’imperatore,

spesso a testa in giù.

All’uscita, un freddo pungente vi toglieva il respiro. Con i suoi muri bassi, le

ombre bianche, gli scheletri d’alberi scarnificati, la città, tutta rannicchiata sotto

la neve e la Via Lattea, aveva qualche cosa di magico. Tanto più che una canzone

risuonava selvaggiamente per le strade spazzate dal vento: la polizia aveva

lasciato accesi gli altoparlanti della piazza, che trasmettevano Radio-Baku.

Si riconosceva all’istante quella voce ineguagliabile: era Bulbul – l’usignolo – il miglior

cantante in lingua turca di tutta l’Asia Minore. Un tempo abitava qui, anzi

era una delle glorie cittadine. Poi i russi, non senza ragione, l’avevano attirato

da loro con cifre favolose. E da allora, numerosi apparecchi iraniani si sintonizzavano

su Baku per sentirlo… e sentivano il resto. Le sue canzoni erano, in ogni

caso, prodigiose; ci sono quattro folklori diversi in città, tutti lancinanti, e nessuno

si priva della musica, ma nulla può uguagliare in lirismo e crudeltà quelle

vecchie lamentazioni transcaucasiche.

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