La Lettera

Per Terre Sconsacrate, Attori E Buffoni

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Lettere »

Maurizio CHIERICI – Basaglia non è solo una fiction

08-02-2010

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Franco Basaglia é il ricordo dell’Italia che voleva trasformare la società non dimenticando nessuno. Neanche i matti. “Bisogna chiamarli matti se li trattiamo come matti”. Ha ispirato la legge 180 che chiude gli istituti lager dove il 70 per cento degli ospiti veniva sepolto a vita senza essere davvero ammalato. Un colpo di rabbia o disperazione; un colpo di sole o di confusione. Subito rientravano nella realtà, ma rientrare era proibito. Turbavano l’ordine pubblico. Incatenati per sempre. La legge non è mai stata davvero applicata per l’opposizione di politici e professori trincerati dietro il prestigio delle poltrone. Prevede case famiglie dove chi torna nel nostro mondo si riabitua alla vita senza pesare su mogli, figli, parenti nella decompressione della convalescenza. Case Famiglie dimenticate dai bilanci di stato. Nelle città dove sono state aperte, le famiglie respirano e gli ex prigionieri tornano esseri umani. È la scommessa nella quale cresce un’Italia solidale. Impara a vivere col “diverso”. E i bambini diversi vanno a scuola con i bambini dagli occhi allegri. Compagni di banco che non fanno ormai paura nella pazienza degli insegnanti di appoggio: li aiutano a condividere la vita di tutti. Sono passati trent’anni, la paura è tornata per comodità elettorale di chi è invecchiato e ha perso la voglia di guardare il futuro. Non importa se i diversi sono matti. I neri sono peggio.

Basaglia sospettava le massonerie dei potenti. Nei giorni che precedono l’entrata in vigore della 180 invita i giornalisti a tener d’occhio i manicomi “nidi di vipere”. Sono andato a Nocera Inferiore, ospedale che raccoglieva tre province: Napoli, Salerno, Benevento. Reparti aperti, stanzoni-inferno. Immersi nella nausea di una sporcizia difficile da raccontare, donne e uomini, camicioni che non arrivano alle ginocchia, inebetiti dalla novità, vengono caricati su corriere che li riportano nel passato di mogli e figli affranti. Li hanno visti tornare così. Nei mesi che precedono il giorno fatale, si erano moltiplicate le cliniche private “salva famiglie”. Cliniche morbide per chi può pagare. Cliniche non molto diverse dai lager quando le convenzioni battono cassa agli enti pubblici.

Non è facile immaginare Basaglia davanti alla Tv mentre scorre il film sui matti da slegare, storia della sua utopia testarda che ha sconvolto la provincia culturale dell’Italia anni ’60. Jean Paul Sartre se n’era innamorato: “intellettuale concreto”. Ma i baroni frenavano furibondi. Basaglia cancellava il ruolo dominante di signori delle corsie. Ne rimpiccioliva il potere sgretolando quel potere che la tradizione gli conferiva in quanto primario. E la casta non lo sopportava. Non sopportava l’abitudine di sgobbare quindici ore al giorno. Si era sfilato il camice, segno di autorità che ancora intimorisce chi ha una gamba rotta. Immaginiamo gli esclusi inchiodati ai letti di contenzione. All’elettrochoc sostituiva la terapia della parola. “Dev’essere matto se discute con i matti”. La gente senza nome era nessuno: numeri nella contabilità dell’ospedale-casa di pena. La rivoluzione di Basaglia e degli psichiatri che lo seguivano “nella follia” considera quei malati dagli occhi spiritati, non ergastolani sepolti dal codice, ma persone estromesse dalla vita civile. Sempre povera gente, nessun borghese o possidente ai quali era permesso superare la “debolezza” nei rifugi privati. Permesso negato a contadini e braccianti: polvere della società, vergogna delle famiglie. E l’autorità li seppellisce dietro le grate con un timbro che ruba la loro vita.

“Signore e signori” (li chiamava così) per Basaglia avevano solo bisogno di aggrapparsi alla considerazione di chi li curava. Obbligatorio salutarli chiamandoli per nome. Obbligatorio affrontare assieme problemi reali e immaginari nelle assemblee terapeutiche che precedevano le assemblee ’68. Ne sollecitava gli interventi: “lei, perché non parla?”. Li abitua a parlare. Non sempre la logica accompagnava le cose che mettevano in fila: ma guai interromperli, Basaglia alzava la voce.

Nella Gorizia 1962 si era accorto che la demenza di gran parte dei degenti (“ospiti provvisori”) aveva radici nella voglia di scappare dalla fatica che opprimeva la vita grama. E bevevano. Ottanta per cento di alcolisti. Le sbornie li avevano trasformati in fantasmi che la comunità non sopportava. I primi giornalisti che la curiosità aveva portato a Gorizia dovevano solo divertire i lettori nel racconto dell’ospedale più strampalato del mondo. L’assemblea di ogni venerdì mattina, per esempio. Basaglia, Franco Rotelli, Agostino Pirella, Slawiz, tanti, dirigono la riunione che decide i nomi di chi può tornare a casa per il fine settimana. Concessione che indigna il procuratore della repubblica e l’onorevole missino della città: “attentato all’ordine pubblico con complicazioni internazionali”. Anche i vecchi infermieri dalle mani robuste gli sono ostili. Lavoro che raddoppia. Com’era facile tenerli a bada inchiodati sui letti di contenzione. Senza contare la complicazione delle fughe: il muro che chiude il parco del manicomio segna il confine tra Italia e Jugoslavia. Ed è la linea sottile di una cortina di ferro ormai soft: divide le due Gorizie (italiana e jugoslava) ma nella confusione della realtà ritrovata i matti in libera uscita attraversano la frontiera passando dai campi. “Il signor Furlan merita la vacanza in famiglia?”. Lo decidono voti ed interventi: “Non merita perché ha promesso che appena esce beve”. Il signor Furlan scuote la testa. “Caro signor Furlan, rimandiamo al prossimo weekend”. Parola incomprensibile, ma una promessa del direttore è una promessa seria. E si acquieta.

Da Gorizia a Parma, manicomio di Colorno mentre i ragazzi del ’68 si innamorano della sua follia. Occupano gli ospedali dai letti incatenati. Ecco l’incontro fatale con Mario Tommasini, assessore alla sanità, terza elementare: la sua pietà precede la pratica del professore. Aveva svuotato gli orfanotrofi distribuendo alle famiglie che prendevano in casa un bambino, quanto doveva spendere per mantenerlo nella solitudine dei cortili. Sotto l’ala di Basaglia, Tommasini chiude il manicomio liberando i matti-contadini in una fattoria dove già provano a dimenticare le polveri bianche ragazzi che scappano dalla droga. Ne diventano angeli custodi. Amministrazione affidata a detenuti in libera uscita nelle ore del lavoro. “Ha perso la testa”: i baroni non si arrendono. Invece funziona. “Impariamo a conoscere il diverso per farlo vivere con noi”. La Salvarani che fa mobili è la prima industria d’Europa ad assumere venti operai down: la solidarietà degli operai accanto li trasforma in lavoratori come gli altri. E la reazione della buona società è terrificante. Giornali e tv scatenate. Anche perché Basaglia insiste nel trascinare i suoi fantasmi nella vita. Gita in aereo, mondo capovolto. “Per farli guarire servono due cose: una casa e un lavoro”. Bestemmie per la scienza d’antan. E poi l’attenzione agli sguardi che i relitti uomini e i relitti donne incrociano nelle passeggiate nel parco. Basaglia e Tommasini creano appartamenti comunità. Affiorano tenerezze sepolte. Ma l’assedio non si arrende. A dire il vero anche certi intellettuali continuano a considerare i malati protagonisti marginali della società.

A Trieste Basaglia trasforma l’ospedale asburgico – padiglioni in fila nella collina – in una comunità multiculturale con risvolti commerciali. Via le sbarre, uffici, bar. Le famiglie che passeggiano la domenica non sospettano che il giardiniere o la ragazza alla macchina del caffè o il guardiano gentile nei saluti, qualche mese prima vagavano dietro le sbarre. Nel 1977, mentre il progetto della legge che chiude i manicomi inquieta baroni e onorevoli della tradizione, Basaglia organizza un convegno per “rompere i meccanismi dell’emarginazione”. I nuovi filosofi parlano con Felix Guatari. Il professore concede la testimonianza di un paziente, ma attorno al microfono di stringono i francesi di Marge e gli autonomi italiani. Vogliono parlare e subito. Lo spingono fuori, lo buttano a terra. Torna allo studio pallido e senza una parola: due costole rotte. Franca Ongaro, la moglie con la quale ha costruito il sogno, lo fascia con pazienza. Perché serve pazienza quando si ha un marito che vuol tornare nel caos per ascoltare e spiegare. Torna, spiega, ecco l’applauso liberatorio. “Non è successo niente. Ricominciamo”.

 

Commenti

  1. luisa

    Basaglia : santo subito. insopportabile santino RAI

  2. silvia girometta

    …occhi svuotati di tutto trasparenti come vetro, incapaci anche di una percezione involontaria riflessa : vedere …
    …luci irreali come irreale era essere lì..
    …tchiavi che aprono porte che si chiudono al tuo passaggio come se fosse per sempre…
    …e polvere , polvere ovunque sulle cose, sugli oggetti ma sopratutto su quelle anime…
    e poi l’oblio, la senzazione di essere dimenticati da un mondo che è fuori , lontano…sbarrato dietro inferiate e lucchetti
    e’ la sensazione che ho avuto entrando in uno di questi “Istituti di Salute ed Igiene Mentale.
    Si, bravo Basaglia liberare i diversi, i pericolosi –
    Ma pericolosi per chi?…
    si continuiamo a costruire questo sogno prima che la polvere sommerga tutto

  3. luisa

    io penso che all’epoca di basaglia ( anni ’70 ? ) non ci fossero nemmeno i farmaci che ora usano gli psichiatri quindi che la malattia mentale fosse molto più difficile da gestire. inoltre penso che la legge basaglia abbia aperto le deleterie case di cura private per chi se le poteva permettere e il vuoto per i poveri

  4. luisa

    oggi sabato 13 febbraio il Corriere dedica un’intera pagina al dramma dei familiari dei malati di mente

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