La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

Società »

Domani, testimone di pace: ha aperto il Nobel alle donne africane

30-12-2011

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Senza veli - Foto di SeratoninaInEndovenaLa pace non è solo un moto di ribellione alla guerra. La pace è uno sguardo critico sul mondo affinché l’impulso della violenza strutturale e culturale venga espunto dalla storia. Non è un caso che questo giornale on-line si sia chiamato Domani. L’orizzonte profetico della pace guarda lontano. Si muove nell’oggi per costruire il domani. Un compito arduo perché bisogna fare la cernita. Ci sono dei tesori di oggi e di ieri che vanno conservati e consegnati alle future generazioni e ci sono delle pietre d’inciampo che sono franate inesorabilmente a valle portandosi dietro costoni di roccia e cumuli di sporcizia. L’adesso è l’unico momento davvero esistente. Ieri è memoria, domani è proiezione di un tempo futuro. L’adesso è un tempo pieno zeppo di contaminazioni, un residuo di violenza, di potenza, di arroganza mischiato ad una resistenza coraggiosa, gioiosa, rumorosa, portata in piazza da giovani che invocano lavoro, da donne che gridano “dignità!”, da pensionati che non vogliono essere tartassati, da operai che difendono a denti stretti una paga, da giornalisti che rivendicano libertà, da migranti che chiedono giustizia. Questo giornale ha cercato di guardare, con occhio libero e con una tensione alla verità, i fatti e gli eventi che l’oggi ha seminato e che il domani raccoglierà.

Siamo nel terzo millennio, ma alle nostre spalle incombe ancora il Novecento, più potente, più suadente, più ammaliante che mai. Quel secolo “lungo” (la caduta del muro di Berlino non ne ha accorciato la durata come sostiene lo storico Eric Hobsbawn) ci ha fatto conoscere il mostro tentacolare di Auschwitz, ha innalzato il male a principio assoluto, lo ha fatto rassomigliare a Dio, l’ha rivoltato in pura e semplice “banalità” per cui le responsabilità dei genocidi si sono scaricate nell’impunità di un sistema che si è nascosto dietro il paravento della corresponsabilità. Ricordiamo la lezione di don Milani: «A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore? C’è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è mai più una virtù».

E ci volle Einstein per gridare al mondo che una scienza senza limiti e manipolata dalla volontà di potenza può trasformare la terra in una Hiroshima planetaria. E ci volle Freud a mettere l’umanità sul lettino psicoanalitico e scandagliarne le nevrosi, le frustrazione nel tentativo di comprendere qual’è la molla che la tiene sempre in tensione fra Eros (amore unitivo) e Thanatos (impulso distruttivo, suicida).

Eppure il Novecento è anche stato il secolo che ha teorizzato e praticato la pace come mai era accaduto nella storia. Gandhi è l’eroe che con-vince, libera l’India e costruisce una nuova nazione con la sola forza della verità, il satyagraha. Il richiamo del “fachiro nudo” e sdentato ha fatto muovere i passi della nonviolenza sulle strade del mondo. Il cuore di Gandhi batteva a Washington quando il pastore battista nero Martin Luther King agitava il suo sogno nonviolento, “I have a dream”: “(…) Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità”. Lo stesso sogno di pace è stato sventagliato da Thomas Merton nella sua resistenza tenace alla guerra nel Vietnam e nella ricerca di un amore interreligioso e interculturale senza se e senza ma (che strano anno quel ’68 che ci portò via Robert Kennedy, Martin Luther King e Thomas Merton).

La pace ha camminato ancora nel Sudafrica dell’apartheid fino a ballare con Mandela davanti al palazzo presidenziale. Nel mattatoio ruandese ha trovato donne che hanno salvato altre donne dichiarate nemiche dal potere. La morte non mi ha voluta (casa editrice La meridiana) di Yolande Mukagasana è una storia commovente, è il racconto di due amiche che hanno anteposto l’amore all’odio etnico, nel Ruaanda anno ’94. Sono sopravvissute alla mattanza. Hanno schiacciato la violenza con la nonviolenza. Le donne africane meritavano un Nobel (ndr, appello lanciato da Domani nel maggio 2099: Eugenio Melandri e testimoni africane occupano gran parte del giornale. Oggi, due anni e mezzo dopo stanno diventando speranze condivise da tanti paesi del mondo). Quest’anno (in parte) soddisfatte. Hanno portato fardelli lungo tutta la vita, sono state schiavizzate (e ancora oggi lo sono se pensiamo alle ragazze nigeriane comprate, violentate, torturate e gettate sui marciapiedi delle nostre strade come pezzi di carne dati in pasto a cani famelici), sono state private di ogni diritto da regimi totalitari e fondamentalisti (e ancora oggi lo sono in tanti Paesi arabi e nell’Iran delle grandiose proteste e delle terribili repressioni).

Ancora la pace ha sollevato l’America Latina dal brodo orribile delle dittature che hanno insanguinato il continente. Gli eroi nonviolenti li ricordiamo. Hanno i volti della fratellanza, volti pieni di vita come quello di Oscar Romero e di Marianella Garcia, il volto inerme di mons. Juan José Gerardi, massacrato senza pietà nel Guatemala del ’98, quel Paese che abbiamo conosciuto con amarezza leggendo il tristissimo tracconto di Rigoberta Menchù, la donna maya premio Nobel per la pace del 1992.

Ha il volto intellettuale di Ignacio Ellacurìa e degli altri cinque confratelli uccisi dagli squadroni della morte in Salvador. E grazie alle madres alle abuelas di Plaza de Mayo a Buenos Aires possiamo anche dire che la pace ha i volti delle migliaia di giovani desaparecidos, fatti sparire e gettati in pasto ai pescecani con i voli della morte sull’oceano. La pace ha impedito che quei giovani rimanessero degli anonimi. I loro volti e i loro nomi campeggiano sule magliette, suo foulard, sui dipinti che invocano giustizia e pace, perché quei crimini non avvengano mai ,più, “nunca mas!”.

In quel secolo lungo che è stato il Novecento la pace si è data delle regole, ha avviato la storia del costituzionalismo, ha dichiarato a lettere di fuoco la che “la guerra è un flagello per l’umanità”. In Italia la pace ha scritto la Costituzione più bella del mondo, l’articolo “pacifista” più forte, più coraggioso che sia mai stato scritto: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Questo vuol dire che il nostro Paese rigetta con ribrezzo e con un senso di nausea la violenza come metodo politico per la soluzione delle controversie e dei conflitti fra i popoli e gli individui.

Abbiamo avuto i nostri uomini e le nostre donne di pace. Fra pochi giorni inizieranno i festeggiamenti per i vent’anni dalla morte di Padre Ernesto Balducci e Padre David Maria Turoldo (1992-2012), due sentinelle della speranza, due angeli dell’apocalisse. Li ricordo insieme in una splendida Arena di Verona affollata da quindicimila persona ed altrettante bandiere dell’arcobaleno mentre gridano la loro profezia: “O l’uomo è uomo di pace o non è uomo!”. In quell’anfiteatro c’era anche un vescovo, don Tonino Bello. Si sbracciava don Tonino, forgiava la parola. Alla fine invitava tutti ad alzarsi: “In piedi costruttori di pace!”. E c’era fratel Arturo Paoli, oggi centenario, uomo dei due mondi, difensore dei diritti umani in America Latina e annunciatore di terre e cieli nuovi nella sua Lucca. Ma accanto a loro ci sono donne che seminano la nonviolenza ogni giorno, nel silenzio dei media e della stampa in generale. E ci sono tante iniziative, spontanee e istituzionali, che nascono proprio da quell’articolo 11 della Costituzione.

Ecco cos’è la pace. Non è stare buoni, far finta di niente e tirare a campare. La nonviolenza dei vigliacchi, diceva Gandhi, è peggio della violenza dei cattivi. Purtroppo l’Italia ha vissuto questo inizio del Terzo millennio con un atteggiamento di delega di potere a chi il potere lo ha assunto non per costruire un nuovo mondo, ma per dividere, lacerare, consumare l’energia vitale di una società.

Domani ha dato un microfono alla voce pacifista e nonviolenta denunciando le storture della politica, le depravazioni del potere, le derive dell’etica e della cultura. Ma annotando e raccontando anche i gesti di speranza, gli uomini e le donne che dicono no alla guerra, no alla violenza, no agli abusi di potere, no alla persecuzione del povero, alla condanna dell’innocente, ai soprusi del ricco.

Se vuoi la pace prepara la pace, si diceva alcuni anni fa ribaltando il vecchio adagio latino “si vis pacem para bellum”. Per costruire una società pacifica bisogna partire da lontano, iniettare nella società una massiccia dose di idealità e di etica. Non bisogna fare tabula rasa del passato e nemmeno affidare tutti i sogni al futuro. Bisogna stare nel tempo, raccontare l’adesso con lo sguardo libero e la mente sgombra da pregiudizi. E affidare questo racconto agli occhi di Domani.

Francesco CominaFrancesco Comina (1967), giornalista e scrittore. Ha lavorato al settimanale della diocesi di Bolzano-Bressanone "il Segno" e ai quotidiani "il Mattino dell'Alto Adige" con ruolo di caposervizio e a "L'Adige" di Trento come cronista ed editorialista. Collabora con quotidiani e riviste in modo particolare sui temi della pace e dei diritti umani. È stato assessore per la Provincia di Bolzano e vicepresidente della Regione Trentino Alto Adige. Ha scritto alcuni libri, fra cui "Non giuro a Hitler. La testimonianza di Josef Mayr-Nusser" (S. Paolo), "Il monaco che amava il jazz. Testimoni e maestri, migranti e poeti" (il Margine), con Marcelo Barros "Il sapore della libertà" (la meridiana) e con Arturo Paoli "Qui la méta è partire" (la Meridiana). Con M- Lintner, C. Fink, "Luis Lintner. Mystiker, Kämpfer, Märtyrer" (Athesia), traduz. italiana "Luis Lintner, Due mondi una vita" (Emi). Ha scritto anche un testo teatrale "Sulle strade dell'acqua. Dramma in due atti e in quattro continenti" (il Margine). Coordina il Centro per la Pace del Comune di Bolzano. 
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