La Lettera

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Mario LAVAGETTO – Europa nera, Italia ad personam

23-06-2009

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Non c’è giornale, non c’è osservatore che non abbia dedicato la propria attenzione al fenomeno che ha caratterizzato le elezioni del 6 e del 7 giugno: con poche e marginali eccezioni, dovunque una decisa svolta a destra e l’avanzata massiccia di forze xenofobe e razziste. Tra le molte diagnosi che sono state avanzate, una sembra imporsi in modo inequivocabile: alla base ci sono l’incertezza, la paura che, in questo inizio di terzo millennio, ossessionano le grandi masse e producono rancore, aggressività, ricerca di risarcimenti a basso costo sul palcoscenico di un immaginario monco, addestrato e addomesticato dalle televisioni.

Credo, tuttavia, che sarebbe opportuno distinguere tra una paura primaria, “strutturale”, legata alla crisi economica mondiale e alle sue ripercussioni drammatiche nella sfera della vita individuale, e una paura derivata, di secondo grado, che in parte si edifica per forza spontanea e in parte viene intenzionalmente costruita e alimentata sul piano delle “ideologie”.

E’ la paura primaria che, in modo più o meno coperto e avvertibile, fornisce la base dell’altra paura, quella che – sul piano delle scelte politiche – determina in buona parte la deriva a destra. L’incertezza sull’immediato futuro, la difficoltà a programmare anche a breve termine, a dare alla propria esistenza una configurazione non adombrata dalla precarietà, producono una violenta e tragica crisi identitaria che investe tanto la sfera della vita privata quanto la classe, il ceto di origine. Chi un tempo, con maggiore o minore consapevolezza, era identificato e protetto dalla sua forte appartenenza a una determinata classe, che trovava in essa una ragione di orgoglio e di resistenza, nel momento in cui ha visto i confini di quella classe stingersi progressivamente e tramontare dall’orizzonte di quasi tutte le forze politiche, si è ritrovato a fare i conti solo con se stesso e con la rovina delle sue aspettative. Si è creata in tal modo una pericolosa deriva e i singoli hanno trovato una supplenza alla loro labile identità sociale attraverso la demonizzazione e il rifiuto del diverso, la convinzione indotta – ma difficilmente estirpabile – che l’altro (il nero, l’extra-comunitario, l’albanese, il rumeno, lo zingaro) sia il responsabile e il colpevole non solo dei furti, degli stupri, delle violenze, ma anche della povertà e della precarietà e delle quotidiane sofferenze di chi non arriva alla fine del mese.

Chiunque ha avuto occasione di affrontare, anche occasionalmente, simili questioni e ha avuto come interlocutori persone che lavorano, che vengono da una tradizione P.C.I. e che oggi non votano per la Lega, ma votano – nel modo che credono più conforme alla propria tradizione – per il Partito democratico, si è dovuto accorgere che, arrivati a un certo punto, si urta quasi sempre contro un muro invalicabile. Di fronte ai fantastici privilegi di cui godrebbero gli immigrati non c’è argomento, non dato, non appello alla ragione o alla semplice ragionevolezza che abbia qualche effetto. Al massimo, e nel migliore dei casi, si ottiene un faticoso assenso alla condanna della repressione e dei trattamenti inumani, ma si è ancora lontani dall’accettazione di una società multietnica e plurale, basata su diritti e obblighi condivisi, perché ancora una volta resistono due entità distinte, inconciliabili e inassimilabili: “noi” e “loro”. E poca, o nessuna, efficacia ha ricordare che in quel “noi” vengono compresi i leghisti, i fascisti, i razzisti, gli speculatori, gli evasori, i servi del principe e il principe in persona con le sue leggi, la sua tracotanza, la sua violenza e la sua intollerabile, quotidiana ed esibita volgarità (di pensieri, di parole, di minimi gesti, di atteggiamenti, di costume).

Qualcuno dice che tutto questo deriva dall’incapacità storica della sinistra di promuovere una cultura diffusa e realmente partecipata, da una carenza originaria di attrezzature adeguate e di programmi culturali di ampio respiro. Può darsi. Anzi è probabile che la diagnosi abbia un fondamento reale. Eppure, nella situazione attuale, e di fronte alla impenetrabilità dei pregiudizi e delle ideologie ibride che hanno preso forma negli ultimi venti-trent’anni, c’è da chiedersi se la cultura in quanto tale (così come è stata pensata e difesa e delineata da generazioni di intellettuali del secolo scorso) sia ancora, in questo inizio di terzo millennio, un’arma utilizzabile e se possa davvero proporsi come terreno di confronto e di scontro. Non solo. C’è da chiedersi anche se la figura stessa dell’intellettuale sia ancora conforme alla fisionomia che ha assunto nel corso del ventesimo secolo o se quella fisionomia (con la sua storia e i suoi retaggi) non sia ormai condannata a un’inevitabile declino.

Fatto sta che la sensazione di trovarsi disarmati e inermi di fronte allo strapotere dei grandi mezzi di manipolazione di massa è fortissima, e fortissima la tentazione di arrendersi e di rifugiarsi nel proprio lavoro e nel privato. E, tuttavia, mi sembra che ci siano ancora dei compiti minimi che con umiltà e molto realismo si possono affrontare. Prima di tutto, e nonostante tutto: non tacere. Non rinunciare mai, per nessuna ragione, alla responsabilità della testimonianza (e quale che sia il numero degli ascoltatori) sfruttando ogni occasione, ogni possibile interstizio, ogni faglia che si apra nell’apparato di omologazione da cui si è circondati. Non tacere e dire sgradevoli verità. Quando, ad esempio, il segretario del partito democratico pensa di liquidare elegantemente (si fa per dire) la questione delle fotografie pubblicate dal “El Pais” con un’alzata di spalle derubricandole a semplice “gossip”, c’è da replicargli che in tal modo nasconde (o non vede ed è, se possibile, ancora peggio) uno dei problemi più gravi che affliggono (e non da oggi) la politica italiana: la questione morale. Una questione morale che trova nelle leggi ad personam, nella menzogna sistematica del presidente del consiglio, nella sua arroganza, nella corruzione di cui è promotore, nel fasto rozzo e villano delle sue feste e delle sue prebende, il proprio fulcro.

Ma che non si esaurisce qui: ha infinite ramificazioni che si spingono in tutte le direzioni, che permeano il quotidiano vivere associato, improntano gli stili di vita e coinvolgono anche – bisogna dirlo – il costume politico della sinistra. Fa parte della questione morale leggere i risultati per quello che sono e trarne le conseguenze. Fa parte della questione morale l’onestà non solo di fare un passo indietro, ma di uscire definitivamente di scena una volta che si è sostenuta una linea politica fallimentare o, peggio ancora, si è deciso di non scegliere alcuna linea politica coerente, riconoscibile e davvero alternativa a quella pasticciata e populista della destra. Chi per anni e anni ha accumulato errori e sconfitte, chi ha creduto che il berlusconismo fosse in qualche modo coniugabile con la democrazia, chi porta la responsabilità di non avere promosso una decente legge sul conflitto di interessi, chi ha lasciato sussistere una vergognosa legge elettorale, chi ha rincorso l’irrealizzabile chimera di un bipolarismo rigido e incompatibile con la realtà italiana, chi si è assunto la responsabilità di frantumare ogni possibile coalizione delle forze democratiche, chi ha minato in ogni modo la sussistenza e la rappresentanza della sinistra e chi, anche a sinistra, ha rifiutato la costituzione di una lista unitaria che avrebbe scongiurato un esito altamente prevedibile, chi infine ha creduto che un partito (il Pd) potesse nascere attraverso una pura sommatoria di voti senza che alla base ci fosse un ben preciso pacchetto di principi e di valori condivisi: tutti costoro (per rispetto della questione morale) avrebbero di fronte a sé un unico e urgente compito, quello di preparare una rapida e non traumatica successione.

Purtroppo bisogna dire che i primi segnali non sono incoraggianti: a sinistra si riconosce l’assoluta necessità e indilazionabilità di riunire i due tronconi che si sono divisi pochi mesi fa, ma riconfermando in modo più o meno esplicito, da una parte e dall’altra, le posizioni che hanno condotto a una drammatica rottura. Nel Pd, di fronte a un messaggio chiaro e inequivocabile come quello rappresentato dal caso Serracchiani, spunta la luminosa idea di associare la stessa Deborah Serracchiani, in base all’antico principio della cooptazione, alla segreteria di Franceschini; oppure si guarda a D’Alema che riunisce i suoi “fedelissimi” per portare alla segreteria Pierluigi Bersani (o, magari, lo stesso rispolverato D’Alema). E intanto si attende il ritorno di Veltroni…

Molto spesso, in questi giorni, si sente ripetere che è necessario, urgente “tornare a fare politica”. Ma – ci si potrebbe chiedere – perché mai si era smesso di fare politica? E chi aveva smesso non dovrebbe – per la semplice responsabilità di avere smesso di fare quello che era delegato a fare – abbandonare una volta per tutte la partita?

Mario Lavagetto ha insegnato Teoria della Letteratura all'Università di Bologna. Ha scritto saggi pubblicati da Einaudi e Bollati Boringhieri. Ha curato diverse edizioni di classici dei Meridiani Mondadori.
 

Commenti

  1. E gli intellettuali ritrovarono la politica

    Vogliamo ricominciare a parlare della politica? Mi sta bene, anzi lo ritengo proprio indispensabile e indilazionabile un nuovo discorso “in presa diretta” da parte degli scrittori. Mi sia però consentito partire un poco da lontano, come per prendere la rincorsa prima del salto in lungo, dunque di riferirmi agli scritti di un intellettuale che è stato molte volte bollato con la definizione un poco infamante di ” conservatore” , sia pure, per certi tratti, geniale: Karl Kraus, di cui è uscito in questi giorni in italiano il libro più compatto e ricco di suggestioni ancor oggi preziose (ricordo che Karl Kraus, nato in Boemia nel 1874, è vissuto sempre a Vienna, fino al 1936, anno della sua morte), vale a dire La muraglia cinese (Lucarini Editore, Roma, 1988, pag. 244, lire 16.000; prima edizione a Monaco da Albert Langen, l’editore di “Simplicissimus” nel 1910, con grande successo di pubblico). Certo, va detto subito, che Kraus può essere preso “a piccole dosi” e tenendo sempre ben presente il suo grandioso fallimento. E’ stato, infatti, una delle più intelligenti e illustri vittime di quella tragedia della separatezza tra intelligenza e società nuova, di massa, che ha falcidiato molti intellettuali europei prima dell’ultima guerra.
    Ebbene, nell’articolo intitolato “Politica”, del 1908, Kraus scrive: “Ciò che della politica continuamente mi attira e mi dà da pensare è il fatto che la politica esista. La considero una maniera di risolvere le questioni serie della vita tanto efficiente quanto lo é il gioco dei tarocchi; e dato che esistono persone che vivono del gioco dei tarocchi, il politico di professione è senz’altro un fenomeno plausibile. Tanto più se riesce a vincere sempre a spese di coloro che non partecipano al gioco.”
    Ora noi siamo a una svolta, una svolta che ci appare giorno dopo giorno decisiva: non possiamo più concepire la politica come un gioco ermetico, misterico; non possiamo più tollerare la separatezza ormai istituzionale dai problemi reali della società contemporanea. Per questo dobbiamo considerare la velenosa ironia di Kraus come un segnale che ha precorso i tempi che ora vengono a maturazione.
    Quando si ha il coraggio di dare la preminenza ai programmi invece che al nebuloso e truccato discorso di una politica che entra in campo solo per riprodurre se stessa, ci si avvia a quella che si può davvero definire, con una metafora che ritengo efficace, “una mutazione genetica”. La politica smette di essere una tecnica di autoriproduzione e di esercizio del potere fine a se stesso, e va, finalmente, verso le cose, ha il coraggio di affrontare il reale. Questa può e deve essere la vera rivoluzione che parte dal nostro tempo.
    Ma una “mutazione genetica” è un accadimento di enorme portata culturale (e intendo il termine cultura nel suo significato più ampio, antropologico, di sistema di relazioni tra gli uomini), dunque gli intellettuali non possono che abbandonare l’illusione romantica della propria incontaminata salute mentale e andare verso le cose, con lo stesso coraggio della nuova politica che fa piazza pulita dei vecchi e colpevoli schemi di funzionamento. Senza paura di sporcarsi le mani, come si diceva una volta, perchè tanto le mani non rimangono pulite in nessun modo.
    Si diceva dell’emblematico fallimento di Karl Kraus, autorecluso nella sua piccola prigione, la famosa rivista “Die Fackel” (La Fiaccola), che dal 1912 in poi ha scritto tutto da solo, rifiutandosi di affrontare il grande problema dei linguaggi in una società profondamente cambiata, se non per condannare indiscriminatamente il nuovo.
    Ma abbiamo avuto e abbiamo, da noi, ben altri esempi e in positivo. Da questo punto di vista va fatto ancora tesoro della lezione di un grande maestro di molti, Luciano Anceschi, di cui è uscita proprio in questi giorni la raccolta di tutti i suoi “interventi” (Longo Editore, Ravenna, 1988, pag. 232, lire 25.000) scritti per la rivista “il verri”, da lui fondata nel 1956 e oggi ancora operante. L’esempio di un grande intellettuale come Anceschi va messo bene in evidenza proprio perchè il suo ormai più che trentennale discorso pubblico, dunque anche fortemente politico, ha tracciato con precisione le coordinate per un percorso attivo della letteratura e della cultura, intesa come fatto unitario, con profonda avversione per la pretesa divisone tra due culture diverse e opposte (l’umanistica e la scientifica).
    Scriveva Anceschi nel 1957, che la poesia, va considerata: “come qualcosa che vive nel pieno sviluppo delle relazioni interne che la riguardano e delle relazioni con le altre attività umane”. E ancor prima, nel 1956, parlava di un “aperto sentimento della letteratura in cui tutto rientra, dalla filosofia alla scienza, dalla morale alla politica, dal costume allo sport”. Su queste basi è stato concepito il lavoro culturale, di formazione e progetto, di una rivista come “il verri” che tanta parte ha avuto nel guidare i percorsi di molti intellettuali che proprio con “il verri” hanno imparato ad andare verso le cose, nel pieno rispetto, tra l’altro, della grande tradizione lombarda e milanese, dai fratelli Verri, appunto, a Giulio Cattaneo, a Manzoni.
    Certo, sarebbe davvero ingenuo sostenere ancora una contrapposizione tra intellettuali e politica, e delineare un confronto in cui gli intellettuali dovrebbero fare la parte dei “liberi e puri”, incontaminati giudici di tutto, ad esclusione di se stessi. Se ci sono dei colpevoli, in giro, e dei responsabili, allora lo siamo tutti. Per questo è necessaria una svolta e un nuovo modo di interazione tra cultura e politica. Quando sento dire che nelle relazioni preparatorie del prossimo Congresso del P.C.I. c’è poca politica e troppa cultura mi fa soltanto piacere, significa che ci siamo, che siamo sulla strada giusta. Sono gli intellettuali, adesso, a dover dimostrare un nuovo coraggio e non possono certo sentirsi chiamati al ruolo un po’ ridicolo di “angeli salvatori”. Direi il contrario; gli intellettuali in formazione sparsa somigliano sempre più a pattuglie disperse nel deserto e il momento dello smarrimento ha coinciso proprio con l’abbandono dell’impegno politico.
    Il discorso dell’impolitico, un tempo caro agli intellettuali della fallimentare separatezza, mi pare che oggi funzioni solo da alibi: di fatto il discorso va rovesciato: è la politica che sta cambiando corpo, non solo pelle, è la nuova idea della politica che ci può indicare una strada tra le cose, chiamiamola così, che rende superflua, anzi dannosa, la posizione “impolitica”, per la semplice ragione che fa riferimento a una “politica” che non può più reggere neppure a se stessa.
    Si deve dunque parlare di un “nuovo impegno”, di un pensiero che torna a essere forte e non si rassegna ad amministrare la posizione di rendita dell’osservatore distante e rassegnato dello status quo? La mia risposta è decisamente positiva.
    Antonio Porta
    in LUnità, 18 febbraio 1989

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