La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

Inchieste » Quali riforme? »

Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

Inchieste » Dov'è la pace di Obama? »

Iraq, l’invasione americana che non finisce mai. Nessuno vuole più marines, mercenari e le guerriglie sciite, ma come dirlo senza perdere l’ombrello di Washington o di Teheran?

18-07-2011

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Al-Jazeera English: l’avvenente anchor da Doha é una specie di detective degli intrighi internazionali, assetata di pistole fumanti. Afferra la penna fra le dita laccate e scocca la linea ad esperti analisti a Parigi, Teheran ed Erbil, pretendendo una risposta secca. “Il nuovo segretario alla difesa statunitense, Leon Panetta, ha dichiarato che l’Iran arma milizie sciite irachene contro i marines, e che provvederá unilateralmente a restituire il colpo. Si prevede una escalation?”. Quanta fretta, bionda. Vuoi tutto e subito, eh? Ma no, sono i tempi della televisione. Non puoi perdere il pubblico, aiuto-cambiano-canale. Due degli ospiti scattano come i corridori dopo lo sparo, duellando con grazia e decisione: uno presentano l’Iran come il drago che sputa fuoco (“mamma li iraniani!”), l’altro sostenendo che al mondo non ci sono draghi al di fuori degli Stati Uniti (“non avrai altri draghi al di fuori di lui”). Ciascuno ha forse tre minuti per convincerci. Fondamentale la spontaneitá del sorriso da persona-ragionevole alla fine del discorso. Il terzo ospite, un ricercatore americano-iracheno, é l’unico a menzionare il dovere di interpellare un attore di cui si tende a parlare in forma passiva: l’Iraq. Paese occupato prima da Hussein e poi dagli Stati Uniti. Paese sempre raccontato, torturato e ricucito, soccorso, fregato, zittito, “stimolato” e “protetto” da altri.

Altrove, tante repubbliche centroamericane avrebbero anche un loro inno nazionale per fare un po’ di scena, ma galleggiando sotto i baffi degli Stati Uniti, cosa-vuoi-farci. Anche l’Iraq ha la sfortuna di trovarsi… “lí”, come direbbe la sessuologa Merope Generosa – interpretata da Anna Marchesini. Troppo vicino al portafoglio palpitante yankee nella zona Golfo. C’é la crisi, e gli Stati Uniti tengono famiglia.

Un accordo in bilico

C’era una volta un accordo stipulato fra il governo iracheno e quello statunitense per decidere il ritiro degli ultimi 50 mila marines entro il 31 dicembre 2011: il solenne US-Iraqi Status of Forces Agreement (SOFA). Secondo l’analista Robert Herriman, peró, ripensamenti malinconici fluttuano da mesi negli uffici di alcuni generali del Pentagono. Tamburellando con le dita e sorseggiando il caffé, ci pensano su: ce ne vogliamo veramente andare? Di certo, gli orologi americani e quelli iracheni non ticchettano all’unisono. I primi avrebbero voluto democrazia, stabilitá e libero mercato all’istante. I secondi, mica la Coppa del Mondo, ma magari elettricitá ed acqua potabile nelle case- non era forse prevista una ricostruzione dopo la distruzione?

Un elemento peró accomuna i destini elettorali dei due governi: la scommessa politica del doppio linguaggio. Uno é quello politico: c’era una volta una campagna critica contro l’occupazione irachena, in appoggio della promessa obamiana per una exit strategy, portata avanti dal Washington Post, The New York Times e tanti altri. L’altro é quello militare: dopo la leggendaria dichiarazione “mission accomplished” di W. Bush, sono passati “ben” 8 anni, o “solo” 8 anni di presenza statunitense? Obama é grosso modo d’accordo con tutti su tutto: sull’andarsene dall’Iraq e anche sul fatto che un contingente debba rimanere. Il “d’accordo, ma anche no”, dal sorriso competente, che lo rende irriconoscibile come rivale dei repubblicani. Anche un occidentale fedele al bombardamento altrui della nostra democrazia si potrebbe chiedere, dopo 8 anni: rimanere in Iraq sulla base di quale principio? Ma quanti bizantinismi teorici! I media allora devono infarinare qualche versione stuzzicante, fra le quali: “le forze irachene non sono pronte a difendere il territorio”, “la democrazia irachena é fragile”, “il paese non é sufficientemente stabilizzato”. E quando gli sará possibile mettersi alla prova?

Sondaggi in Iraq?!

La democrazia irachena é all’infanzia o al massimo all’adolescenza: non sa, non pensa, o forse sí, ma non deve decidere. Secondo Carrie Manning, l’amministrazione W. Bush sosteneva che l’Iraq non fosse pronto per le elezioni, quando appunto il risultato delle elezioni non sarebbe stato quello “giusto”. Solo le proteste irachene hanno ricordato agli americani che le elezioni sono necessarie in un regime democratico. Inoltre, udite udite, esistono sondaggi di opinione anche in Iraq. Il Foreign Policy Journal li riunisce online in una lunga lista: realizzati sia da centri accademici come l’Oxford Research International, sia da attori politici come, fino al 2004, dalla stessa Autoritá Provvisoria della Coalizione. Tutti i sondaggi a confermare, anno dopo anno, una amara consapevolezza da parte della cittadinanza irachena: l’elemento principale che aggrava la situazione della sicurezza in Iraq é precisamente la presenza statunitense. Il nazionalismo iracheno non é piú un dibattito sull’avere o meno un padrone della vita e della morte. Fra la cieca obbedienza al folle dittatore Hussein (che si considerava la quintessenza dell’Iraq), e chi invece ha cercato di resisterlo, come i curdi e gli sciiti, a centinaia di migliaia nelle fosse comuni dell’eroismo. Nel post-Saddam, i politici iracheni discutono su cosa intendere per “sovranitá nazionale”, sull’opportunitá di avere un “tutore straniero”, e riuscire chissá come a vendere elettoralmente l’idea di “padroni a casa nostra”. Le infinite lungaggini del governo di Al-Maliki per prendere qualsivoglia decisione riflettono anche il fatto che ora, ai partiti sunniti, andrebbe bene condividere il tavolo dei negoziati con gli ex nemici statunitensi (in chiave pro-saudita e pro-israele, quindi anti-iraniana) e per conservare o magari aumentare il loro potere relativo. Ma non possono dirlo apertamente, altrimenti l’elettorato iracheno non li rivoterebbe. D’altra parte, ai partiti sciiti, amici dell’Iran, non conviene piú tollerare gli ex-alleati statunitensi, perché non saprebbero come giustificare la loro presenza.

Il romantico bisogno di governi amici quanto di governi nemici

Qualcuno é ancora commosso di fronte alle bare fasciate con la bandiera dell’esercito della democrazia, e reitera “il sacrificio umano e finanziario” di questa impresa senza happy né sad end, perché pare proprio senza end…a lui pare rispondere l’ambasciatore statunitense in Iraq, James Jeffrey: “finiremo il lavoro e compenseremo il sacrificio fatto, o rischieremo interessi di sicurezza nazionale e cederemo il campo a terroristi e ad altre pericolose influenze regionali”. Qualche altro invece considera che gli Stati Uniti sbagliano all’ignorare i sondaggi e non sognare nemmeno di permettere un referendum affinché gli iracheni decidano sulla loro permanenza militare nel paese. Qualcun’altro ancora, glielo fa capire con le armi che la porta é lá, come si suole fare dai tempi dei tempi, anche senza ideologie islamiche di mezzo. Ecco finalmente l’amo mediatico col quale pescare nuovi consensi: il problema non é né entrare in Iraq né rimanerci. Il problema é chi questiona l’idea che questo sia legittimo. Pare che in Iraq occorra dimostrare la propria “democraticitá” giustificando lo status quo. Eppure in tutto il mondo la gente protesta perché la propria voce non é quella della propria classe politica. Per restare, i marines devono avere una giustificazione difensiva: c’é quindi bisogno di un Iraq eternamente a ferro e fuoco. Oddio, non c’é piú Bin Laden, non c’é piú Saddam: chi li potrá mai sostituire? Ci mancava tanto il duello da Guerra Fredda, Iran e Stati Uniti.

Azzurra CarpoSpecialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).
 

Commenti

  1. Angelo Tumino

    Senza offesa, ma mi sembra che di Iraq Lei non ci capisca una m.a.z.z.a. Tanto solo per sottolineare alcune cose significative: i curdi e gli sciiti, di cui tanti sono finiti “nelle fosse comuni dell’eroismo” (che frase stupida!!) sono quelli che hanno massacrato centinaia di migliaia di iracheni con le seghe elettriche e altri begli oggettini (mai sentito parlare di fosse comuni?).
    Sicuramente gli USA sono responsabili SOLO in Iraq almeno di un milione di morti, eppure la nostra balda cooperatrice ci parla di Leon Panetta, di Bush, di Obama ma si riferisce a Saddam Hussein chiamandolo “folle dittatore” e occupante del suo paese (questa e’ proprio forte!). Se volevi farci capire che gli americani sono i tuoi idoli ci sei riuscita. Ma ricordati, che se il Presidente Hussein fosse realmente stato “occupante” del suo paese, non ci sarebbe stata la grande Resistenza del popolo iracheno. Ma questo forse e’ di difficile comprensione per te.

  2. Mustafa Alkateb

    L’articolo scritto da Azzurra Carpo è molto interessante e denso di informazione. Sono contento di leggere una simile analisi sul mio paese, l’Iraq, in un giornale italiano. E’ molto bilanciato. E mentre condanna chiaramente la politica americana, indica allo stesso tempo che gli iracheni sono stati duramente repressi dal regime del dittatore, Saddam Hussein. Quello che veramente mi ha fatto sentire provocato è il commento sopra. Io chiedo solo a chi lo ha scritto: cosa conosci dell’Iraq e degli Iracheni?
    Non difendo la politica americana nè l’occupazione, e mi sembra chiaro che non lo fa nemmeno la giornalista Carpo. Ma devi avere la capacità di dare un giudizio giusto senza ignorare le fosse comuni fatte dal dittatore e dal suo regime fascista. Io ero in Iraq quando sono venuti gli Americani, e posso assicurarti che la maggioranza degli iracheni erano felici di fare a meno del dittatore. Quello non significa che erano felici del vedere il loro paese essere invaso, e per questo hanno responsabilizzato principalmente le stupide politiche del tuo dittatore favorito. Gli iracheni erano sufficientemente coerenti e pratici, a differenza di te, per essere critici del passato e del presente, e odiare allo stesso tempo sia il dittatore che l’occupazione. Ecco perchè vogliono la fine della occupazione americana adesso, in modo da avere una vita migliore di quella che hanno avuto prima, sia sotto un dittatore fascista che sotto una occupazione straniera. Grazie.

  3. Sandro

    Buon punto, Mustafa. Forse un po’ di “comprensione di lettura” non gustasterebbe a certi lettori. O forse non sarebbe sufficiente, perchè chi vede il mondo in forma manichea (tutto il bene sta da una parte, e tutto il male dall’altra), tende ad essere violento a cominciare dal linguaggio che sceglie di usare con chi discrepa da lui. La grande prova per chi cerca di capire qualcosa delle complesse situazioni in medio oriente, è giustamente non cadere nei tranelli ideologici della politica internazionale, nè dei fondamentalismi, nè dei media al servizio di entrambi. Questo articolo si distanzia da tutti i grandi poteri che hanno oppresso lo sconosciuto (a noi) popolo iracheno. C’è da imparare. Sandro.

  4. Liliana

    Ottimo articolo e corretta “lettura” delle infinite lungaggini del governo di Al- Maliki e delle ambiguità dell’exit strategy di Obama, che vuole andarsene, continuando a “rimanere”.Mette in luce il dilemma in cui si dibattono le diverse anime( sunniti-sciiti-curdi) dell’Irak,all’interno del complesso scacchiere strategico del Medio Oriente.Come dice acutamente la giornalista, “Irak, paese occupato prima da Hussein e poi dagli Stati Uniti. Paese sempre raccontato, torturato e ricucito, soccorso, fregato, zittito, stimolato e protetto da altri”. Giustamente, l’articolo si chiede: “Quando sarà possibile un Irak, senza più tutori nè interni nè esterni?”.

  5. Sonia Nieri

    Non deve essere facile governare in Iraq, fra pressioni esterofile-servili e nazionalismi di diversa indole. Ma come giustamente segnala l’articolo occorre ascoltare cosa vuole quel popolo negato, e non inventare alcuna scusa paternalista per dilazionare il molmento in cui prenderanno il loro destino nelle loro mani. E´proprio cosí. Brava. Sonia Nieri.

  6. Eliana Olivera

    Querida Azzurra te encontre contestame
    estoy muy orgullosa de ti te extrano

    tu amiga

    eliana

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