La Lettera

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Kabul, ipocrisie e Costituzione italiana

21-08-2009

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A volte gli anniversari imbarazzano i giorni che attraversiamo. Si è votato in Afganistan con le nostre truppe di pace schierate attorno ai seggi per imporre  una democrazia sconosciuta a chi bagna l’indice nell’inchiostro e lo imprime nella scheda, voto a un capo tribù. Il quale non cambierà abitudini e liturgie del potere feudale, ma sarà un potere gradito a chi con le armi disegna strategie utili all’occidente: equilibrio nella gestione degli affari e quel cammino  dei tubi del petrolio, liberi – loro si – dai ricatti delle signorie locali. Per caso le elezioni coincidono con l’anniversario della Convenzione di Ginevra. Sessant’anni fa proponeva l’utopia di regole “ civili “ per guerre e prigionie. Sessant’anni dopo la Convenzione festeggia al cimitero. Nessuno ha voglia di ricordarla mentre continuano i massacri. Torture ufficiali dell’amministrazione Bush per proteggere la sicurezza del mondo libero dalle minacce delle forze del male. Le cronache non trascurano la violenza ma le conclusioni restano serene: abbiate pazienza, è il primo passo verso la civiltà evoluta di una società medioevale. Annuncio di un futuro diverso, ma per chi ? Non per  le donne scite prigioniere del burka che avevamo giurato di strappare per trasformare i fantasmi blu nelle compagne  che sorridono alla vita.  La minaccia dei talebani non le ha sfiorate. Il patto elettorale tra il nostro alleato Karzai e i fondamentalisti islamici le ha escluse dal voto. Intanto bombe che scoppiano e militari italiani che finiscono all’ospedale. Nessun dubbio sull’elogio alla democrazia  quando le urne confermeranno il presidente che già sappiamo chi è, e se non sarà Karzai sarà il notabile della tribù rivale: riti e abitudini non cambieranno. I bollettini raccontano di 873 vittime civili in 40 giorni, errori dei quali ci scusiamo,  normali risvolti delle missioni di pace. Ma sulla parola pace il dubbio diventa pesante. Increspa la serenità dei  ministro Frattini; spegne il sorriso del ministro  La Russa. “Quasi guerra” sospira il custode della difesa, non per trasalimento morale: servono armamenti aggressivi per non sfigurare con i superman dei paesi alleati. Se poi donne e bambini s’impolverano nelle macerie si tratta di fatalità standard nel mondo globalizzato che spara.

Durante la prima guerra mondiale il 90% delle vittime portava la divisa. Alla fine della seconda, la reazione agli orrori ha generato la Convenzione di Ginevra quando i morti erano metà militari e metà gente qualsiasi. “Tragedie insopportabili”. Oggi l’85% delle vittime passeggiava o dormiva lì, mangiava il gelato o pedalava su vecchie biciclette. O fumava per strada anche se il fumo fa male, ma  fa male alle cravatte delle nostre città, non ai senza nome che un attentato o il missile che piove dal cielo ogni giorno porta via. Fumano per lasciarsi andare, sfidando un pericolo che non è tabacco al quale affidano l’illusione di riscaldare lo spirito nella speranza di comparire al profeta col sorriso sulle labbra. Sugli errori delle truppe di pace  tornano le spiegazioni del passato. Hans Frank, massacratore del ghetto di Varsavia, si scusava coi giudici di Norimberga: “I  banditi  che contrastano le leggi della razza si mescolavano alla popolazione civile. Non ho avuto scelta nel riportare l’ordine”. Sessant’anni dopo impossibile distinguere popolazione e combattenti e per sbrigare gli ordini degli alti comandi, bombe al fosforo, missili e cloni senza pilota: ogni ombra diventa un nemico in Afghanistan,  a Fallujia, in Cecenia o nella Palestina di quando Israele conquista Gaza. Noi quasi sempre lì. Non solo con armi e stellette: giornalisti embedded attraversano le Tv travestiti da marines. “Il nemico ci tiene sotto tiro. Aspettiamo la notte…”. Spettatori Tg1 che non dormono al pensiero della nostra ragazza in pericolo sotto l’elmetto americano. La cronaca spettacolo si nutre del coraggio dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle.

Nel gennaio 1991 padre Giuseppe Dossetti incontra un giornalista del Corriere della Sera nel suo ufficietto attorno al Monte Nepo, Giordania affacciata su Israele. La lunga marcia di Mosè durante la fuga dall’Egitto si era fermata qui. Il Dossetti degli anni quaranta era la mano sinistra della giovane Democrazia Cristiana. Ma la politica lo ha deluso e la vocazione é cambiata nel raccoglimento della preghiera e lo scavare fra le radici della fede. In quel ‘91  rompe il silenzio lungo 35 anni per protestare contro la violazione dell’articolo 11 della Costituzione italiana: proibisce ai militari e alle armi di superare i confini per combattere su fronti lontani. Ne era stato l’ispiratore mediando tra De Gasperi e Togliatti e non sopportava che nel primo giorno della prima guerra del Golfo  il primo aereo abbattuto su Bagdad fosse un bombardiere italiano. “Hanno tradito la Costituzione con la contorsione grottesca delle truppe di pace”. Sono passati 18 anni, nessuno ha abrogato il divieto dell’articolo 11. Adesso i  ministri ammettono – macché operazione di pace – ma non muovono un dito. Il tradimento alla Costituzione continua. Sulla tomba della Convenzione di Ginevra nessun discorso e nessuna i ipocrisia. Non fiori e impossibili opere di bene. Le armi continuano a parlare della nostra civiltà.

 

Commenti

  1. Elena Antonelli

    Ho apprezzato molto il testo, mi piecerebbe che l’autore leggesse e intervenisse con un suo testo in merito all’antologia e-book “Calpestare l’oblio” http://www.lagru.org o in MicroMega o in “Tra nebbia e fango”.
    Forse ne ha seguito il dibattito sui giornali. L’opera è un work in progress e ha bisogno di essere ampliata e supportata da intellettuali onesti e coraggiosi in difesa della memoria costituzionale e repubblicana.

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