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Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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La parola "precario" - aggettivo che il disastro contemporaneo ha sostantivizzato, "il precario", "i precari" - secondo un’ipotesi etimologica terrebbe in sé il tema del precor (prego), che a sua volta sembra derivare da posco (chiedo). Precario significa "ottenuto come favore con preghiere". Un percorso, dall’originario "chiedere" al "pregare", che riflette curiosamente quello - culturale, sociologico, esistenziale - che il vero e proprio sconfinato esercito dei precari è costretto a vivere

Professione precario: come una generazione sempre più ampia viene privata di ogni diritto

06-10-2011

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Manifestazione precari scuola - Foto di SelProvate ad inserire la parola “precariato” su Google, e vi renderete conto che l’intera prima pagina di occorrenze riguarda la scuola. Un termine che nella lingua italiana designa una condizione che riguarda molte categorie – tutte le categorie, oggi – di lavoratori; ma che indicativamente, come Pof, competenza, collegio, viene individuata dal motore di ricerca come specifica o prioritariamente riferibile al mondo della scuola. Il precario per antonomasia è il precario della scuola. Vorrà pur dire qualcosa.

L’ultima Commissione d’inchiesta istituita presso gli organi del Parlamento italiano ad aver aperto un’indagine conoscitiva sul fenomeno preso qui ad esame risale alla XV Legislatura, anni 2006-7. Fino ad oggi, nonostante il drammatico consolidarsi del problema, non esiste nel panorama italiano alcuna stima sintetica, fornita in sede ufficiale e scientificamente attendibile, quanto a valutazione qualitativa e quantitativa del precariato. La carenza – abbastanza clamorosa, considerata la crisi economica che ha improntato gli ultimi anni della nostra storia – deriva probabilmente dalla difficoltà stessa di individuare in termini concreti la figura del precario, privo di un’adeguata veste statutaria, in ambito giuridico e sociale, che possa orientare lo studio in un processo certo di identificazione del fenomeno e dei suoi soggetti.

La difficoltosa classificazione di lavoro “precario” è infatti utilizzata quando, alla temporaneità del contratto, si combinino altre caratteristiche, come «in primo luogo […] una ridotta o assente copertura previdenziale; (la) mancanza di ammortizzatori sociali per la copertura dei periodi di vacanza contrattuale; una scarsa probabilità di transitare verso contratti stabili; […] una maggiore frammentazione del percorso lavorativo; (la) brevità dei contratti (tanti piccoli contratti che si rinnovano continuamente); un sottoinquadramento contrattuale rispetto al titolo di studio; lunghezza della permanenza nella situazione di incertezza contrattuale […]» (Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente Istat), p. 5.)

È recentissima, invece, l’indagine conoscitiva sul mercato del lavoro, tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, audizione parlamentare del 17 maggio 2011 del direttore generale del Censis, Giuseppe Roma, «In Italia, i giovani con meno di 35 anni, occupati con contratti flessibili (dalla partita Iva a monocommittenza all’apprendistato) sono 1 milione e 568 mila, circa il 25,1% del totale degli occupati appartenenti a questa fascia d’età: 566 mila circa hanno meno di 25 anni, 1 milione circa, tra i 25 e 34 anni. In termini di incidenza, tra i lavoratori con meno di 24 anni sono impiegati con contratti flessibili o atipici il 45,5%. La stragrande maggioranza (il 40,1%) ha un contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, che si configura nel 15,7% dei casi come un contratto di inserimento, apprendistato, finalizzato alla successiva stabilizzazione, il 20,5% invece, un contratto temporaneo, che può essere interinale, a termine, o di altro tipo. La restante parte, il 5,4% è costituito da lavoratori a progetto o con partita Iva che lavorano esclusivamente per un’azienda.

Nella fascia d’età successiva, tra i 25 e 34 anni, che costituisce la platea di flessibilità più numerosa, l’incidenza dei lavoratori flessibili è del 20%: il 14,2% ha contratti a termine e il 5,8% contratti atipici, di collaborazione a progetto o professionale. I settori in cui si concentra il maggior numero di flessibili sono i servizi (73% dell’occupazione totale) e in particolar modo il terziario sociale, ovvero i settori dell’istruzione, della sanità e di altri servizi sociali (23,2%), il commercio (15,8%), il terziario avanzato, vale a dire i servizi alle imprese e le attività professionali (13,3%), il settore turistico – alberghi e ristorazione (10,4%). Nell’industria trova invece occupazione il 22% dei lavoratori flessibili». Ecco il desolante quadro, offerto pochi mesi fa.
Secondo uno studio altrettanto recente di del Centro Studi della CGIA di Mestre, i precari sarebbero quasi 4 milioni (precisamente 3.941.400), il 56% circa occupato nelle Regioni del Centro Sud e con un incremento del 4%. tra il 2008 (inizio della crisi economica) ed il 2010 Questi lavoratori sono concentrati soprattutto nel settore della ristorazione e degli alberghi e nei servizi pubblici e sociali. Oltre il 38% ha solo la licenza media e tra gli under 35 il livello medio retributivo mensile netto è di 1.068 euro. Questo importo è inferiore del 25,3% rispetto a quanto percepisce un lavoratore con contratto a tempo indeterminato che svolge le stesse mansioni. Oltre il 38% dei precari italiani ha solo la licenza di scuola media inferiore.

Il precariato a scuola

Non è il caso dei precari della scuola. Quelli che Renato Brunetta ha chiamato “L’Italia peggiore”, quelli cui il ministro si è rivolto dicendo: «Voi non lavorate, siete dei poveracci». Quelli che si sono rivolti al ministro con cassette piene di titoli di studio, qualifiche e contratti indecenti. Non solum, sed etiam; cornuti e mazziati, se preferite. Tanto per rimanere in ambito latino: la parola “precario” – aggettivo che il disastro contemporaneo ha sostantivizzato, “il precario”, “i precari” – secondo un’ipotesi etimologica terrebbe in sé il tema del precor (pregare), che a sua volta deriva probabilmente da posco (chiedere).

Non si tratta di una notazione per semplice gusto di erudizione: semmai di uno dei tanti casi in cui lo studio etimologico affina la riflessione. Precario significa “ottenuto come favore con preghiere”; il percorso dall’originario “chiedere” al “pregare” riflette curiosamente quello – culturale, sociologico, esistenziale – che il vero e proprio sconfinato esercito dei precari della scuola e non solo ha dovuto e deve affrontare. Un esercito affamato ad arte e ad arte trattenuto da un fuoco di fila di promesse che, governo dopo governo, ci si è esercitati a profondere nel tempo breve delle campagne elettorali, senza mai dar seguito nei tempi lunghi della vita quotidiana.

Promesse vane

Una programmazione allegra, demagogica e irresponsabile delle previsioni di posti ha gettato negli anni sul mercato del lavoro – in nome di una flessibilità ante litteram – migliaia di donne e uomini che hanno prestato la propria opera senza garanzie definitive, spesso iniziando a lavorare ad ottobre e concludendo il giorno dello scrutinio estivo: ferie non pagate, sedi svantaggiate, mancanza di continuità didattica, mancanza di continuità nell’anzianità di servizio. Diritti a metà. Eppure si tratta di persone che hanno dato una mano concreta e consistente a mandare avanti la scuola italiana. Per mesi, per anni, coltivando una speranza di assunzione in ruolo che negli ultimissimi anni si è rivelata, per questa generazione di insegnanti maturi ed esperti, ma paradossalmente privata di diritti esigibili, inaspettatamente velleitaria.

Da qualche tempo – come nel più triste dei ciclici rituali cui siamo sottoposti – si parla molto di loro. Se ne parla perché sono stati e saranno loro a pagare (suggestivo lo slogan: “noi la crisi non la paghiamo”, che caratterizzò la prima fase della mobilitazione; purtroppo la storia si è incaricata di dimostrare il contrario) nel più insensato dei modi la più insensata delle manovre di taglio economico mascherata da politica del rigore e della serietà e da (contro)riforma scolastica: l’abbattimento di 82.000 posti di lavoro di docente e di 42.000 posti ATA nel triennio 2009-11, uno dei frutti del “risparmio” di 8 miliardi sulla scuola pubblica. Come è noto, non è ancora finita.

Tagli e modernità

Il mondo oggi si divide tra chi ritiene che la crisi si supererà tagliando e chi no. Gli appartenenti alla prima categoria sono molti di più, e pontificano trasversalmente da ogni postazione dell’arco parlamentare. Non si tratta di semplici tagli di fondi, di posti di lavoro, ma anche di tagli di diritti, di aspettative, di orizzonte di sviluppo e di crescita del percorso esistenziale. Da quando parole come flessibilità e mobilità sono diventate un valore aggiunto; da quando una malintesa interpretazione del concetto di modernità (acriticamente considerato positivo) ha equiparato quella condizione – della modernità, appunto – ad una sostanziale cessazione di garanzie (teorie ovviamente caldeggiate da chi di garanzie ha goduto e godrà per tutto l’arco della vita lavorativa) si sono aperti scenari sempre più inquietanti e si è ritenuto che le differenze patologiche (quali il precariato è) conseguenti alle scelte operate sul mercato del lavoro fossero le implicazioni necessarie di quella scelta di modernità arrembante. È da allora che posto fisso, stabilizzazione, tredicesima sono diventati termini che indicano non legittime aspirazioni, ma aneliti che segnalano, tradiscono l’incapacità di stare al passo con i tempi.

Professione precario

L’Italia, ormai, è una Repubblica fondata sul precariato. La scuola italiana, nello sconsolante panorama occupazionale nel nostro Paese, può addirittura vantare il non invidiabile privilegio di aver dovuto “inventare” una vera e propria formula per definire numerose migliaia di persone – i “precari storici”: laureati, a volte plurilaureati, che si sono sottoposti a prove concorsuali diversificate, che hanno subito letteralmente regole e condizioni imposte dallo Stato. Ma non sono riusciti ad entrare in ruolo. Hanno la stessa età che avevano i nostri genitori quando noi eravamo già grandi. Vivono uno stato di pseudo-adolescenza coatta: troppo adulti per cambiare strada, riciclarsi, inventarsi un mestiere “da grandi”, troppo giovani per metterci una pietra sopra.

Percepiscono lo stipendio quando vengono chiamati: il che avviene sempre più raramente fin dall’inizio dell’anno scolastico – al di là dei proclami trionfalistici che scandiscono i primi mesi dell’anno scolastico nella scuola targata Moratti-Gelmini. Spesso l’incarico slitta di un mese o due, anche di tre, in un Paese in cui si fa sempre più finta di non comprendere che la scuola per gli insegnanti inizia il primo settembre: è allora che si pianifica l’anno scolastico, si esprime al massimo la collegialità del corpo docente, si partecipa alla stesura dei progetti didattici, e poi si entra in contatto con le classi e, di conseguenza, si individuano le strategie didattiche compatibili con la situazione di partenza e si definiscono gli obiettivi.

Tutto questo ai precari è precluso. A molti di loro è precluso persino il pagamento annuale: molte supplenze decadono all’atto degli scrutini finali. E l’estate? Pazienza, si vedrà. In queste condizioni economiche pianificare una vita “normale” è estremamente difficile. In queste condizioni materiali e psicologiche, la precarietà rischia di diventare un dato esistenziale, un ricorso obbligato all’estemporaneità e all’improvvisazione, un navigare a vista, galleggiando in una perdita annuale di identità professionale, di rapporti, di energie, di buone intenzioni. Ogni anno una scuola diversa, colleghi diversi, studenti diversi, ogni anno iniziare daccapo, essere l’ultimo della lista, il ritardatario, quello che non rimarrà e perciò, fatalmente, conta un po’ meno degli altri.

Nonostante tutto ciò, continuano a mandare avanti una parte consistente della scuola italiana, con professionalità, con orgoglio, con la voglia di fare bene. La speranza dell’entrata in ruolo. Una speranza che la cura che la Gelmini ha amorevolmente somministrato alla scuola italiana ha reso sempre più vana. Negli ultimi anni, inoltre, lo Stato non ha certo evitato di avvelenare i rapporti tra le diverse categorie di precari: un continuo e contraddittorio succedersi di revisioni normative che ha spesso provocato veri e propri ribaltoni, scavalcamenti e sovvertimenti delle posizioni in graduatoria. Un caso per tutti: le graduatorie “a pettine”; le proposte di albi regionali e di reclutamento sulla base del diritto di nascita. Una “guerra tra poveri” alimentata da maldestri burattinai, incapaci di mettere mano in maniera dignitosa a un problema che mina la dignità di tante persone serie e preparate. In un Paese in cui il rispetto per il lavoro dell’insegnante è ormai prossimo allo zero.

Ingegneria del precariato

La crisi la pagano in primo luogo loro, i precari. Eppure il precariato è un fenomeno che è stato sapientemente costruito, edificato ad arte, per garantire di volta in volta assetti politici, promesse spese a fini elettorali, oltre che per marcare il passaggio da una scuola che si facesse realmente progetto culturale ed emancipante per tutti, come è stata in una breve, stagione di qualche decennio fa. Ora solo ricordo, a fronte di un’istituzione che – insieme al tempo-scuola – taglia programmaticamente, intenzionalmente diritti (lavoro e diritto allo studio), ma soprattutto recide nella coscienza collettiva l’idea di uguaglianza, l’idea di educazione, la nobile vocazione alla creazione di cittadinanza attiva e consapevole.

È la scuola usa e getta, in cui tutto è usa e getta: in primo luogo gli individui – studenti, docenti e Ata – che in essa gravitano. A fronte di un corpo docente scolastico italiano pari a circa 800mila unità, i candidati assunti con supplenze annuali (solo 20mila circa) o fino al termine dell’anno scolastico sono passati dai 64.000 del 1998/99 ai 116.973 del 2009/10: la maggior parte delle supplenze ‘lunghe’ stipulate dagli Usp riguardano la secondaria superiore (circa 40mila contratti), seguono le medie, la primaria ed i maestri della scuola dell’infanzia. Nel 1998 vi era solo un docente precario ogni 12 di ruolo, oggi uno ogni 7.

Il boom si deve a tre motivi: graduale innalzamento delle cattedre di sostegno (oltre 90mila in tutto, ma solo poco più della metà sono andate al ruolo), assunzioni sempre più limitate ed un decennio di scuole di specializzazione universitaria, le Ssis, da cui sono uscite decine di migliaia di abilitati. Lo iato tra le esigenze immediate delle scuole e la capacità di risposta da parte del ministero, la contraddizione tra tempi della didattica e tempi della burocrazia hanno fatto il resto.

Diritto: ultima frontiera della civiltà

Per fortuna esiste il diritto. In questi ultimi anni molte sono state le sentenze che si sono opposte alle politiche di distruzione di scuola pubblica e diritti. Una delle più eclatanti è stata quella del Tribunale di Livorno che, in una causa intentata da alcuni precari della scuola pubblica, chiarisce nella sua sentenza, depositata il 13.01.2010 (sentenza n. 1222/2009), che «Occorre considerare la realtà dei precari a tempo determinato che si trovano a lavorare con una serie di contratti ma di fatto continuativamente, senza mai vedersi riconosciuto il diritto ad uno scatto retributivo, contrariamente ai colleghi assunti a tempo indeterminato, che ne godono regolarmente.

Ciò ingenera un’indubbia situazione di differente trattamento fra i primi ed i secondi, trattamento diverso non giustificato da di dalità o dalla durata delle stesse, che sono identiche, pur se regolate da contratti diversi, gli uni a tempo determinato e gli altri a tempo indeterminato. Ciò inoltre appare palesemente
in contrasto con la sentenza della Corte Europea di Giustizia del 13.09.2007 e viene giustificato alla luce della contrattazione collettiva ritenuta fonte primaria».

Nel Contratto Collettivo Nazionale della Scuola, infatti, gli scatti di anzianità per i precari non sono contemplati, ma il Giudice di Livorno chiarisce in merito che «Detta contrattazione però è pacifico che non possa essere in contrasto con norme imperative e tale deve essere considerata la Costituzione della Repubblica Italiana che sancisce il principio di eguaglianza all’art. 3. Alla luce di detto principio appare anomala la situazione che si verifica atteso che i precari si vedono reiterare una serie di contratti a tempo determinato al posto di un contratto a tempo indeterminato.

La mancata previsione degli scatti di anzianità non impedisce di riconoscerli in base ai principi generali dell’ordinamento di uguaglianza e adeguata retribuzione, sanciti dalla nostra Costituzione, art. 3 e 36. Per questi motivi il ricorso va accolto e gli scatti riconosciuti.» (Cfr. Trib. Livorno sentenza n. 1222/2009). La sentenza della Corte di Giustizia Europea del 13 settembre 2007 cui si faceva riferimento, riconosce a una lavoratrice precaria spagnola della Pubblica Amministrazione l’aumento stipendiale dovuto alla progressione di carriera (scatti di anzianità). Negare gli scatti ai lavoratori precari, secondo la Corte del Lussemburgo, infatti, non è un comportamento giustificabile da una legge interna di un qualsiasi Stato membro dell’Unione Europea, né tanto meno da un Contratto Collettivo Nazionale.

Il famoso accordo quadro europeo (1999/70/CE) sul lavoro a tempo determinato, infatti, alla clausola 4 punto 1 impone il divieto di discriminazione tra lavoro a tempo determinato e lavoro a tempo indeterminato: «per quanto riguarda le condizioni d’impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive” e dice anche “i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive».

Da allora molti sono stati i ricorsi, moltissimi i ricorsi vinti. Il 25 gennaio scorso, con una sorprendente sentenza, è stato riconosciuto a 13 docenti precari il diritto ad essere assunti in ruolo alla maturazione degli scatti di anzianità dopo aver svolto 3 anni di servizio, ribadendo il principio per cui anche nella scuola i contratti a tempo determinato non possono essere reiterati senza limiti, ma – dopo alcuni anni di lavoro – si ha diritto a prospettive certe. Per rispondere all’incertezza del diritto che offende le esistenze di molti di noi, la legge rappresenta l’ultima frontiera di civiltà in attesa che la politica – tra buffonesche manipolazioni e reinterpretazioni della realtà e tentennamenti, incertezze, forse anche senso di impotenza di chi dovrebbe opporsi – riconquisti quella funzione democratica, nobile e dignitosa che merita di avere in un Paese civile. E che un Paese civile merita.

(Questo articolo è stato pubblicato sul trimestrale “Libero Pensiero)

Marina Boscaino è insegnante di ruolo di italiano e latino presso il Liceo classico "Plauto" di Roma. Giornalista pubblicista (l'Unità, il Fatto Quotidiano), fa parte del comitato tecnico-scientifico dell'associazione professionale "Proteo Fare Sapere": www.proteofaresapere.it.
 

Commenti

  1. Mauro Matteucci

    Si violano da anni i diritti fondamentali della persona riguardo al lavoro – peraltro garantiti dalla Costituzione – nel silenzio assordante dei politici, a meno che si dia peso a certi discorsi, che in realtà sono pura propaganda: hanno occupato il potere intascando il malloppo che ne deriva. Chi se ne frega se viene uccido il futuro dei giovani!

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