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Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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Domani chiude, addio

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

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Il dolore dell’emigrazione

17-07-2009

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Arrivai in Venezuela alle cinque del mattino del 9 gennaio 1.977. Il mio incontro con l’emigrazione non avvenne quel giorno: io ero semplicemente una ragazzina che aveva deciso ” di sposarsi con un giovane residente in Venezuela” conosciuto durante una sua vacanza in Italia.

www.vocedimegaride.it

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Mio marito era partito nel 1.949, ai sei anni, con la madre ed il fratellino per raggiungere il padre emigrato sei mesi prima.
Vennero, come la maggior parte dei nostri connazionali residenti in Venezuela (circa l’80%), dopo la seconda guerra mondiale. La prima ondata di emigranti procedenti dalla penisola era arrivata a fine Ottocento. Dal 1.876 al 2.000 questo paese ha ricevuto 305.406 italiani.

Tutti a cercare fortuna in un territorio pieno di risorse naturali e minerali e con una popolazione ospitale e generosa che riceveva e riceve tuttora chiunque con le braccia aperte.
Mia suocera fu una delle prime donne a raggiungere con i figli il marito. In quel periodo la maggior parte erano uomini soli che venivano per fermarsi unicamente il tempo necessario a racimolare il denaro che permettesse loro costruirsi al rientro un futuro migliore.
La signora Giovina, mia suocera, incontrò la prima donna italiana a messa, due anni dopo il suo arrivo in Venezuela. Il signor Vittorio, mio suocero, aveva affittato per la famiglia una stanza dentro la casa di abitazione di una signora venezuelana nella quale convissero per qualche mese insieme a lei e ai suoi cinque bambini. Ancora oggi sento raccontare da mio marito (aneddoti) di quel periodo, come ad esempio, la signora per dar loro il benevenuto aveva voluto preparare un piatto di spaghetti, quando in Venezuela la pasta era praticamente sconosciuta (oggi è il secondo paese al mondo a consumare questo prodotto alimentare) e li aveva buttati nell’acqua calda con tutta la busta. Era pasta made in U.S.A.. Cosí per la madre ed i due bimbi dopo un lungo viaggio per mare, fu immediato l’incontro con terra e gente sconosciuta.
Come si saranno capite queste due giovani donne? Cosa si raccontavano entrambe indaffarate tra fornelli e bambini?
Nonostante l’allegra accoglienza dei piccoli coetanei, nonostante la padrona di casa cedesse quasi subito a mia suocera il controllo della cucina (conquistata anch’essa forse da pane, pasta e manicaretti abruzzesi), nonostante mio suocero con i compagni venuti insieme a lui avessero trovato lavoro, l’inizio non fu facile. Per nessun emigrante lo è.
A scuola e sul lavoro si continua ad essere diversi: i bimbi sono i piú crudeli nel far notare la differenza. Mentre i datori di lavoro ( a volte anche connazionali piú fortunati) sanno che l’emigrante è un lavoratore svantaggiato, disposto a fare qualsiasi cosa pur di rientrare vittorioso, sconfiggendo la povertà che lo aveva scacciato da casa, cosí ne approfitta e inveisce su di lui, esigendogli turni di 10, 12 ed anche 14 ore, obbligandolo a compiere i lavori piú umili e rischiosi.
Quante vite di emigranti e di italiani in particolare sono state offerte per lo sviluppo di questo paese?
Quante in Europa? Quante in America? Quante nel mondo?
È il periodo della dittatura del Generale Marcos Perez Jimenez, grandi progetti di sviluppo e gli italiani, grandi lavoratori, sono perciò richiesti dallo stesso governo per las costruzione di strade ed autostrade, di linee elettriche, di grandi stabilimenti industriali, ecc.. Molti vanno via a fine degli anni Cinquanta, soprattutto dopo il 23 gennaio 1.958, alla caduta del dittatore.
Gli emigranti cominciano ad arrivare piú numerosi, formano le famiglie, cominciano a costituire dei circoli, associazioni dove ritrovarsi, incontrarsi, aiutarsi sentirsi in qualche modo in famiglia.
Anni Sessanta, sommosse, una democrazia piú di nome che di fatto, il Venezuela inaugura il periodo dei “desaparecidos” in America Latina, migliaia di giovani ribelli vengono assassinati sulle montagne e nelle città.
I militari prendono d’assalto l’università, studenti imprigionati o uccisi, chi vuole continuare a studiare deve cercare scampo nell’ università privata.
Per una madre emigrante la vita non è facile:il figlio piú grande ha evidenti inclinazioni politiche a sinistra, ha amici che partecipano attivamente nei movimenti studenteschi Paradossalmente per lei l’unica consolazione e fonte di un pò di tranquillità, è quella necessità che lo ha costretto a lavorare dai quattordici anni, perchè deve studiare di sera e non ha tempo per partecipare alle manifestazioni.
Arrivano gli anni Settanta, boom dei prezzi del petrolio, periodo della famosa “Venezuela saudita”, sembra che il denaro piova dal cielo come manna. È invece l’inizio della vera grande crisi economica, quella che poi ha colpito tutta l’America Latina. Il Venezuela diventa il paese di accoglienza degli emigranti di tutti i paesi piú poveri, arrivano soprattutto dalla Colombia, martoriata dalla guerra civile. Le grandi città vengono circondate da immensi cordoni di miseria, collassano i servizi pubblici, cresce la delinquenza e diventa ogni volta piú violenta.
Anche la comunità italiana segue il ritmo del paese: dai piccoli nuclei, si formano grandi e lussuose strutture: sono circa 38 i centri sociali italo-venezuelani. Peccato però che con il tempo, spesso e per molti, siano diventati dei pianeti di altre galassie intrappolati nell’orbita di altre stelle.
In questa situazione trovo io il Venezuela: nonostante, venendo dall’aereoporto la città mi fosse venuta incontro con i suoi “barrios” arrampicati sulle colline; nonostante la prima vera e brutta impressione l’abbia ricevuta all’arrivo all’appartamento di mio cognato che, come dappertutto (mi sarei resa conto dopo) aveva inferriate e cancelli a porte e finestre; nonostante sia rimasta (estereffatta) a guardare una madre ed il suo bambino rovistando nella spazzatura alla ricerca del cibo, alla mia prima visita ad un mercato cittadino, Caracas ha colpito anche me con il suo fascino.
I suoi grattacieli, le sue immense arterie d’asfalto, il verde della sua montagna, tanto sole, tanta luce. Così viva e palpitante di giorno e di notte.
Tanta universalità nei suoi abitanti: gente venuta da ogni parte del mondo condividendo uno spazio ed un tempo, scambiandosi costumi e tradizioni.
Una città e un paese stupendo anche se pieno di tanti guai.
I miei suoceri in cambio, figli adulti già laureati e sposati, decidono dopo trent anni, tornare a trascorrere l’ultimo periodo della loro vita in Italia. L’amore per figli e nipoti li obbliga a fare i pendolari, un pò qui un pò là. Come tutti nella loro situazione, mentre le condizioni di salute lo permettono, fino alla loro morte.
Come il risveglio da una grande “sbornia” arrivano gli anni Ottanta, prima grande svalutazione del bolivar, inflazione spaventosa (in alcuni anni raggiunge ed oltrepassa il 100%), infinita è la fuga di capitali verso il Nord America, i governi devono ricorrere al Fondo Monetario Internazionale. Cosí, come in tutta l’America Latina, anche qui comincia l’epoca del neoliberismo, con le misure economiche imposte dal Fondo: privatizzare tutto è la norma: cosí anche le scuole, gli ospedali pubblici che erano già ridotti male diventano inutili, fatiscenti, i prezzi del cibo e delle medicine vanno alle stelle. Lo Stato assente e la popolazione è costretta ad arrangiarsi. I delitti crescono, gli omicidi durante il fine settimana oltrepassano il centinaio. Le statistiche dicono che l’80% della popolazione vive in povertà (30% ridotta alla miseria). Come se non bastasse, in un paese petrolifero senza ferrovie, a Febbraio del 1.989 viene decretato l’aumento della benzina. La reazione degli umili, emarginati è terribile: Scendono a migliaie dalle loro colline e danno luogo alla più grande sommossa popolare che si ricordi. Nella città sono pochi i supermercati e generi alimentari sopravvissuti al saccheggio, pochi i negozi salvati dagli incendi.
Il governo responde con una repressione brutale, l’esercito spara a mansalva sui cittadini, come sempre cadono i più poveri, ancora oggi non si sa quanti siano i morti.
La gente torna ai suoi “barrios” però il movimento popolare non si detiene. Fa leva sui giovani militari che provengono dalle fascie piú umili cosí all’inizio degli anni novanta decidono di insorgere contro il governo e contro il sistema: 4 Febbraio 1.992, Presidente Carlos Andres Perez, nasce il mito Chàvez. Capo del gruppo dei militari ribelli, viene fatto prigioniero, però la popolazione lo riconosce come proprio leader dalla sua prima apparizione pubblica, tanto da costringere il Presidente Rafael Caldera nel 1.994 a liberarlo. Da allora la sua figura è legata indissolubilmente al destino del Venezuela e il suo movimento bolivariano ha generato un cambio epocale anche in America Latina.
La comunità italiana ha dovuto per forza di cose vivere tutte queste situazioni ed è stata coinvolta negli eventi politici-sociali.
Ogni emigrante si porta dentro il trauma dello sradicamento che viene trasmesso anche alle nuove generazioni perciò di fronte ai momenti difficili c’è sempre chi decide di lasciare di nuovo la casa che si è costruita e partire verso nuovi lidi, emigrando di nuovo. Gli anziani sentono, come se fossero tornati bambini, un bisogno di protezione e per loro diventa più forte il richiamo della patria di origine. Cosí, come i miei suoceri alcuni pionieri dell’emigrazione degli anni Cinquanta, fanno i pendolari tra il Venezuela, l’Italia e altri paesi del nord America ed Europa (soprattutto USA, Canada e Spagna) dove sono emigrati i loro figli.
Ripeto, io non posso dire di essermi sentita un emigrante il giorno in cui ho lasciato l’Italia o al mio arrivo a Caracas. Credo di aver iniziato a sentire sulla pelle il marchio dell’emigrazione, il dolore dello sradicamento che altri hanno dovuto sopportare, la lunga notte trascorsa a fianco al telefono, dopo aver saputo, la sera del 12 dicembre 1986, che mio padre era stato colpito da una emorragia cerebrale. Quelle lunghe ore, mentre telefonavo ogni quarto d’ora all’ospedale di Teramo, hanno fatto si che io ricordassi le parole di mia suocera e di tanti altri connazionali venuti dopo la guerra, che raccontavano la loro impotenza di fronte al susseguirsi delle malattie, morti, eventi e circostanze delle loro famiglie in Italia. Le notizie arrivavano sempre in ritardo. Non potevano fare altro che riunirsi, piangere, pregare, far dire messe e continuare a immagazzinare nei cuori il dolore e ad annoverare una sull’altra le ferite. Capii tante cose quella notte, ringraziai la Provvidenza per la mia “fortuna”, io avevo un telefono, potevo “correre” a casa in poco tempo, massimo un paio di giorni. Sono arrivata comunque troppo tardi, papà è morto mentre l’aereo sorvolava la Francia.
Per questa ragione al mio ritorno a Caracas, dopo aver sepolto mio padre, decisi di dedicarmi a capire meglio il mondo dell’emigrazione e ad aiutare nel possibile la comunità italo-venezuelana del Venezuela, che, in fin dei conti ormai era anche la mia famiglia.
Io ero venuta qui per due anni, poi sono diventati cinque…ormai sono quasi trentatré.
Da anni ho smesso di pensare in un rientro definitivo, anche se mia mamma ci continua a sperare, a tutti i costi e nonostante le evidenze.
Emigrante è colui che per ragioni di lavoro lascia il suo luogo di origine per andare a stabilirsi in modo temporaneo o definitivo in altra località. Questa è la precisa, schietta e corta definizione del vocabolario. Ricordo le frasi della poesia di D’annunzio diretta ai pastori abruzzesi “Settembre andiamo è tempo di migrare…. ..”. “Migrano le rondini…”. (scrive un altro poeta),. Anch’esse, come i pastori di D’Annunzio vanno verso i luoghi caldi a Settembre e tornano a Marzo “…S. Benedetto la rondine al tetto….”.
L’emigrante, non risponde all’istinto naturale della rondine, obbligata dai cambi stagionali; risponde forse un pò di piú alla necessità che hanno i pastori di alimentare il loro gregge (il loro lavoro), però il suo inverno, nell’immensa maggioranza dei casi, diventa perenne. A differenza dei pastori abruzzesi che “…E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri…”, i nostri sono dei veri eroi, difficilmente parenti e famigliari avrebbero potuto insegnare o preparare loro il cammino. Forse è un po’ difficile dall’Italia immaginare gli emigranti italiani dei tempi passati, però basterebbe detenere un minuto la propria affacendata quotidianità per soffermarsi a guardare i telegiornali per capire la disperazione che spinge gli emigranti di oggi, quasi dei “kamikaze” ad affrontare il mare. Il passato dell’emigrazione italiana “vanta” (si fa per dire) peggiori passaggi. All’epoca portavano con loro solo cibo e ricordi (non avevano per riempirle di altro) dentro valige di cartone. Come i pastori di d’Annunzio “Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d’acqua natia rimanga nè cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via.” Riempivano le valige dei sapori della loro terra, oggi riempiono i containers o, come qui, cercano di riprodurli con tecnologia italiana. Questa terra, la latinoamericana, somiglia ad un rifugio di naufraghi, l’isola per tutti coloro gettati sulla riva dagli oceani profondi della miseria e del dolore.
Quando ho cominciato a sentire di essere a casa in Venezuela? (Anche se, ancora oggi, se non torno in Italia almeno ogni due anni mi manca “l’aria”, come un pesce fuor d’acqua)
Quando un emigrante comincia a sentirsi in casa nel paese di accoglienza?
Forse quando apre la finestra al mattino e il panorama è diventato famigliare, si sente in sintonia con i suoni con la melodia che pervade l’ambiente, ammira la bellezza della montagna sullo sfondo, cosí incredibilmente verde tutto l’anno e non la vede tanto diversa da una piú alta e coperta di neve.
Forse quando si comincia a riconoscere nelle persone che incontra per strada, non importa quale sia la loro lingua, quali i loro costumi, la loro razza o religione. Sono parte della sua quotidianità. Palpita all’unisono con i loro timori, le loro incertezze, crede negli stessi sogni nelle stesse speranze, esulta con le loro gioie, condivide le ragioni della loro festa. Specialmente se la nazione che lo ospita lo rende partecipe, attraverso la propria legislazione, della vita politica e sociale. La nuova costituzione del 1.999, definisce la società venezuelana multietnica e multiculturale, sancisce il diritto alla doppia cittadinanza e riconosce come mai i diritti politici dei naturalizzati.
L’Italia, a sua volta, forse dovrebbe pensare in una vera e profonda ristrutturazione del CGIE, affinchè diventi l’organismo di rappresentanza per eccellenza delle comunità residenti all’estero. A differenza del Parlamento dove sono solo 18 i parlamentari eletti nelle circoscrizioni in cui le collettività italiane sono più numerose, nel CGIE le comunità di ciascun paese potrebbe avere i propri rappresentanti (Venezuela ne ha 3). Dovrebbe essere concepito come la regione extraterritoriale dell’Italia, un solido ponte per la cooperazione bilaterale e multilaterale con i nostri paesi di residenza.
Qualcuno vorrebbe definire gli emigranti “apolidi”, senza Patria, mi piace invece pensare che noi di Patrie ne abbiamo due.
Crediamo che la Patria sia il luogo in cui si nasce, quella che definisce la Nostra identità culturale attraverso lingua, usi e costumi che si trasmettono di generazione in generazione. La Patria però è anche quella nata dalla costruzione collettiva, dalla consapevolezza del ruolo che ognuno di noi è chiamato a svolgere nel gruppo umano a cui apparteniamo in un determinato spazio e per un determinato tempo.
Un grande cantautore venezuelano, Alí Primera, canta “La Patria es el Hombre, muchachos!” “La Patria è l’Uomo, ragazzi!”.
Forse noi, gli emigranti, abbiamo imparato ad apprezzare di più la libertà del vento che la stabilità degli alberi.

 

Commenti

  1. gesualdo

    Mammamia, il suo scritto mi ha commosso, bravissima …di sicuro nella mia prossima assamblea con la comunita italiana di guanare, ne faro riferimento….que dios la acompañe y le auguro exitos en sus actividades.
    Egregia Mimma, cordiali saluti di gesualdo paterno’

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