La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

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The tree of life: capolavoro o bufala?

30-05-2011

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The tree of lifeThe tree of life: un film visionario, ambizioso, ma irrisolto, difficilmente decifrabile per molti, apprezzabile, forse, solo in una ristretta nicchia di cinefili, amanti della filosofia heideggeriana e coinvolti nel pessimismo cosmico leopardiano. Ho visto, tra i venticinque spettatori in sala, parecchi alzarsi ed uscire, indispettiti ed increduli, dopo una mezz’ora di immagini e suoni allo stato puro. Io, invece, sono rimasto tenacemente incollato alla poltrona, alla Vittorio Alfieri, onde poter esprimere un giudizio serio e motivato.

Confesso di aver, a volte, lottato contro un certo calo di palpebre, specie all’inizio, dove pur si resta affascinati ed abbagliati dalle immagini straordinarie, sfolgoranti, girate con una fotografia veramente superba. Ma mi chiedevo anche, ogni tanto, se stavo assistendo ad un film, anche se poco convenzionale -specie dopo l’esperienza onirica di “La sottile linea rossa”- o piuttosto a spezzoni di documentari della BBC sull’origine del cosmo o del National Geographic sulle forze della natura. Si fatica un poco ad inserire il prologo nella vicenda susseguente, sulla durezza della vita di un adolescente texano, oberato dalla presenza di un padre malato di sogni americani anni Cinquanta, insicuro di sé, nevrotico, pieno di dubbi su tutto e tutti, minato da un individualismo estremo.

Mi sembra però che il senso della vita, quale scaturisce dal film, sia solo quello di Malick, inserito in una cosmogonìa molta yankee, visivamente resa con immagini rutilanti e caleidoscopiche, ma insoluto; pare quasi che il regista rimanga imprigionato nella sua crisi mistica, disvelata mediante audiovisivi affascinanti, in una specie di Amarcord texano, angosciato e malinconico, forse anche autobiografico. Il risultato è che, spesso, non c’è più cinema, non so se volutamente o meno. Ho provato una certa nostalgia del Malick dei films precedenti, che già in “La sottile linea rossa” iniziava a divenire abbastanza indigesto. La famiglia texana, ferita a vita ed oltre di essa dalla morte di uno dei figli, è inserita in un mythos cosmogonico, diviene cosmocentrica, ed ogni particolare ha riferimenti simbolici nell’universale e viceversa.

Ripeto, alla fine, il prologo e l’epilogo, quest’ultimo un po’ troppo modello New Age, sono difficoltosi da incastrare nella vicenda terrena, tra filosofia, scienza, religiosità, misticismo, estasi visive e sonore, tra Mahler e Bach, nello snodarsi di un infinito spazio-temporale; l’epilogo risulta freddo, l’inizio troppo perfetto. Pare quasi, in alcuni passaggi, che Malick si sia prefisso di rubare al Creatore i segreti della Vita e della Morte, in un Requiem prolisso, dedicato ad Eros e a Thanatos nel contempo. Nella stiva della nave, pesa troppa zavorra filosofica, si vuole entrare, operazione quanto mai ardua, nella dimensione del transumano, per narrarlo in qualche modo.

La particolare vicenda terrena è chiaramente solo un alibi, un accidens, per elaborare, con un manierismo a volte iperbolico, un film antinarrativo per eccellenza; a volte è talmente malickiano da parer scritto da un regista che si diverta a fare, di Malick, una parodia. Le persone si inscrivono sullo sfondo di una natura e di paesaggi umanizzati refrattari e stranianti, indifferenti all’essere umano, in uno stridente contrasto con il dramma e la tragedia dello spirito. Metafisica e trascendenza cercano di dispiegarsi e disvelarsi, tra frasi spezzate, invocazioni, in un vortice di suoni ed immagini; mi hanno ricordato i sublimi tentativi di Dante di rendere, con lo scritto, il senso mistico del suo Paradiso, nel tentativo di creare almeno una vaga idea di ciò che è puro spirito, di rendere fisica la metafisica ed immanente la trascendenza.

Il filosofo sopravanza il regista, tra riflessioni teoriche che paiono dialoghi e monologhi, tratti dallo Zibaldone o dalle Operette Morali leopardiane. Voci fuori campo, angosce ed ansie di frasi solo accennate, sussurri e grida, rimangono come tracce “sporche” della registrazione di un atroce e terribile disorientamento. Io ritengo che questo ultimo film di Malick, che ha pure suscitato mistiche ed estatiche recensioni di approvazione e di plauso, rimanga un film sperimentale, un dibattito silenzioso sulla Vita e la Morte, dall’inizio alla fine dei tempi, dove l’esilissima trama si snoda tra analogie, lampi, allusioni, ellissi, cose non dette o mai fatte. Il critico cinematografico di “El Mundo” si è chiesto se il film sia una bufala o un capolavoro; qui, secondo lui, Malick si è irrimediabilmente ammalato di se stesso, senza speranze di guarigione.

Io sono uscito al mondo fracassone e becero, dopo quasi due ore di proiezione, stordito, perplesso e dubbioso. Credo che il film lasci nell’animo un segno indelebile e che non possa essere catalogato frettolosamente, come una qualsiasi altra opera del suo genere. Deve essere metabolizzato lentamente, mediante lunghe e reiterate riflessioni. Ho trovato, infine, del tutto fuori parte Brad Pitt, con quel viso da bamboccione americano, nel rappresentare quella particolare figura paterna; erano straordinari, invece, i bambini, specie quello che poi morirà. Fuori parte anche Penn, con quel suo viso tagliato con l’accetta, mentre era veramente splendida Jessica Chastain, l’attrice che impersonava la moglie-madre.

“The tree of life” ha vinto la Palma d’oro a Cannes, proprio ieri; non esprimo giudizi in merito, ma, forse, il volgo disperso che nome non ha avrebbe compreso meglio il trionfo dell’ultima opera dei fratelli Dardenne; o forse anche, perché no, dell”Habemus Papam” di Moretti.

Franco Bifani ha insegnato Lettere in istituti medi e superiori dal 1968 al 2003. Da quando è in pensione si dedica essenzialmente alle sue passioni: la scrittura, la psicologia e il cinema.
 

Commenti

  1. lucianal fassi

    Mi é piaciuto tantissimo Habemus Papam, di Moretti, ma soprattutto di Michel Piccoli. Invece, nell’Albero della Vita, ho letto tutto il contrario: assenza di dubbi e di ironia, consolazione cristiana per la morte di un figlio. Morire significa solo rientrare nel ciclo della vita. La morte di un bambino non é che una delle tante violenze della Natura, ma non una natura matrigna leopardiana, una Natura creata così da Dio. Già dall’inizio con la forza (non ancora violenza) dei vulcani e del mare, la violenza gratuita del dinosauro adulto che schiaccia il volto del piccolo dinosauro di un’altra specie. E il bambino protagonista che fa violenza a una rana; una situazione edipica appena accennata e non sviluppata, perché non viene sviluppato nessun episodio, neppure la morte che viene annunciata e di cui non si conoscono le circostanze. E il paradiso é rappresentato come una folla di anime angosciate che che si cercano in un pantano azzurro. Mi son sentita presa in giro.

  2. luisella valeri

    Perdonatemi il termine: una boiata. Preciso, non cattolicesimo ma protestantesimo. Ho resistito sino all’ultimo proprio per vedere sino a dove avesse il coraggio di spingersi il regista. Sala quasi vuota, svuotatasi durante la proiezione del film. Anche Cannes oramai non fa più testo. Che squallore.

  3. Franco Bifani

    Visti i commenti, se ve la posso dire tutta, de core, care Luisella e Luciana, sono sempre più convinto che il film in questione appartenga a quellavasta schiera di opere, poetiche, in prosa, artistiche, teatrali o cinematografiche, prodotte da un intellettuale che di più non si può, fino nel midollo, un concettual-cerebrale dalle radici, e destinate ad un inclito pubblico di radical-chic, modello gauche schifiltosa e di nicchia francese. Non per nulla ha trionfato al Festival di Cannes, oltretutto presieduto da un americano, come De Niro. E’ una di quelle opere per intellettualoidi per le quali, se interrogato, non puoi rispondere bocciandole o, Dio ce ne liberi, esprimendo il giudizio fantozziano sulla Corazzata Kotiomkin. Tra i nasini arricciati, con labbruzze a piega amarognola, che ti stanno guatando con una certa puzzetta al naso,in attesa della tua responsio, provocheresti solo espressioni di disgusto. Loro non ci hanno capito un’acca stracca,del film, ancor meno di te, ma si farebbero scuoiare vivi, pur di ammetterlo. Lo stesso accade di fronte a certe sculture o quadri di autori moderni, che vanno per la maggiore; è sufficiente poi, per non sfigurare, esprimere un commento infarcito di un lessico da iniziati ai misteri eleusini, nel tipico linguaggio criptico, composto di aria fritta e bolle di sapone, tipico di un certo ceto e censo di parafilosofi, simil-sociologi e pseudo-psicologi da salotti-bene.

  4. Franco Bifani

    Ho saputo solo ieri che a Bologna hanno proiettato per una settimana il film in questione, senza accorgersi che era stato invertito l’ordine delle due bobine, con primo e secondo tempo; comunque, nessuno se ne era reso conto e c’erano stati consensi entusiastici ed unanimi, nel corso dei cineforum regolarmente tenuti, dopo ogni proiezione. Cito anche il giudizio della mia intellettualissima nipote 22enne, studentessa di Lingua e Letteratura nippponica a Ca’ Foscari, che mi ha confermato che il film deve essere elaborato ed interiorizzato con grande pazienza e calma, prima di poter esprimere un giudizio definitivo.Ipsa dixit!

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