La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

Libri e arte » Teatro »

Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

Inchieste » Quali riforme? »

Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

Mondi » Viaggiatori che raccontano »

Ferragosto – La ragazza del lago Titicaca

12-08-2010

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A volte i mondi lontani si avvicinano. Sul El Comercio che sfoglio on line per capire se Lima, Perù, ride o piange nel labirinto della crisi, ritrovo una ragazza della quale avevo perduto memoria. Maria Cabildo sorride dalla prima pagina: ha ormai 30 anni, moglie del sindaco dell’isola dove ho passato la notte più strana della vita. Il sole affondava nel lago Titicaca e il cielo diventava blu e l’aria così fredda da non sapere come coprirmi. Ero sbarcato nelle ore bollenti, battevo i denti. Accorre Maria con un poncho d’alpaca; il tremore passa. L’isola si chiama Uros Chulluni capitale delle isole che fluttuano sul lago navigabile più alto del mondo: 3800 metri. Il tropico scaldava il giorno; la notte è una notte d’inverno. Prima che la nonna di Maria accendesse il fuoco, il buio sembrava desolato. Nove anni fa l’elettricità era ancora la comodità da evitare. I turisti sbarcavano per immergersi nel medioevo sopravvissuto nei labirinti della storia ma gli Uros volevano e vogliono difenderlo: guardare chi vive senza comodità é diventata un’attrazione che rinforza la felicità dei viaggiatori cresciuti nell’ aria condizionata, termosifoni bollenti, televisioni sempre accese. Il silenzio é la curiosità che riempie le pentole di Chulluni e degli altri cinquanta isolotti sparsi al largo di Puno. Maria parla spagnolo, la nonna no. Genitori e i fratelli grandi lavorano nella terra ferma. «Davvero vuol dormire qui?». Mi guarda con ironia. Per lei sono alto, grasso, verso la vecchiaia. Chissà perché proprio qui. Pensieri della maldicenza. «Ci sono due letti nella Casa del Turista». Brande avvolte in coperte colorate. Maria chiude finestre minute come nei rifugi del Tirolo. «La nonna sta preparando la cena». Pesci seccati rinvengono nell’acqua bollente, una chirimoya carnosa, uova che sembrano gonfiate. Maria segue lo sguardo: «Uova di anitra». Il tempo non passa mai. La nonna non parla, Maria sorride e sbriga le mie domande in poche parole. Un fratello di 15 anni versa il pisco che deve essere prezioso a giudicare l’attenzione con la quale maneggia bottiglia e bicchiere: guai versarne una goccia. Il pisco (una grappa) riscalda le domande. Devono essere troppe, forse inopportune: frugano abitudini che noi consideriamo perdute nel tempo. La nonna guarda Maria e Maria fa sapere: «Sono le dieci. Lei accende il fuoco quando nasce il sole e in questa stagione è mattino prima delle sei». Gentilezza per dire: è ora di andare a letto. Mi accompagna con la candela all’albergo, chiamiamolo così. Nel buio attraverso altre candele, ombre accovacciate appena dentro le porte. Ridono sottovoce. Cosa fa quello lì?

Dormo e mi sveglio: il materasso ondeggia come una barca. Si gonfia dolcemente sotto le spalle, il brivido arriva ai piedi. Su e giù senza mai smettere. Succede nei letti gonfiati d’acqua delle conigliette Playboy: l’ho letto da qualche parte. Sorrido mentre il sonno si allontana. Fuori sbianca, quasi mattina e un vento leggero fa tremare le canne delle pareti. Ero uscito dalla ciurma dei viaggiatori sorridenti per cercare di parlare ai padroni dell’isola affranti dai curiosi che sbarcano con l’ansia di fotografarli come bestie feroci. Forse perché non impugnavo la cinepresa ma prendevo appunti su un quaderno di scuola, devono aver capito un’ attenzione meno frettolosa. Anziché ridere, agitare cappucci e sottane, insomma, teatro di un’allegria a loro sconosciuta, hanno provato a spiegare com’era possibile vivere su un’isola di canne che ogni tre settimane devono essere rifoderate dall’alto perché le canne sott’acqua si sciolgono nel lago. E l’isola potrebbe affondare.

«Quanti anni hai?» voglio sapere da Maria. «Ventuno, signore». Sembra impossibile ed insisto: é un giunco adolescente. Maria abbassa gli occhi: «Sono nata nella casa dove ha cenato, ventun anni fa». Nella foto del «Comercio» la ritrovo impettita accanto al cappello di un marito con la fascia da primo cittadino. Ma il protagonista è un altro: Carlos Lujano, giacca e cravatta, magistrato di Puno. Il governo lo ha incaricato di presiedere il primo tribunale delle isole Uros. Deciderà le sentenze senza sfogliare i codici. Niente di scritto: la giustizia verrà applicata rincorrendo la memoria delle tradizioni indigene. Mostra il pacco dei ricorsi presentati da chi vive nelle isole e non sopporta i taglieggi degli agenti turistici, i prezzi gonfiati dai fornitori di mais, farina di grano, fornelli elettrici e ricambi per gli specchi fotovoltaici che illuminano le case. Perché adesso accendono la luce. Nove anni e la loro vita è cambiata. «Ecco l’aula del tribunale», sorride Maria allargando le mani davanti al fotografo del Comercio: il tavolo di chi denuncia, il tavolo di chi si difende dirimpetto alla poltrona del magistrato. Quattro metri per cinque, un buco e il ricordo si riaccende: è la casetta dove ho ondeggiato nella notte agitata avvolto in una coperta profumata da un vecchio profumo. Altri ospiti hanno dormito nella Casa del Turista? Il mattino dopo voglio saperlo da Maria. «Due americane, signore: madre e figlia». Devo essere finito nella branda della madre.

Quel mattino Maria bussa alla porta. L’accompagna il fratello con un secchio di acqua gelata. La versa nella bacinella aperta sul trepiede che troneggia accanto alla branda. Dalla borsa di paglia di Maria esce un piccolo specchio: «Per la barba, signore». Mi accompagna, quattro passi nell’isola deserta. Su un altarino di pietre, una pietra sopra l’altra, il fratello sta preparando il banchetto dei souvenir per i turisti che alle dieci sbarcheranno: lama di paglia dalle orecchie aguzze; piccole barche dalla prua imponente. Intrecci di erbe e di giunchi. Maria spiega con orgoglio: nessun filo di ferro, come cinquecento anni fa. Cinquecento anni fa erano arrivati gli spagnoli con i loro cavalli. Gli Uros non avevano mai visto un cavallo e non gli avevano visti gli indios di terra: quetcha e aymara. Un gioco per gli uomini vestiti di ferro costringerli all’obbedienza. E gli Uros erano scappati. Scappavano anche dalla schiavitù alla quale li avevano costretti quetchua e aymara perché la pelle degli Uros è scura, lineamenti delicati così diversi dalle facce scolpite di chi vive in montagna. La leggenda vuole si siano rifugiati attorno al lago dopo aver attraversato l’oceano dalla Polinesia. Voci che hanno scavalcato i secoli da una bocca all’altra. Maria la ricorda ripetendo parole imparate chissà dove. Deve aver capito che non le credo. E con gli occhi rivolti al lago si aggrappa alla storia di famiglia: «La madre di mia nonna è stata l’ultima Uros a parlare non aymara o quetchua come oggi tutti parlano: la sua lingua è stata cancellata dai viaggi in terraferma e dai matrimoni che hanno mescolato il nostro sangue». Ecco il motoscafo, barcone lentissimo a motore. Il vento soffia le voci dei turisti che si preparano alla scoperta. Guardo le casette dell’isola vicina. Perché non coprire il canale che vi divide? Maria scuote la testa: «Quando torna a Puno le consiglio di comprare il libro che racconta come sono organizzate le nostre comunità. Adesso a Chulluni le famiglie sono dodici». Dodici, confermo, sfogliando il quaderno dove avevo annotato il numero delle piccole case. «Famiglie con tanti bambini. Quando crescono e si sposano e fanno figli non possiamo vivere assieme. E padri e madri e cugini – ogni isola è un circolo di parenti – costruiscono per le nuove famiglie un’isola appena più in là». Regalo di nozze per aiutare la solitudine degli innamorati. Ancora non le credo. E Maria si arrende: sono davvero corrotto dalla civiltà di chi non è cresciuto camminando sulla paglia. Mi consiglia di visitare la sola isola terra e rocce dell’arcipelago Uros. Sospira: «Se continua a non piovere sarà l’unica a sopravvivere. Ogni anno il lago si abbassa. Siamo coi piedi nel fango…». Cade la maschera dove nascondeva le emozioni. È davvero triste.

La comodità é una convenzione nutrita dalle abitudini. Dopo aver sopportato le foto e la meraviglia dei turisti incantati dal traballare di Chulluni, li seguo per far ritorno all’albergo di Puno. Il programma prevede «un’ora alla scoperta di Taquile, l’isola delle rocce». Ritorno nel mondo di sempre. Le ragazze ballano nella piazza grande, sottane colorate che fanno la ruota; bancarelle con patate fritte, cotte o spremute nella purea. Gli Uros che hanno scelto la comodità di Taquile fanno concorrenza alle loro isole intrecciando souvenir con le canne del lago. Sopravvive qualche rovina Inca. Ristorantini ad ogni passo, ma bisogna imbarcarsi prima delle ombre della sera. I caffè già accendono le luci, ma non ho voglia di partire senza capire. Chiedo se esiste un albergo. Un albergo no, ma case attrezzate ad ospitare chi vuol sciogliersi nel tramonto «più bello del mondo». Cena e notte in camera singola. Anastasio porta in tavola piatti fumanti di verdure. Le donne ridono nell’altra stanza; non si affacciano. Il padrone condivide la cena e parliamo al lume di candela anche se da sotto la porta passa la luce dell’elettricità. Ho voglia di guardarlo in faccia. «Non si può accendere?» alzo il dito verso il soffitto. «Non si può», risponde Anastasio. «L’ente del turismo non vuole». Cominciava la marcia delle lampadine che sfavillano nei racconti di Maria al giornalista del Comercio: «abbiamo aperto le comodità del nostro paradiso ai viaggiatori che vogliono capire chi siamo».

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