“Non può andare avanti così”: la gente comune percepisce un “grande marciume”, parla di inquinamento e di governo illegale dei rifiuti negli stessi termini in cui lo fanno gli esperti coinvolti in questa collettanea, vale a dire definendo la camorra come un fenomeno globale, come un “sistema” (“o’ sistema” appunto) in cui tutti sono dentro senza bisogno di chissà quali giuramenti d’onore o frequentazioni assurde, solo entrando a far parte di giri d’affari e di scambi nei quali la soglia tra pubblico e privato, politica e economia, legale e illegale è superata, evaporata, ormai inconcepibile. Le voci riportate in questo libro mettono in scena una ‘conoscenza comune’ circa i processi in atto, una consapevolezza diffusa e a mio avviso diversa rispetto al passato. Non si tratta più – come in un passato anche recente – di giudicare il sistema locale in base alla sua efficienza (in termini locali, alla capacità di ‘dare da campare’ ai molti). Negli ultimi decenni del secolo scorso, chi si contrapponeva (innanzi tutto simbolicamente) a realtà produttive locali – anche se illegali (mercato nero legato all’agricoltura prima e all’edilizia poi, all’urbanizzazione forzata) – in una terra in cui i tassi di disoccupazione erano e restano impressionanti? Chi si è dissociato dall’impressionante avanzata del cemento, dal ‘sistema’ applicato agli affari dell’edilizia abusiva? Pochi, si dice. Quelli ricchi e fortunati, si dice. E in realtà neanche loro. Pochi hanno visto la portata ‘negativa’ di un processo che nei fatti si identificava con il progresso, l’igiene, il lavoro, insomma l’interesse generale.
Oggi pare diverso. Quella a cui assistiamo è forse in termini sociologici, almeno in parte, una svolta. Larghe fasce della popolazione, la piccola borghesia, il ceto medio-basso – i giovani laureati divenuti lavoratori atipici, i giovani neogenitori, i piccoli commercianti, gli insegnanti, gli impiegati (il nostro target di indagine) – fasce della popolazione che hanno ‘campato’ nel sistema mantenendo una certa stabilità e una certa qualità della vita, subendone gli eccessi ma percependolo come la ‘via possibile’, la strana forma di ibridazione culturale e sociale che poteva storicamente essere la ‘modernità meridionale’ (per la Campania ma non solo) – sono oggi travolti dall’aria irrespirabile, pensano ai propri figli come vittime, temono la malattia, parlano ossessivamente di cancro. Ai loro occhi oggi ‘o sistema è diventato un sistema di morte (e morte abbastanza diretta, se ascoltiamo le rappresentazioni raccolte, “morte già sotto casa”), in tal senso non più funzionale a ‘campare’ (qualsiasi forma di campare si abbia in mente, comunque essa sia ‘culturalmente’ tradotta). “Oggi così non è possibile, dobbiamo smettere di vivere così, anche se non siamo capaci di fare altro, dobbiamo smettere” dicono i testimoni, efficacemente.
Il limite ambientale (o meglio la conseguenza del ‘sistema’ in termini ecologici) preme ineludibile e interroga la comunità come mai prima d’ora, in termini stringenti, circa la propria ‘capacità politica’, la propria capacità di governo della realtà. Quali forme di governo, appunto, sono necessarie per mantenere la salute? Le risposte sono plurime, differenziate a seconda di coloro che parlano.
Tutti i testimoni e tutti gli esperti si focalizzano sugli elementi centrali nel quadro sopra descritto, che tornano nel libro in maniera quasi ossessiva: i discorsi sul cibo avvelenato, il ritorno agli orti di famiglia innaffiati però con la medesima acqua corrente (quante contraddizioni, quanto spaesamento), l’elaborazione dolorosa del “sacrificio del suolo” (della fine dell’era agricola vissuta per la prima volta in chiave critica); la sfiducia non solo nelle istituzioni (i discorsi sulla corruzione da un lato, quelli sulla inefficienza e l’incapacità dall’altro lato), ma anche nelle forme di intermediazione ‘orizzontale’ (la fine della fiducia nel giornalismo tradizionale, ad esempio, e l’esaltazione collettiva di internet); la raccolta differenziata di rifiuti come metafora ricorrente per parlare in forma nuova di ‘responsabilità individuali’; l’idea degli “scienziati esterni” come ultimo riferimento alla verità (combattendo la paura che “la politica abbia mangiato la scienza”), ecc.
Parla dunque a voce alta questa società campana, con le sue voci ‘dal basso’ e ‘dall’alto’. Il nostro campione è forse auto-selezionato (caratterizzato particolarmente da consapevolezza, angoscia, desiderio di svolta) poiché composto da persone che hanno dato la disponibilità a parlare, a farsi intervistare, tra le tante interpellate che hanno rifiutato – come ricorda amaramente Boccone nel suo diario autobiografico di giovane assessore isolato. Eppure le voci raccolte convergono tra loro con forza, danno comunque l’idea di una nuova coscienza di ‘gruppo’: come dicevo, non parliamo di ‘ultimi’ (di disoccupati né di lavoratori affiliati alla camorra, ad esempio), ma del vasto ceto medio che appare attraversato in modo nuovo dall’idea di ‘piaga ecologica’ come ultimo atto di un fallimento storico al quale è chiamato infine a rispondere.
In tal senso, i rifiuti (e più in generale potremmo dire le ‘conseguenze ecologiche’) ri-materializzano (rendono concreta) l’idea stessa di ‘incapacità di governo democratico’ della realtà. La crisi delle norme organizzative dettate dallo Stato moderno – resa evanescente e virtualizzata mediaticamente negli ultimi decenni del ‘900 – si fa oggi nuovamente reale e visibile nelle forme urbane dello scarto (rifiuti, gas delle auto, foschie, puzze…). In breve, le crisi ambientali mettono l’accento su un particolare fallimento dello Stato
moderno: esso pare oggi incapace di disciplinamento igienico del mondo (ad esempio, di reale organizzazione urbana del territorio), valore e missione sulla quale esso aveva costruito la legittimazione moderna per l’esercizio della forza e del controllo. E ancora una volta la malattia (il cancro) è il dispositivo simbolico usato per indicare la colpa collettiva, come fu in altre epoche passate: la fine della legalità (della capacità normativa dello Stato) sarà la malattia.
Il discorso sui rifiuti apre così ad un pensiero inedito sul ‘domani’, categoria che sembrava essere stata completamente assorbita in quella del ‘progresso’ (l’idea scontata di cemento e di casa per tutti, di lavoro e di consumo per tutti, insomma) e che invece torna a interrogare in modo diverso il legame tra generazioni (“se i rifiuti li lasciamo a quelli dopo, come faranno?”). Una nuova ‘condizione politica’ pare prendere forma da qui, da una nuova presenza (nel pensiero) di quelli che verranno dopo di noi.
Sono convinta che queste svolte simboliche apriranno (qui e altrove) nuove istanze – più irruente, angosciate, urgenti, violente – di partecipazione.
(Il testo è tratto dall’introduzione di Vincenza Pellegrino)
Liliana Cori è ricercatrice dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche, dove si occupa della comunicazione nell’Unità di ricerca epidemiologia ambientale. È esperta di comunicazione, politiche in materia di ambiente e salute, sviluppo sostenibile e relazioni di cooperazione nord-sud.
Vincenza Pellegrino è dottore di ricerca in Antropologia Demografica presso L’Université de la Méditerranée di Marsiglia. Docente di Metodologia della Ricerca Sociale al Master in Comunicazione della Scienza della Scuola Internazionale di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste e svolge la sua attività di ricerca nell’ambito della sociologia della salute con particolare interesse alla Narrative Illness e nell’abito della sociologia dei processi culturali (Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università di Parma), delle migrazioni trasnazionali e delle questioni legate all’incontro tra culture.