La loro presenza diventa emergenza. Sgomberi di campi Rom che diventano persecuzioni, impediscono ogni dialogo. Non facile: nell’ex impero sovietico sono stati stabilizzati ai margini della società, appartamenti-ghetto e lavori africani. La loro cultura resiste in Italia da sei secoli e non può essere affrontata solo dalla polizia
Zingari, Rom, Sinti, Gitani, Camminanti. O nomadi, che dir si voglia. Parlando, studiando o scrivendo dei ‘figli del vento’ si dà spesso per scontata questa nostra proliferazione (o indecisione) linguistica. In effetti ci indica semplicemente che il popolo senza patria si dice in innumerevoli modi. Eppure questo, a pensarci bene, equivale a dire che l’universo zingaro non si lascia facilmente nominare nella sua totalità ed unità. Io stesso, scrivendo queste righe, come vedete, sono costretto ad usare metafore (‘figli del vento’, ‘popolo senza patria’) o a scegliere un termine collettivo a discapito di altri (‘zingari’, ‘rom’, ecc.). Allora quella moltiplicazione linguistica forse nasconde un dato interessante: pensare da gagio l’universo ‘zingaro’ implica lasciare in sospeso la domanda sulla sua identità collettiva. Ancora oggi, del resto, tutto l’insieme delle conoscenze inerenti la loro origine rimane nel novero delle ipotesi fondate, ma non delle certezze storiografiche o filologiche. Questo è probabilmente uno dei ‘peccati originali’ del popolo Rom e Sinto: essere un’identità in-definibile. Allora non c’è da stupirsi se uno dei nodi principali che attraversa l’ormai secolare ‘questione sociale zingara’ nel nostro paese è strettamente legato proprio alle parole che li definiscono come entità collettiva, e ne tracciano gli elementi socio-antropologici peculiari.
Perché in fondo definire significa delineare dei tratti fisici, una storia, un pensiero, dei sentimenti. In sintesi, definire è identificare, individuare, proprio nel senso di dare corpo ad un individuo conoscibile. Per questo da secoli si cerca invano di definire ed individuare sin nell’intimo, attraverso studi ed analisi storico – sociali e scientifici, la natura, la verità di questo popolo senza territorio, unito dalla lingua romanès e da una millenaria cultura orale. Parafrasando un saggio di Leonardo Piasere (Stranieri “e” nomadi) [1], occorrerebbe interrogarsi in questo senso su quella particolare simbiosi semantica riassumibile nell’espressione “Zingari e Nomadi”. Dei due termini si è dal XIX secolo operata un’associazione linguistica, dalle precise influenze e conseguenze politiche, sociali e culturali. Si sono di fatto saldati un para – etnonimo (‘zingaro’) ed un concetto storico ed antropologico (‘nomadismo’), il quale è un tratto caratterizzante determinate popolazioni cosiddette ‘tradizionali’ (ad es. i Tuareg o alcune comunità della Mongolia), nonché termine dalle profonde radici di significato [2]. Il risultato è la creazione di una particolare forma di alterità, lo ‘zingaro nomade’, la quale viene pensata e tradotta nella semantica politica come realtà differente dal semplice essere straniero. Perché in fondo il nomade è sì straniero, ma interno. Non xenos ma metoikos, riprendendo una significativa differenza storico-antropologica esemplarmente teorizzata da Roberto Escobar[3]. Egli è già qui, nel nostro territorio. Non è un’alterità che proviene dall’esterno, ma l’essere differente di ciò che è a noi vicino da decenni. Nelle nostre periferie, nelle nostre strade. E’ lo straniero che si è fatto interno ed è rimasto, nella sua ‘ostinata’ specificità culturale. Tutto ciò, evidentemente, spiazza. Provoca spaesamento, tanto più quanto l’alterità ‘zingara’ appare simile a noi: non una radicale differenza, ma nemmeno una piena appartenenza al ‘nostro’ universo identitario. Né noi, né non-noi, ma sulla sulla soglia, per così dire.
Di qui l’in-definibilità, i molti nomi. Che in realtà corrispondono a nessuno, nel senso che alla fine nessuno è quello vero, il definitivo. Eppure continuiamo a nominare, ad individuare. Ed è proprio questo il nodo dell’ambivalenza, della im-possibilità: nel processo della nostra costruzione identitaria. Noi non possiamo rinunciare ad identificare, ad individuare. Non possiamo lasciare un uomo ‘sulla soglia’. O è dentro o è fuori. O è straniero che può essere accolto ed integrato (come marginalizzato e respinto), o è membro della nostra collettività. Non possiamo avere di fronte a noi un individuo indefinito, o meglio, un individuo che non si lascia definire. Eppure tutto questo è lo zingaro: messa in scacco, o meglio costante ironia di ogni definizione identitaria stabile.
Da questa inafferrabilità dell’identità nasce a sua volta una necessità ancora più urgente di trovare una coerenza collettiva, di assegnare un luogo, nel nostro spazio culturale, sociale e territoriale ai ‘figli del vento’. Una necessità problematica, del resto, perché si tratta di un processo senza termine, di un rimando continuo tra desiderio ed urgenza di identificazione, e l’inevitabile pluridefinizione / in-definibilità. In fondo si tratta di un percorso che prosegue ininterrotto dal 1422, anno in cui per la prima volta si attesta la presenza della “gente del Duca d’Egitto”, a Bologna.
Tale processo ambivalente, socio-culturale ed identitario, non può d’altro canto non avere un suo riverbero sul piano strettamente politico (se non una relazione dialettica rispetto ad esso). Il nodo problematico risiede nel fatto che si tratta di un’ eco diretta, di una sostanziale specularità. Non a caso il filo rosso che da sempre attraversa la normazione e la gestione politico-amministrativa del popolo rom e sinto in Italia è costituito da una serie di soluzioni di tipo transitorio e precario. Basti pensare ad un’evidenza storico-politica: l’ambito statuale che in Italia ha delineato la cornice di intervento, le direttive di massima in merito alla ‘questione nomade’ è il Ministero dell’ Interno. Come a dire: gli zingari sono in primo luogo un problema di sicurezza pubblica, se non di difesa sociale. Sono appunto un’anomalia, un’eccezione da collocare e definire nello spazio politico e sociale. Tale statuto ‘terzo’ del ‘nomade’ esplicita e a sua volta determina una forma gestionale d’eccezione: la pseudo-territorializzazione dei campi sosta e dei campi nomadi.[4] C’è da intendersi: non va di certo criticata in assoluto la soluzione del ‘campo nomadi’.
Anche perché può prestare il fianco a pericolosi fraintendimenti ed a strumentalizzazioni xenofobe. E’ invece necessaria un’approfondita ed articolata riflessione politica e sociologica sulla condizione permanente della inorganicità della soluzione proposta dallo Stato italiano in questi decenni rispetto alla realtà zingara. In assenza di una legge – quadro, tutto l’apparato normativo si regge sull’impianto eterogeneo delle leggi regionali, le quali anche temporalmente spaziano dalla metà degli anni ’80 alla metà degli anni’90, caratterizzandosi quindi per approcci normativi e gestionali spesso differenti. Inoltre le istituzioni sono rimaste incuranti rispetto ai numerosi pronunciamenti dei principali organismi internazionali e comunitari, che insistevano per il riconoscimento dello status di minoranza etnica alle popolazioni Rom, Sinti e Camminanti storicamente presenti in Italia da diversi secoli. A livello internazionale si imponeva sul piano dei diritti fondamentali il rispetto della loro identità e stile di vita, del diritto all’abitazione, alla salute, all’istruzione, all’integrazione sociale, così come meglio specificati anche da una corposa produzione giurisprudenziale della Corte Europea per i Diritti Umani.
Tale riconoscimento di status è ad oggi del tutto disatteso. A tutto ciò si aggiunge il susseguirsi di eventi storici e geopolitici complessi, quali il crollo dei regimi comunisti dell’est Europa, la guerra nell’ex-Jugoslavia, sino alle recenti ondate xenofobe anti-zingare in paesi democratici come l’Ungheria, la Romania, la Slovacchia. Eventi che hanno avuto ed hanno ad oggi le loro ripercussioni in Italia nel momento in cui sono stati fattori di innesco di successivi fenomeni migratori di popolazioni Rom non del tutto omogenee rispetto quelle storiche ed a quelle stanziatisi attorno tra gli anni ’60 e ’70. Non bisogna infatti dimenticare che anche all’interno dell’universo zingaro le differenze di religione e di nazionalità giocano un ruolo incisivo nelle dinamiche dei rapporti sociali e territoriali. In un panorama così complesso ed articolato dal punto di vista storico – culturale, si è continuato a gestire la ‘questione zingara’ con i medesimi strumenti normativi, al massimo con leggere varianti in ossequio ad alcune direttive dell’Unione Europea.
Di fatto, la transitorietà e l’inorganicità politico-normativa sono rimasti il tratto precipuo dell’intervento statuale nei confronti del popolo rom e sinto. Sino ad oggi, un presente nel quale si assiste ad una sorta di ‘salto di qualità’. In negativo, sia chiaro, ma a sua volta da analizzare approfonditamente. In quanto, al di là degli ‘eventi shock’ degli ultimi anni (Opera, Ponticelli, omicidio Reggiani, tra gli altri), ed anche grazie ad essi, qualcosa è mutato, o meglio si è affinato proprio a livello della quotidianità politica e comunicativo – mediatica. Si tratta come di un nuovo presupposto, di una soglia varcata, la quale corrisponde ad un nuovo livello di accettazione collettiva, di consenso pubblico. Non certo nella identificazione e nella gestione costruttiva della integrazione del popolo zingaro, quanto nell’espressione e gestione della sua precarietà e transitorietà, divenute ormai una emergenza permanente. E’ proprio questo il termine chiave da interrogare, il segno del mutamento: l’emergenza. Perché è divenuto ormai il principale strumento della gestione delle politiche sociali più urgenti. Come del resto è strumento di gestione delle calamità naturali, o delle emergenze socio-ambientali quali i rifiuti in Campania. Questo è il dato di fatto sempre più evidente: si affrontano questioni sociali ed economiche con strumenti tipici della protezione civile e con procedure giuridiche d’urgenza. Il culmine di un simile processo e l’inizio di tale significativo cambio di passo corrisponde all’ ‘esplosione’ della ‘emergenza nomadi’ del 2008.
Le ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3676, 3677 e 3778 del 30.05.2008 dispongono misure urgenti di protezione civile per fronteggiare lo stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nel territorio delle regioni di Lazio, Lombardia e Campania. Attraverso tale scelta normativa, il Presidente del Consiglio ha fatto uso di uno strumento giuridico assolutamente eccezionale, finalizzato a fronteggiare eventi assolutamente imprevedibili e comunque eccezionali e catastrofici (terremoti, emergenze sanitarie ecc.), paventandolo come la panacea per il “male” dei campi nomadi, che indubbiamente non rappresenta una emergenza (improvvisa difficoltà, situazione che impone di intervenire rapidamente, circostanza imprevista), quanto piuttosto l’ordinaria precarietà di vita e abitativa di migliaia di (non) persone, che ordinariamente si svolge nel più totale disinteresse delle Istituzioni.[5]
L’obiettivo è quello di ottenere “una sostenibile distribuzione delle comunità nomadi”, e viene arbitrariamente inizalmente limitato ai ‘nomadi’ stanziati nelle Regioni di Lazio, Lombardia e Campania. Questa disposizione, apparentemente poco comprensibile, trova una sua logica se si considera che, per fondare i poteri di emergenza, non si è fatto riferimento all’insostenibilità delle condizioni di vita che caratterizzano i campi nomadi (la medesima in tutta Italia), è piuttosto il ‘fastidio’ che la presenza dei campi provoca alle popolazioni locali. In altre parole, per utilizzare la terminologia dei provvedimenti in esame, la situazione di “grave allarme sociale” che, a “causa della loro estrema precarietà”, i campi hanno determinato, “con possibili gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e sicurezza per le popolazioni locali”. Di qui, la consegna di poteri straordinari in mano ai prefetti, o meglio ai “commissari straordinari per l’emergenza nomadi”[6]:
“l’approvazione dei progetti da parte del Commissario delegato sostituisce, ad ogni effetto, visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di competenza di organi statali, regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico generale e comporta dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori, in deroga all’art. 98, comma 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 salva l’applicazione dell’art. 11 del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 e successive modifiche ed integrazioni, anche prima dall’espletamento delle procedure espropriative, che si svolgeranno con i termini di legge ridotti della metà.”[7]
Effetti pratici di tali poteri sono gli ormai routinari smantellamenti di numerosi campi nomadi non autorizzati, e soprattutto (questa la vera novità) la schedatura ulteriore e ulteriori espulsioni, o detenzioni in attesa di esse, di nomadi irregolari. L’emergenza indicata nei provvedimenti del Governo certamente non esiste, o perlomeno è di intensità infinitesimale rispetto a ben altre questioni sociali ed economiche del paese. Di certo non può essere pienamente definita una situazione improvvisa ed imprevista. Ma tutto questo non basta. Perché si ha veramente la percezione di un confine varcato, nella pubblica normalizzazione ed accettazione di azioni ‘straordinarie’ dell’azione politica. E tale ‘novità’ portata dalla permanente ‘emergenza nomadi’ può essere riassunta in questo modo: gli zingari non sono più semplicemente una realtà gestita precariamente, ma sono divenuti de facto ‘incollocabili’. La loro stessa presenza fisica crea emergenza, o meglio, come detto, ‘fastidio’. Ed il fastidio crea allarme, insicurezza. Quindi necessita decreti ed interventi d’urgenza, i quali sanciscono così de jure l’incollocabilità del popolo senza patria, in quanto fonte di allarme permanente. Da effetto della gestione politica, la precarietà e la transitorietà divengono così strumento attivo del potere statale. E al contempo si trasformano nella cifra stessa dell’esistenza del popolo rom e sinto. Al popolo in-definibile può essere solo destinata un’azione d’emergenza, urgente e transitoria. Ma attenzione: indefinitamente transitoria. Nel silenzio pressoché totale dei media, i poteri per l’emergenza nomadi sono stati allargati ai prefetti di Torino e Venezia, nonché prorogati ai precedenti sino al 31 Dicembre 2010.
Siamo già alla fase delle proroghe. E ad una serie di sgomberi che sfiorano la persecuzione. Nel silenzio complice di intere cittadinanze. Sin dove e fino a quando si allargherà la discrezionalità del potere d’eccezione? Di certo rimane una paradossale evidenza: la soglia varcata dell’emergenza permanente non è altro che il nodo svelato della nostra in-capacità ed in-decisione nel metterci di fronte alla in-dicibilità, agli innumerevoli nomi dei ‘figli del vento’, provando a non viverla come uno scacco. Detto altrimenti: abbiamo reso uno strumento politico discriminatorio la nostra stessa impossibilità a ridiscutere, nell’interazione e nel dialogo con l’altro, la nostra stessa identità.
[1] Brunello P. (a cura di), L’urbanistica del disprezzo, Manifestolibri, Roma, 2006.
[2] La radice *nem- è quella dei termini nomòs – némos, vale a dire “porzione assegnata e quindi pascolo, pastura che tiene a nèmein, distribuire ciò che a ognuno si addice, secondo giustizia”.
[3] Cfr. Escobar R., Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna, 2007.
[4] Il ‘campo nomadi’ italiano, nelle sue due forme del ‘campo sosta’ e ‘campo di transito’, rientra entro un’articolata normazione regionale che recepisce, senza una legge – quadro nazionale, direttive comunitarie, rientrando in un ambito di tutela, applicata ad un determinato gruppo etnico – culturale (come i Rom e Sinti). Tale forma di tutela rappresenta, comunque, una questione da interrogare, poiché non si tratta esattamente di una forma di protezione attuata nei confronti di una specifica minoranza riconosciuta e presente in un determinato territorio. La creazione ad hoc di uno spazio circoscritto nel quale localizzare (di fatto, spostando e riunendo) qualsiasi persona o gruppo appartenente alla minoranza – etnia definita (già presente in altri spazi del territorio, in arrivo o transito) è misura differente dal tutelare i diritti di una comunità la cui presenza nello spazio urbano è riconosciuta e rimane immutata. In tale sottile differenza si configura l’interrogativo di una ‘terzietà’ del ‘campo nomadi’ rispetto all’ordinaria sfera pubblico – amministrativa.
[5] Insediamenti comunità nomadi e “stato di emergenza”, in Giuristi Democratici, 09-06-2008, rivista online dell’associazione Giuristi Democratici, www.giuristidemocratici.it
[6] Un Commissario straordinario è un dirigente pubblico, nominato dal governo, per far fronte ad incarichi urgenti o straordinari nella Pubblica Amministrazione, tramite un accentramento dei poteri e un’azione in deroga.La figura del Commissario straordinario è stata istituita dalla Legge 400/88, che recita: “al fine di realizzare specifici obiettivi deliberati dal Parlamento o dal Consiglio dei Ministri, o per particolari e temporanee esigenze di coordinamento tra amministrazioni statali, può procedersi alla nomina di commissari straordinari del Governo“. I commissari straordinari possono operare tramite procedure accelerate, e in deroga alla normativa vigente. Possono, ad esempio, assegnare senza bando di gara d’appalto, ma a propria discrezione, i lavori pubblici
[7] Insediamenti comunità nomadi e “stato di emergenza”, in Giuristi Democratici, 09-06-2008, rivista online dell’associazione Giuristi Democratici, www.giuristidemocratici.it
Gabriele Roccheggiani lavora come educatore nella cooperativa sociale "Crescere" di Fano. È dottorando in sociologia presso l'Università di Urbino e assegnista di ricerca per "Opera Nomadi"