Dopo avere letto fino in fondo questo bel libro di memorie viene immediatamente spontaneo trasformare in un interrogativo il titolo dello stesso libro. Ci si deve infatti chiedere a chi e come può essere “passata la mano” dell’esperienza qui descritta. Un’esperienza unica, quasi impossibile da riprodurre per la drammatica particolarità dei lunghi anni in cui essa si è dipanata e, soprattutto per l’assoluta unicità dell’ambiente in cui si è svolta e l’altrettanta unicità delle persone che un tale ambiente hanno animato.
In questo caso passare la mano significa sperare che le generazioni successive possano fare tesoro di una simile esperienza, non tanto per i suoi successi quanto per la pulizia, la coerenza e il disinteresse che ha caratterizzato la vita e le azioni del folto gruppo di amici che sono stati i referenti della lunga vita politica e intellettuale dell’autrice di queste memorie.
Tutto il libro si dipana infatti in un ambiente di amici tra loro legati da un profondo interesse per la cosa pubblica e un altrettanto profondo attaccamento alla Chiesa. Con un’apertura costante verso le cose del mondo ma con un inconfondibile amarcord romano, il cui circuito scorre tra le due sponde del Tevere. Il gruppo dei protagonisti più vicini frequenta le stesse parrocchie, passeggia nelle stesse strade, fa spesso le vacanze insieme, parla e discute nelle stesse sale ma ha davvero un orizzonte che si apre a tutte le nuove esperienze politiche e culturali, a cominciare dall’esperienza europea, che tanto ha influenzato la vita dell’autrice per la novità del suo messaggio e del metodo politico con cui veniva affrontato.
Un misto di parrocchia nella semplicità e nella abitudinarietà dei rapporti e di ecumenismo nell’apertura alle novità di pensiero e di sperimentazione politica costituisce qualcosa di difficilmente riproducibile già nell’Italia di oggi e, certamente ancora meno in quella di domani.
Riflettiamo un attimo sull’aspetto religioso . Certamente una storia complessa, costruita da esperienze diverse e non sempre facili da armonizzare fra di loro. Da un lato una formazione cattolica che potremmo dire tradizionale e dall’ altro una partecipazione breve ma intensa al cenacolo che raccoglieva attorno alla rivista Esprit le punte più avanzate dell’intellighentia cattolica mondiale. Poi una presenza attiva e prolungata nell’ambito del CIF (Centro Italiano Femminile) dove, come scrive la stessa autrice, la spiritualità cattolica femminile, anche quella più avanzata e colta appariva “incerta” di fronte alle novità che si presentavano nello scenario mondiale sul problema del nuovo ruolo della donna nella società. Questi cinque anni di attività nel CIF segnano visibilmente lo sforzo e la difficoltà di introdurre in un mondo cattolico fortemente tradizionalista gli elementi di novità che dovevano portare verso un nuovo protagonismo femminile nella società italiana. Ed è in questi anni che si forma la vocazione verso la primazia dei problemi della donna che accompagnerà tutta la vita politica di Paola Gaiotti. Anche qui una forte passione civica che trova la sua palestra e il suo luogo di espressione nell’ambiente cattolico, in quegli anni spesso ostile o semplicemente diffidente verso questi nuovi orizzonti.
Per questa passione civica sui temi delle donne è stata fra le prime in Italia a occuparsi di storia delle donne e specificatamente di storia politica, pensata in un un legame forte fra storia delle donne e storia generale, contro ogni tentazione separatista, e con un’attenzione partecipe, anche quando critica, con le diverse riflessioni femminili su di sé che hanno attraversato il secolo. E ha accompagnato questa ricerca con un lungo impegno politico che ha tenuto insieme coerenza e percezione anticipata del mutamento degli equilibri.
I segni principali di questa attenzione partecipe che emergono dalle vicende narrate, certo non esclusivi dell’ autrice ma condivisi con altre e altri, sembrano soprattutto due. Il primo è l’assunzione esplicita del processo di contaminazione culturale come valore, che non solo non riduce ma rafforza, rinnova, rende più efficace e comunicabile il proprio retaggio ideale; il secondo è la sfida e a leggere ( e così anche a tradurre) la secolarizzazione, l’emergere moderno della soggettività di donne e di uomini non come la negazione dell’affidamento religioso ma raccogliendo il messaggio evangelico sulla persona come immagine di Dio.
Quest’ atteggiamento è il modulo con cui l’autrice si avvicina al Concilio, visto non come rottura col passato ma come il recupero di una Chiesa “amica della storia moderna e delle libertà conquistate, una Chiesa segnata dalla sovranità in essa del messaggio evangelico, dal primato della coscienza sulla legge,della comunità sull’istituzione, dell’amore sulla dottrina, della misericordia sulla disciplina, e ancora dalla collegialità episcopale, dal dialogo ecumenico, dall’universalità della salvezza.”
Nella coscienza dell’autrice, come in quella di tutti noi che abbiamo appassionatamente vissuto la storia del Concilio, questi valori hanno costituito non solo il fondamento del rapporto con la Chiesa ma anche uno strumento di interpretazione dei rapporti fra fede religiosa e partecipazione alla vita politica che ci avrebbe accompagnato per sempre e che ha aperto, negli anni immediatamente successivi al Concilio, un profondo e appassionato dibattito in tutto il mondo cattolico. Ed il più severo rimprovero che l’autrice rivolge alla Democrazia Cristiana è proprio quello di essere stata indifferente a questo grande processo di rinnovamento, ponendo così le basi del suo futuro progressivo declino. E’ difficile dire se questo giudizio possa essere considerato aderente alla verità storica, ma è certo che gli anni del Concilio e quelli immediatamente dopo la sua conclusione furono nel mondo cattolico italiano uno dei periodi più fecondi di approfondimenti, dibattiti e iniziative, anche perché si sposavano con il senso di novità e di speranza che la presidenza Kennedy aveva portato nella politica mondiale. Ad essere sinceri l’autrice conserva un immutato entusiasmo anche nel decennio che parte dal 68 e che descrive come gli anni “più pieni” della sua vita, anni passati tra un intenso impegno nella scuola e un’attività politica sempre rivolta verso nuove sperimentazioni, attraverso le quali si arriva, nel novembre del 1975, alla fondazione della “Lega democratica“, verso cui converge una straordinaria somma di forze del mondo cattolico, una parte delle quali impegnata nel rinnovamento della Democrazia Cristiana ed altre che si erano da essa ormai allontanate.
Ancora una volta quest’impegno politico si accompagna all’impegno più strettamente ecclesiale del convegno su “Evangelizzazione e Promozione umana”. Un convegno che avrebbe dovuto riprendere i temi del Concilio in un mondo cattolico ormai lacerato da crescenti tensioni interne e che avrebbe dovuto portare ad una rinnovata responsabilità dei laici nel mondo della Chiesa. Questo processo avrebbe, secondo l’autrice, innescato fra i credenti anche esperienze di formazione civile capaci di rovesciare il “limite storico più volte addebitato alla Chiesa di Roma , quello di non avere favorito la formazione di un’etica civile, pubblica fra gli italiani. Se accolta, non ci avrebbe impantanato in una lunga transizione perché i due progetti, riforma ecclesiale e riforma civile, si sviluppano reciprocamente, nella loro autonomia, uno dando forza all’altro”. Entrambi i progetti ,tuttavia, non raggiungono i risultati che si erano proposti.
Il Convegno ecclesiale viene sepolto in tutta fretta, ponendo così fine ad una stagione di confronto , di dibattito e di speranza in una grande parte del mondo cattolico italiano.
La Lega Democratica dura più a lungo e si spinge fino ad oltre alla metà degli anno ottanta, ma il suo ruolo abbandona sempre di più ogni valenza politica per farsi sede di dibattito e di testimonianza in una società in via di profondo cambiamento per effetto della nuova cultura televisiva, di una crescente accettazione della ricchezza ostentata e di un rapidissimo processo di secolarizzazione. Nello stesso tempo, nella politica mondiale Kennedy non era più nemmeno un ricordo e le nuove linee guida erano tracciate da Reagan e dalla signora Thatcher. In un mondo del genere non vi era certo posto per la Lega Democratica. Tutto questo viene felicemente sintetizzato con una frase che, non rinunciando a nulla del valore di testimonianza del lungo lavoro compiuto riconosce che “entro i mutamenti sociali e politici della società italiana in quegli anni ottanta, l’egemonia craxiana, l’impotenza democristiana e la debolezza comunista, non eravamo più un soggetto politico che avesse reali possibilità di influenza.” I convegni della Lega assumono sempre di più un carattere prevalentemente culturale anche se profondi nelle loro analisi e lungimiranti nelle conclusioni. Pagine straordinarie vengono scritte sulla legalità, sulla questione morale, sull’urbanistica, sul volontariato e sul pluralismo nella società italiana ma tutto queste attività restavano “frammenti di un’opposizione civile, incapace di diventare opposizione politica”. Coerente fino in fondo nella sua lettura degli avvenimenti, l’autrice lega strettamente questa deludente storia politica a quanto accadde in quegli anni nella Chiesa italiana sempre più lontana dalle linee espresse dal cattolicesimo democratico e sempre più presente “con un interventismo crescente” nella vita politica italiana.
Questa realtà politica e culturale rende impossibile anche il nuovo progetto di Paola Gaiotti, il progetto di introdurre una significativa presenza cattolica nel nuovo partito che si era formato sulle ceneri del vecchio partito comunista.
Questo disegno viene ritardato da una chiusura a riccio di molti vecchi dirigenti del PCI, nei quali si percepivano “talora i segni dell’imbarazzo e del fastidio di dirigenti ossificati nella pratica di un centralismo democratico che considerava l’apporto esterno come un invasione di campo.” D’altra parte quest’atteggiamento era favorito (anche se non certo giustificato) dal fatto che la Conferenza Episcopale Italiana aveva scelto una strada così diversa da non ritenere nemmeno opportuno rispondere ad una lunga lettera in cui l’autrice cercava di spiegare le ragioni della sua scelta di cooperare con gli ex comunisti.
Su questo tema l’amarezza di Paola Gaiotti raggiunge il momento più intenso, che si traduce in un interrogativo che conserva buona parte della sua validità anche oggi. Un amarezza che si esprime con queste parole: “Quel silenzio ufficiale mi torna in mente ancora oggi ogni volta che sento qualcuno straparlare, a torto o a ragione (ma quasi sempre a torto), del disagio dei cattolici nei partiti di sinistra. Se davvero ne sono state ridotte rilevanza politica e forza contrattuale, che peso ha avuto la costante delegittimazione delle loro scelte e della loro autonomia entro l’assunzione di un ruolo politico e diretto della gerarchia”?
Questa è la chiave di giudizio che viene conservata nell’ultimo capitolo del libro, quello che riguarda gli anni più recenti, quelli che corrono dal 1994 al 2008, anni che l’autrice confessa di essere incapace di descrivere con oggettività. Essa però non riesce a nascondere il suo disagio per questo periodo che considera sostanzialmente come un periodo di arretramento nel parlamento, nell’etica civile e nel sistema dell’informazione. Un disagio che la induce ad osservare la politica italiana con sempre minore passione e con una crescente convinzione che i partiti politici, stretti fra il centralismo del potere e l’incapacità di decisione, non sono più in grado di interpretare e guidare i fermenti della società civile.
Credo che le ultime righe del libro siano il più fedele riassunto di questo stato d’animo che, come sempre, riguarda non solo i problemi della società politica ma, ancora una volta, gli eterni e apparentemente insolubili rapporti fra la Chiesa e la società politica italiana. Resistendo alla tentazione, propria di molti autori di presentazioni, di sovrapporre le mie tesi a quelle dell’autore del libro, tentazione in me ancora più forte perché gli anni descritti nell’ultimo capitolo coincidono perfettamente con i miei anni di attività politica, preferisco terminare queste mie riflessioni con le parole conclusive Paola Gaiotti, che sintetizzano questi ultimi anni come “gli anni segnati dal disagio del credente conciliare, che è un disagio insieme ecclesiale e politico”. La profondità di questo disagio non è certo attenuata da una generica speranza per il futuro, alla quale tutti ci appelliamo quando non riusciamo ad amare il presente.
Romano Prodi, nato a Scandiano (Reggio Emilia) nel 1939, ha studiato all’Università Cattolica di Milano, dove si è laureato con lode in Giurisprudenza. Dal 1978 al 1979 è stato Ministro dell’Industria. Nel 1981 ha fondato Nomisma, una delle principali società italiane di studi economici. Dal 1982 al 1989 è stato presidente dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), a quel tempo la maggiore holding italiana. Fondatore dell'Ulivo, è stato due volte Presidente del Consiglio nei governi di centrosinistra (tra il 1996 e il 1998, e tra il 2006 e il 2008). Presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004. Dal 12 settembre 2008 presiede il Gruppo di lavoro ONU-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa.