Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno, Adelphi, 2007
Travolti dal vento della Rivoluzione, i Karin, ricca famiglia russa che per generazioni ha vissuto nella splendida villa di Karinovka, sono costretti a fuggire dalla loro terra e a cercare, come tanti, rifugio in Francia. Solo Tat’jana Ivanovna, la vecchia nutrice, resta a guardia degli antichi fasti ormai perduti, nella grande casa dove ha cresciuto con dedizione assoluta due generazioni di ragazzi. È lei che accoglie il giovane Jurij quando, in fuga dalla guerra, si presenta stremato alla porta della villa. Ed è davanti ai suoi occhi che il ragazzo viene freddato con due colpi di pistola da un compagno di giochi dell’infanzia. Soltanto la richiesta d’aiuto dei suoi anziani padroni la convince a lasciare Karinovka, con i gioielli di famiglia cuciti nell’orlo della lunga gonna, e a raggiungere i Karin nel loro esilio, che solo lei crede temporaneo.
E a differenza dei suoi padroni, che a Parigi vede girare a vuoto come le mosche in autunno, quando “svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita”, Tat’jana non cede al richiamo di trasformare i suoi strazianti ricordi in dolente rassegnazione. Unica della famiglia, tiene ossessivamente viva la memoria del passato anche nella propria carne, convincendosi che la nebbia invernale di Parigi sia soltanto un preludio alla neve che le sferzava il volto nell’autunno di Mosca. E che la Senna, ghiacciata solo nella sua mente ormai confusa dalla nostalgia, sia il grande ponte al di là del quale l’attende, splendida come un tempo, Karinovka.
Tema centrale del brevissimo romanzo di Irène Némirovsky (Kiev 1903 – Auschwiz 1942), pubblicato in Francia nel 1931, è dunque la caparbia ostinazione di un’anziana donna che rifiuta di affondare nell’estranea terra del presente le radici da cui per una vita ha succhiato instancabile vigore. È questo che succede ai vecchi: sono piante dalle radici scoperte, esposte all’aria, e come piante si rinsecchiscono con gli anni. Solo nel corpo, però; perché la loro mente fiorisce di ricordi veri o inventati, e a quelli si aggrappa, sempre più ignara degli obblighi presenti e sempre più protesa ad una fuga. Dolorosa e triste per chi resta – le ali fradice della realtà di oggi – con il cuore incollato a un finestrino.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.