Non c’è come varcare la soglia delle scuole e delle università per misurare la temperatura della febbre da mancanza di questo paese. Mancanza di senso della società, del senso di comunità, del senso di condivisione, del senso della cultura.
E, per contro, non c’è come andare nelle scuole e nelle università per verificare la fatica, la capacità e la speranza di chi (e ci sono ancora uomini e donne così) pensa che fare scuola a qualunque livello abbia un significato e un valore politico, valore fondamentale non solo per l’istruzione in sé ma per la democrazia.
Parma, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di Teoria e tecnica dei nuovi media, 80 ore di lezione, valutato in 10 crediti (un complesso sistema che sa molto di partita doppia e che ancora non capisco).
Tutti i viaggi, quelli per le lezioni più gli esami e l’alloggio sono a mio carico, vado e vengo da Genova, per fortuna una coppia di amici mi offre un letto.
La retribuzione è di 2000 euro lordi (in tutto, non al mese) il primo anno, poi 3000 il secondo: se prendo solo treni regionali (e se non faccio più di un viaggio a/r a settimana, con lezioni di almeno 4 ore al giorno) riesco, a fine corso, a guadagnare circa 1300 euro netti, forse 1500 nel secondo anno.
Fornisco la cifra perché è interessante capire come (e quanto) nel ‘sistema’ Italia sia valutato, in termini economici, il lavoro di un anno di una persona con titoli, curriculum e pubblicazioni riconosciute per accreditarla a tenere un corso nel tempio del sapere nazionale: l’Università, appunto.
Consapevole che non si vive di solo pane, (nonostante quest’ultimo sia sempre più caro, e infatti quando posso impasto a casa), parto per questa avventura: da decenni mi sono familiari sia le scuole che le università così come le aule della formazione, ma è la prima volta che tengo un corso tutto mio all’Università.
Al primo incontro si presentano in circa 40, quasi tutte ragazze, età tra i 20 e i 24 anni. I ragazzi saranno sempre non oltre cinque o sei, in entrambi i corsi.
La classe resta interdetta dal mio approccio informale (non sono una docente classica, e mi accorgo che l’impostazione non cattedratica non è consueta qui, a partire dal fatto che non mi tengo lontana, ma cammino tra di loro, gesticolo, mi fermo a sollecitare interventi). Alcuni sguardi sono lievemente divertiti, altri decisamente non approvano; in tre si alzano e se ne vanno, ma l’emorragia si ferma lì.
Cerco di coinvolgerli in uno scambio, spezzando quella che mi pare una tacita richiesta di monologo unilaterale: domando aspettative e bisogni rispetto all’argomento del corso, ma a parlare sono pochissime.
La sensazione è che siano lì pronte a prendere appunti e basta, e che questa sia l’unica modalità alla quale sono abituate da anni nell’approccio al sapere.
Incredibile: in tv vedi orde di giovani che urlano e si insultano, piangono e ridono nei reality e nelle trasmissioni di intrattenimento. Qui, nella banale e noiosa vita reale, l’assenza di telecamere genera silenzio e afasia.
Per farmi coraggio mi dico che questo mutismo è fisiologico perché è la prima volta che ci vediamo, e mi pare una buona idea quella di provare ad attribuire per la prossima lezione un piccolo compito: oltre a leggere una pagina che ho tratto da Internazionale (un romanzo d’amore è stato interamente elaborato da un computer, l’idea è di una casa editrice russa che ha fatto scalpore) chiedo loro di stilare il diario personale di una giornata – tipo in relazione alle nuove tecnologie che usano.
Verrà fuori che la radio è obsoleta, che il pc (perennemente collegato alla rete) si contende il primato di fonte assoluta con la tv, che il cellulare è sempre acceso e che i giornali di carta sono un vago ricordo. La buona notizia è che l’approccio informale ha incuriosito, e la classe lievita fino a raggiungere la settantina di unità.
Una delle lezioni cade nel giorno dell’Earth Day: solo in due sanno del video che vediamo assieme,Sei gradi, prodotto dal National Geografic in occasione della giornata mondiale della Terra (alla quale ben quattro canali tv, tra cui Mtv, hanno dedicato almeno otto ore di programmazione); è un video duro, molto puntuale sugli effetti del cambiamento climatico e, quando si riaccendono le luci, la quasi totalità dice di sapere poco o nulla su questi argomenti. Buio totale sull’effetto serra. Lo stesso silenzio c’è dopo la visione di Mio Fratello Mini Vip di Bruno Bozzetto (sconosciuto), un geniale cartone animato allegramente profetico sui guasti della società dei consumi. Quando cito alcuni nomi che hanno riflettuto sulla società di massa e del consumo, ovvero Pasolini, Umberto Eco, Vandana Shiva, Popper non si alza alcuna mano, nessuno sguardo di riconoscimento. Non sanno chi sono.
Ma chi, e cosa hanno insegnato fin qui gli adulti che hanno incontrato nelle varie peripezie scolastiche?
Qualcosa si muove, ma dolorosamente poco, quando propongo la visione del film collettivo Un altro mondo è possibile, realizzato da oltre venti registi italiani sul Public Forum e le manifestazioni organizzate dal Genoa Social forum dal 16 al 19 luglio 2001. Su questa proiezione, e i suoi effetti, vale la pena di soffermarsi.
Risultano ignoti Salvatores, Tognazzi, Archibugi, mai sentita nominare alcuna delle personalità che compaiono nel filmato (tra queste due premi Nobel, tra cui Nelson Mandela).
La miccia che accende un po’ la prima vera discussione è il commento di una ragazza al film: “Non capisco come si possa cambiare il mondo con dei cortei o delle canzoni. Questi manifestanti mi sembrano usciti dal secolo scorso, l’aria è quella della festa di paese.”
A quel commento, finalmente, partono le reazioni: una voce obietta che definire ‘festa di paese’ un evento come le giornate di Genova è offensivo per i contenuti che sono circolati, un’altra dice che le persone intervenute allora, a parte i blackbloc e la polizia violenta, erano lì per cambiare pacificamente il mondo.
Ma è una parola, già emersa nella debolissima discussione su Sei gradi a farla da padrona: ormai.
L’avverbio arriva, micidiale, a delimitare con chiarezza l’orizzonte: nel caso dell’allarme ambientale, così come nell’aspirazione all’allargamento dei diritti e allo sdegno per le ingiustizie, c’è una sola posizione condivisa. Ormai le cose stanno così, poco si può fare, nulla può cambiare davvero. Regna la rassegnazione.
Solo una ragazza, timidamente, esce fuori dal coro: “Ma se chi ci ha preceduto avesse pensato così non sarebbe cambiato mai niente”. Già, ma è l’unica.
Poche lezioni dopo tento una discussione a partire da un altro articolo di Internazionale contro l’invadenza della pubblicità su Facebook.
“Non capisco perché infastidirsi sulla pubblicità – sostiene un’allieva tra le più brillanti -. La pubblicità serve perché informa”.
Quando chiedo loro la differenza tra ‘informazione’ e ‘pubblicità’ stentano a trovarla e, ancora peggio, non ne afferrano l’importanza cruciale. Pur stando in Emilia non sanno che lì a due passi c’è una delle più grandi biblioteche europee delle donne, né che sul web una delle risorse più ricche e gratuite di materiali video autoprodotti è Arcoirs, che sta a Modena. In due anni di corso ho portato alla biblioteca di Bologna, a Modena ad Arcoiris e a Radio popolare di Milano oltre 100 studenti, e risulta che non sia consueto questo nomadismo culturale all’Università. Le buone notizie arrivano nel tempo, quando cominciano a fiorire gli elaborati che chiedo all’esame: accanto alla lettura dei testi ho invitato a produrre come meglio credono (on line, scritto, video, power point…) un prodotto sul loro rapporto di giovani donne e uomini con i media nel quotidiano. Grazie all’intreccio tra le letture consigliate, come la Storia naturale dei sensi di Ackermann, Manifesto ciborg di Haraway passando per Desiderio e tecnologia di Stone, in questi due anni ho visto fiorire alcuni piccoli capolavori: la maggior parte dei video o dei siti sono un mix di poesia postadolescenziale e di ironica autoreferenzialità e presto riuscirò a renderne disponibili la maggior parte online. Con i tagli della Gelmini il terzo anno di corso è fortemente a rischio, ma non si sa mai. I libri che ho prestato, portati da casa perché alcuni sono introvabili persino nelle biblioteche, tornano indietro con gli odori delle loro stanze: ci sono sottolineature e segni nuove, che si aggiungono alle mie, quando ero studentessa, io che ora sono la prof. È strano, come quel fragile contatto mi appaia così intimo, e carico di attesa. La cultura e il sapere sono anche questo.
Monica Lanfranco è giornalista e formatrice sui temi della differenza di genere e sul conflitto. Ha fondato il trimestrale di cultura di genere MAREA. Ha collaborato con Radio Rai International, con il settimanale Carta, il quotidiano Liberazione, con Arcoiris Tv. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici). Insegna Teoria e Tecnica dei nuovi media a Parma.
Il suo primo libro è stato nel 1990 "Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi". Nel 2003 ha scritto assieme a Maria G. Di Rienzo "Donne disarmanti - storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi" e nel 2005 è uscito il volume "Senza Velo - donne nell’Islam contro l’integralismo". Nel 2007 ha prodotto e curato il film sulla vita e l’esperienza politica della senatrice Lidia Menapace dal titolo "Ci dichiariamo nipoti politici". Nel 2009 è uscito "Letteralmente femminista – perché è ancora necessario il movimento delle donne" (Edizioni Punto Rosso).