Viola Di Grado, Settanta acrilico, trenta lana, E/O 2011.
“Avere vent’anni non è mica facile, ci vuole una vita per imparare…” Lo cantava anni fa Fiorella Mannoia, in Al fratello che non ho. Lo sperimenta in tutte le sue declinazioni Camelia, che di anni ne ha ventuno e vive a Leeds, in Christopher Road, una via “talmente brutta da essere una prova che Dio non esiste”, dove domina un buio da titoli di testa, denso dell’attesa che qualcosa cominci e invece non comincia mai niente. Piuttosto finisce, come è finita la vita del padre di Camelia, rinchiuso con la sua amante in un’auto caduta dentro un fosso.
E dentro a un fosso, a un buco, ad un cratere senza fondo sembrano richiamate da una forza magnetica le persone che vivevano con lui e per lui: Livia, la moglie tradita, che si consegna a una muta disperazione, fatta di sguardi lattiginosi che dicono pensieri senza punteggiatura, di macchie sulle tute deformate e grigie, dell’assurda ossessione di immortalare con la Polaroid tutti i buchi della sua casa-bozzolo; e Camelia, fatalmente attirata nel gorgo di silenzio che circonda la madre. “Non lo capiva nessuno che sono le parole che sono contrarie alla vita, ti nascono in testa, te le covi in gola, e poi in un attimo ci spargi sopra la voce e le uccidi per sempre. La lingua è un crematorio incosciente che vuole condividere e invece distrugge, come le dita-lame di Edward mani-di-forbice, che se accarezza taglia la faccia.”
E allora a che vale – si arrende Camelia – conoscere l’ora e il giorno che vivi, allearsi, scontrarsi o confondersi con il consorzio umano; meglio chiudere tende e persiane, in un esilio volontario dal mondo. Fino a quando arriva Wen, timido e impacciato commerciante cinese di abiti astrusi, a insegnarle la propria lingua, una delle più complesse del mondo, e a condurla, attraverso un labirinto di ideogrammi, alla scoperta di un nuovo modo di comunicare. Nessuna paura, in questa storia non c’è lieto fine, perché a Leeds davvero non cambia mai niente, e anche le storie d’amore, come le stagioni, finiscono ancor prima di cominciare.
Ma a raccontarlo, questo libro ci perde, perché si rischia di rovinare la sorpresa. E non perché sia un giallo con un colpevole da smascherare. La vera sorpresa è una scrittura fresca e incisiva, tagliente a volte, ma subito dopo capace di carezzare le ferite; a tratti sfacciata e cattiva, come sanno esserlo i giovani anche con se stessi, e poi improvvisamente malinconica come certe sere d’inverno in città. Un ottimo esordio, insomma, per un’autrice che ha solo ventitré anni e alla quale auguro di cuore di conservare quel caustico cinismo e quell’originalissimo sguardo sul mondo che più di una volta mi ha strappato sorrisi sinceri.
E chi leggerà questo libro stando seduto nel suo scompartimento, non riuscirà a trattenere una risata aperta. Per esempio là, a p. 130, al capoverso che inizia: “Il treno come al solito era in orario…”. E forse penserà, per un attimo almeno, di stringere fra le mani un’opera di pura fantascienza.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.