Da bambino pregavo per la Cina. Era una preghiera profondamente egoista. Disteso sul letto, le dita intrecciate, ripetevo ogni notte la stessa lista di desideri: “Caro Dio Padre, grazie per tutte le cose buone nella mia vita. Ti prego, prenditi cura di mamma e papà, di Lisa (mia sorella), della nonna e del nonno, di Toby (il mio cane), dei miei amici (e qui elencavo tutti quelli che in quel momento era- no i miei amici) e di me”. Terminato l’appello, concludevo sempre con le stesse parole. “Ti prego di portare la pace nel mondo, di aiutare tutti i poveri e gli affamati, e di far sì che in Cina non saltino tutti nello stesso momento.”
Ho aggiunto l’ultimo desiderio quando mi sono reso conto di quanto fosse gigantesco quel paese che si trovava dall’altra parte del mondo. Per un ragazzino inglese cresciuto negli anni ’70 nella periferia di uno stato insulare, non era facile cogliere le dimensioni della Cina. Il pensiero che quel paese avrebbe ospitato un miliardo di persone mi affascinava. Amavo i numeri, soprattutto quelli grandi. Ma cosa significava un miliardo? Me lo spiegò un adulto con un’immagine terrificante che non ho mai dimenticato. “Se in Cina tutti saltassero nello stesso momento, si produrrebbe una scossa tale da spostare l’asse terrestre, uccidendoci tutti.”
Ero un apprensivo nato e questa notizia mi rese più ansioso di qualsiasi altra cosa avessi mai sentito. Per la prima volta nella mia giovane mente si profilava la possibilità che io venissi ucciso da gente che non avevo mai visto, che non sapeva della mia esistenza, e che non aveva neppure bisogno di una pistola. Di fronte a questa eventualità, ero completamente impotente. Mi pareva tanto ingiusto quanto pericoloso. Era un incidente che avrebbe potuto verificarsi da un momento all’altro. Qualcuno doveva fare qualcosa!
Di colpo la vita mi sembrò più precaria di quanto avessi mai immaginato. In una variante della preghiera, chiedevo a Dio di assicurarsi che, se proprio i cinesi dovevano saltare, almeno lo facessero singolarmente o in piccoli gruppi. Ma, col tempo, le mie ansie svanirono. La maturità che si acquisisce al momento di compiere otto anni mi fece capire che si trattava di un’assurdità infantile.
Per quasi trent’anni smisi di pensare al salto apocalittico. Poi, nel 2003, mi trasferii a Pechino, dove scoprii che non sono solo i piccoli sciocchi bifolchi a temere che la Cina possa compiere un balzo che farà tremare il mondo. Nel frattempo, la nazione afflitta dalla povertà si era trasformata in un peso massimo dell’economia e la sua popolazione si era arricchita di altri 400 milioni di cittadini. La Cina stava attraversando una fase di sviluppo tra le più vertiginose della storia quando io vi capitai, al tempo in cui Pechino si preparava per le Olimpiadi del 2008.
La trasformazione della città fu rapida e radicale. Scomparvero i vicoli hutong, le tradizionali case con cortile e le antiche mura di cinta. Furono eretti stadi futuristici, torri televisive, terminal di aeroporti e altri monumenti alla modernizzazione. Quelli che un giorno erano bar e ristoranti, il giorno seguente erano mucchi di macerie. Decine di migliaia di vecchi muri furono imbrattati con il carattere cinese chai (demolizione). I tabelloni che circondavano un vicino cantiere furono vennero con gigantesche fotografie della vecchia città e uno slogan tra il beffardo e il dolente: “La nostra vecchia città: Via col vento”.
Vivendo in un paesaggio che mutava così rapidamente, non si sapeva se festeggiare, commiserare o semplicemente contemplare ammirati. Le dimensioni e la velocità del cambiamento spingevano tutto all’estremo. Un giorno, la Cina sembrava una nuova superpotenza emergente. Il giorno dopo, dava l’impressione di essere il centro esploso di un’apocalisse ambientale. La maggior parte del tempo, era semplicemente avvolta nello smog.
Poco dopo il mio arrivo, tornando a casa a piedi, una mattina prima dell’alba, mi trovai in una foschia così fitta che ebbi l’impressione di essere completamente solo in una città di diciassette milioni di abitanti. L’aria bianca, lattiginosa, era stranamente confortevole. I grattacieli si erano trasformati in fantasmi di trenta piani. Sembrava che il mondo fosse svanito. Eppure quel mondo al tempo stesso veniva ricostruito. Lassù le gru incombevano minacciose nella foschia come giganteschi scheletri.
Nella mia testa, col passare degli anni, la gru e lo smog sarebbero diventati sinonimi delle due prove più ardue che l’umanità avrebbe dovuto affrontare: l’ascesa della Cina e i danni causati all’ambiente su scala mondiale. Stavano edificando la più spettacolare città olimpica della storia. Le emissioni al camino e gli scarichi delle auto stavano distruggendo la salute di milioni di persone e contribuendo al riscaldamento del pianeta come mai prima di allora.
L’anno dopo il mio arrivo, il PIL della Cina superò quello di Francia e Italia. Un altro anno di crescita permise il sorpasso su quello della Gran Bretagna – l’obiettivo che Mao Tse-tung aveva fissato, con effetti disastrosi, nel Grande balzo in avanti, cinquant’anni prima. Tra il 2003 e il 2010, la Cina ha cessato di ricevere aiuti dal Programma alimentare mondiale e ha scalzato la Banca mondiale come principale investitore in Africa. Le sue riserve internazionali sono diventate le maggiori al mondo, sorpassando quelle del Giappone. La nazione che prima era considerata un caso disperato ha completato la ferrovia più alta del mondo, la più potente diga idroelettrica, ha lanciato una prima missione spaziale umana, spedito una sonda sulla luna e ora si trova al centro del dibattito mondiale sui mutamenti climatici.
In quel periodo la popolazione è cresciuta a un tasso superiore ai sette milioni di persone all’anno, oltre settanta milioni di abitanti si sono trasferiti in città, il PIL, la produzione industriale e quel- la di automobili sono raddoppiati, il consumo di energia e la produzione di carbone hanno fatto un balzo del cinquanta per cento, il consumo di acqua si è impennato a 500 miliardi di tonnellate e la Cina è diventata il maggiore emettitore di anidride carbonica e produttore di inquinamento al mondo.3
Come padre, mi sono preoccupato per la salute delle mie due figlie quando l’aria è peggiorata al punto che a scuola gli alunni non avevano il permesso di uscire durante gli intervalli. Ho anche temuto per i miei polmoni. Amante del jogging fin dall’adolescenza, mi sono ritrovato ad avere il fiato corto e un sibilo nel respiro anche dopo una breve corsa. Quando, all’inizio di ogni inverno, le stufe a carbone cominciavano a bruciare, soffrivo di una tosse secca e roca che a volte mi lasciava piegato in due. A Pechino ho avuto due attacchi di polmonite e, per la prima volta in vita mia, mi sono stati prescritti steroidi inalatori. La città stava soffocando e io con lei.
Essere a Pechino in quel periodo voleva dire trovarsi davanti al- le conseguenze di due secoli di industrializzazione e urbanizzazione, inquadrate in primo piano, ad avanzamento rapido su uno schermo grande come un continente. Ben presto mi fu chiaro che la Cina rappresentava il nodo cruciale della crisi ambientale a livello mondiale. Le decisioni prese a Pechino avrebbero determinato, più che in qualunque altro posto al mondo, la prosperità o il declino dell’umanità. Il caos in mezzo al quale mi ritrovai appena giunto nella città prima mi fece inorridire, poi mi eccitò. Nessun altro paese stava vivendo una tale confusione. Nessuno disponeva di maggiori incentivi al cambiamento.
L’ambiente era diventato una questione di sicurezza nazionale e il governo cominciava a reagire. La dirigenza – l’ingegnere idraulico Hu Jintao e il geologo Wen Jiabao, o, come iniziai a chiamarli nella mia testa, Presidente Acqua e Premier Terra – cominciava a mutare il colore della retorica comunista dal rosso al verde. Volevano che la scienza salvasse la natura. Invece di un’espansione economica in- condizionata, promettevano la sostenibilità. Se riuscissero a centrare i loro obiettivi, la Cina potrebbe affermarsi come prima superpotenza verde al mondo. Se, al contrario, dovessero fallire e la nazione più popolosa al mondo continuasse a crescere senza criterio, la nostra intera specie potrebbe piombare nel precipizio ambientale.
Questi erano i due estremi. Probabilmente la verità stava da qualche parte nel mezzo – ma dove? Questa è la domanda cruciale che mi sono posto nel periodo trascorso in Cina. Per i primi cinque anni, in qualità di corrispondente per il Guardian, mi sono interessato soprattutto di ambiente. Poi, questo interesse si è trasformato in un’ossessione al punto da indurmi a prendere sei mesi sabbatici per condurre viaggi di ricerca a titolo personale. Al mio ritorno, avevo un nuovo posto come esperto ambientale dell’Asia. Viaggiando per oltre 150.000 chilometri dalle montagne del Tibet ai deserti della Mongolia Interna, sono stato testimone di catastrofi ambientali, eccessi consumistici e toccante dedizione. Sono stato a Shagri-La e Xanadu, lungo la Via della seta, nelle miniere di carbone, attraversando discariche di rifiuti e numerosi villaggi del cancro. Ho visto la comunità più ricca, la città più inquinata e il mare più sporco. Nel corso del viaggio ho parlato con eminenti ambientalisti, politici, avvocati, scrittori e con i migliori esperti in Cina in materia di energia, ghiacciai, deserti, oceani e clima. Ho appreso storie drammatiche di persone comuni colpite nei modi più impensabili da uno sviluppo vertiginoso senza precedenti nella storia del pianeta.
Questo, dunque, è un diario di viaggio attraverso una terra oscurata dallo smog e trasformata dalle gru; un diario di viaggio che esamina in che modo i consumi urbani influiscano sugli ambienti rurali. Cosa stiamo perdendo e come? Con quali conseguenze? Ci sono soluzioni possibili? Questa è la proiezione dello sviluppo moderno dell’umanità su uno schermo cinese.
I vari capitoli procedono per regioni e per temi, mostrando la varietà di problematiche e sfide ecologiche, economie e culture in gioco, ma la struttura del libro è più polemica che geografica. Quando mi sono trovato a dover scegliere tra uno studio fortemente analitico e una linea sulla mappa, ho optato per il primo anche se questo talvolta mi ha costretto a sorvolare su alcune province, tornare due volte negli stessi luoghi, e trascendere alcuni confini. Perché nessuno mi attribuisca l’intenzione di sostenere nuove rivendicazioni territoriali del Dongbei sulla Mongolia Interna, o del sud-est sul Chongqing, chiarisco che la loro posizione in queste pa- gine è dovuta alle potenti tendenze che mettono in luce. Mi scuso altresì con chiunque si senta offeso o deluso dal mio approccio selettivo. L’omissione di una provincia non intende sminuirne l’importanza più di quanto l’inclusione non voglia indicare un caso paradigmatico.
La scelta di luoghi e argomenti in queste pagine dipende esclusivamente dalla mia esperienza personale. Questa, a dispetto dei molti anni e dei chilometri percorsi, rimane limitata. La Cina è troppo vasta e cambia troppo rapidamente per poterla cogliere nella sua interezza. Tuttavia anche i frammenti raccontano una storia. Prendendo le mosse dalle alture selvagge del mondo e discendendo nelle affollate pianure inquinate, il libro tratteggia il moderno progresso dell’umanità e il percorso che ha fatto crescere in me una consapevolezza: ora che la Cina ha fatto il salto, dobbiamo tutti riequilibrare le nostre vite.
Jonathan Watts, esperto ambientale e corrispondente dall’Asia del Guardian di Londra. Le sue inchieste hanno vinto vari premi internazionali e per due volte il One World Media Award per le analisi sulla crisi alimentare globale. Il libro “Se tutti i cinesi saltano assieme” è tradotto in dieci lingue. In Italia lo pubblica Nuovi Mondi.