Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, 2011.
Consigliare il libro di Adriana Zarri come lettura da treno è pura follia, perché sono pagine che richiedono un attenzione profonda, intima, impossibile da praticare nell’affollata estraneità di una carrozza ferroviaria. Eppure, proprio il treno è stato, per me, il luogo adatto per sperimentare l’apparente paradosso su cui la Zarri, senza mezzi termini, ci costringe a riflettere.
Dal suo eremo – in cui ha vissuto dal 1975 fino al giorno della morte, nel novembre 2010 – lancia infatti una dura provocazione che nemmeno il lettore laico, abituato a considerare la vita in una dimensione soltanto orizzontale, può ignorare: rinchiuso in un guscio di lumaca non è l’eremita, che pure vive fisicamente appartato dal consorzio umano, ma siamo noi che ogni giorno incontriamo decine e decine di persone, noi che guardiamo la tv, andiamo al cinema, leggiamo i giornali per essere sempre al passo con il nostro tempo, noi immersi fino al collo nel sociale, nella politica, nella storia. Noi che, nonostante tutto, «soffriamo» la solitudine. Di più: ne abbiamo una feroce paura.
Ma se sapessimo che cos’è, se ne avessimo fatto l’esperienza, capiremmo invece che è l’unica nostra dimensione vera. Perché è lo stato che nasce dalla capacità di distinguere quali sono le cose importanti e quelle di cui si può fare a meno; dalla capacità di riconoscere il «di più» interiore che abbiamo accumulato nel tempo; dalla capacità di farsi «spazio vuoto» e, dunque, aperto e accogliente.
Al contrario, rinchiusi nei nostri gusci di lumaca, passiamo la vita ad «accontentarci»: ad accontentarci come si accontentano i bambini, comprando oggetti per rendere più confortevole il nostro isolamento; ad accontentarci come usano accontentarsi gli adulti, raccontandoci che, tanto, meglio di così la vita non potrebbe essere. E magari, ci crogioliamo pure nel romantico tormento di aver sacrificato una parte di noi – forse la migliore –, senza comprendere che, così facendo, continueremo a essere una controfigura di noi stessi. Una controfigura che ha dato nomi impropri come «serenità» e «pace» al quieto vivere, che ha scelto di aggirare gli spigoli, essere condiscendente e arrendevole, farsi una cuccia calda e ripararla dai venti.
L’eremo non è, ovviamente, per tutti; ma il tentativo di abbandonare le stampelle cui ci aggrappiamo ogni giorno, per cercare di raddrizzare la schiena e andare avanti con le «nostre» forze, quello sì, è davvero per tutti: è un atto di onestà, è presentarsi agli altri a mani nude, disposti anche a lasciarsi ferire. È il primo, inevitabile passo verso l’autenticità, verso la scoperta che «c’è un dolce amore di sé, un dolce capirsi, un dolce sapersi perdonare che è altra cosa dall’egocentrismo. E ciò che lo distingue è, al solito, il movimento del distacco cha ha lacerato quel primo e rozzo “accontentarci” per consentire un puro “amarci”».
È, questa, la lettura che ho chiamato «orizzontale»: un richiamo a riprendersi la propria originalità, a imparare a fare i conti con se stessi, a liberarsi dalle dipendenze che zavorrano la crescita personale. Il passo successivo, il lasciarsi incontrare da Dio, è frutto della grazia. Non può essere un «atto» di scelta, nasce dall’abbandonarsi a Lui. Questo è il dono che Adriana Zarri ha ricevuto e che ha voluto, con la sua ruvida tenerezza contadina, dividere con noi.
«Così, pur nel cammino, nelle perplessità, nei dubbi che dobbiamo tentare di risolvere da noi, con tutti i rischi dell’errore, viviamo in un clima inalterato di certezza, di pace, di arrivo. Ecco: il senso pacificante dell’arrivo, mentre infuria la retorica della ricerca e del cammino. E siamo, sì, anche noi in ricerca e in cammino, ma sentiamo, in profondo, di essere già arrivati; e che le domande radicali hanno avuto risposta, le attese più profonde hanno avuto un incontro, le seti più riarse sono state appagate.»
Nel cicaleccio di una carrozza affollata, così stridente con l’armonioso silenzio in cui ha vissuto la Zarri, si scioglie inaspettatamente la tensione del giorno e avverto l’inattesa, acuta nostalgia di una Certezza.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.