Dal diario di Silvio Berlusconi. “Addì, 25 maggio 2011. Notte terribile stanotte, notte d’angoscia con un rovello a straziarmi dentro. Che ne sarà di me domani? Continueranno quei malnati del G8 a voltar il muso se solo faccio un accenno di saluto, se mi appresto a narrare del divo Remolo, se illustro le italiche bellezze, o se oso raccontare la piacevole storia della mela? Credono proprio che non mi sia accorto dei loro indisponenti maneggi? Non ne posso più di quella santarellina della Merkel che quando mi vede fa sempre finta di dover salutare un collega all’altro lato della sala. Mi fa cadere le coglia quello spocchioso di Sarkozy che girando vorticosamente l’indice mi fa intendere, senza dir parola, che ci vedremo più tardi. Mi sbriciola la mentula quel damerino di Zapatero che, guarda caso, se la svigna ogni volta dicendo che gli scappa di grosso. Mi sta sul gargarozzo quel marpione di Obama che si mette a sbadigliare solo se mi permetto di guardarlo. Non vi dico poi degli altri (mi vergogno chiamarli “colleghi) che ostentatamente si tolgono le cuffie per la traduzione simultanea non appena apro bocca per uno dei miei “epocali” interventi. E basta là, porco qui e porco là!!! Manco fossi un barzellettiere da bettola, un venditore di piatti da fiera paesana, un mentitore da far schifo, un seduttore da balera, un corruttore di minorenni, o se vogliamo dirla con le icastiche immagini del povero Giovanni Giudici: un “amoroso di moneta / e poi transfuga e plagiario / fellatore e pio terziario / barattiere e prosseneta”.
Ma domani, con l’aiuto di Livio, il mio fedele fotografo di Palazzo Chigi, glielo preparo io uno scherzetto da preti a questi stronzi. Quando Sarkozy (quanto mi sta antipatico, ‘sto borioso!) starà per aprire la seduta, chiamerò il fido Livio e quatto, quatto mi avvicinerò all’abbronzato che nonostante la storia delle torri gemelle non sta mai in guardia.. Prima che abbia il tempo di sbadigliare o di abbozzare una fuga gli metterò una mano sulla spalla, segno di confidenza antica, e comincerò a parlargli non urlando come quelle volta che quell’antipatica dell’Elisabetta mi fece una cazziata da levarmi la pelle, né come quando parlai fitto, fitto all’orecchio di Bush sputacchiandovi dentro. No, sarò serio, compunto, quasi afflitto come chi si appresta a rivelare segreti di Stato o pericolose e indifferibili questioni internazionali.
Mi aiuterà, a sottolineare la mia umiltà, la mia modestia e il mio senso d’inquietudine quel pallore che mi porto dietro da quando quegli scervellati che allignano all’ombra della Madonnina hanno messo in atto quella che i miei nemici chiamano (con volgarità inaudita) “immedicabile sodomizzazione”. Quando l’abbronzato, non capendo una mazza di quello che gli andrò dicendo sui giudici mentecatti e sui giornalisti cialtroni, spalancherà gli occhi, vacillerà, cercherà soccorso nell’interprete, sarà troppo tardi: il giochetto sarà durato appena due minuti e io avrò vinto. L’indomani tutti parleranno di me e non solo in Italia. Sì, lo so, quei comunistacci di guano che orrendi si annidano un po’ dappertutto mi tratteranno da buzzurro irrispettoso delle regole, da irresponsabile che denigra il proprio paese o, se mi va bene, da scolaretto bizzoso e rompipalle che si lagna col maestro perché gli hanno fregato la merenda.
Ma sai quanto mi frega ‘sta lagna? Dalla mia avrò due carte vincenti: 1. i miei potranno dire che io e l’Obama siamo culo e camicia; 2. io potrò mostrare alle olgettine che mi sculettano davanti fra un bunga bunga e una danza intorno al palo, le immagini di me medesimo mentre poggio la mano sulla spalla dell’amico americano e spartisco con lui amorosi sensi.
Gino Spadon vive a Venezia. Ha insegnato Letteratura francese a Ca' Foscari.