“O ti racconti o sei raccontato”. Checchino Antonini, giornalista di Liberazione e attento cronista dei movimenti sociali, l’ha scritto spesso. È la prima frase che mi è venuta in mente per questo articolo: se devo scegliere una singola linea che unisca il ricordo di Genova 2001 al “fenomeno comunicativo” de L’isola dei Cassintegrati è proprio la capacità di raccontarsi, di contrapporre la propria narrazione a quella di media sempre più distratti e servili.
L’Isola, partendo dall’Asinara e dalla Vinyls, ha raccontato proteste operaie mentre “altri” dicevano “La crisi non c’è. E se c’è stata è già passata”. A Genova voci singole hanno saputo farsi cronaca collettiva, scardinando le veline ufficiali. La “normale perquisizione” della scuola Diaz ormai per tutti è la “macelleria messicana”. Con buona pace di chi nell’immediatezza tentò di additare “i ragazzi della Diaz” come la centrale operativa dei disordini avvenuti nei giorni precedenti. E sappiamo delle torture nella caserma di Bolzaneto. Sono fatti certificati da sentenze d’appello, ma prima ancora da decine di testimonianze che hanno fatto carta straccia delle menzogne ufficiali.
Persino verso i manifestanti processati il tribunale ha definito l’ordine di attaccare il corteo del 20 luglio “non solo illegittimo, ma ingiustificato e sproporzionato alla situazione”, e la prima reazione dei manifestanti “una reazione legittima nei confronti di atti arbitrari dei pubblici ufficiali”.
Alla storia di una città messa a ferro e fuoco da centinaia di vandali, di fronte ai quali le forze dell’ordine hanno reagito macchiandosi al più di singoli eccessi, ormai in pochi possono credere restando in buona fede.
Dieci anni dopo resta l’amarezza di una politica che non ha saputo dare risposte all’altezza degli accertamenti processuali e delle testimonianze raccolte. Che si è schierata acriticamente e trasversalmente a difesa delle forze dell’ordine, senza neppure chiedere “un passo indietro” ai condannati. Che non ha saputo concretizzare neppure alcuni semplici correttivi alle operazioni di polizia, come la riconoscibilità degli agenti in ordine pubblico, l’inserimento nel nostro codice del reato di tortura, l’esclusione dell’utilizzo di sostanze nocive quali il gas CS (per i suoi effetti e per l’attualità di questa richiesta chiedere in Val di Susa…).
Resta l’amarezza per alcuni manifestanti che, rispolverando un reato (la “devastazione e saccheggio”) proprio del codice di guerra e più adatto agli Unni di Attila, vedono concreto il rischio di anni di carcere, dopo condanne in appello sproporzionate ai fatti contestati e in tragicomico contrasto con quelle emesse verso le forze dell’ordine. Restano infine l’amarezza e il dolore più grandi: per Carlo Giuliani. Il suo omicidio è il fatto più tragico e l’unico irrimediabile di quei giorni. Ed anche, per sciagurato paradosso, l’unico a non essere arrivato a un processo.
Carlo è anche il solo che la “sua” Genova non ha potuto raccontarla. Il suo futuro è stato fermato a dieci anni fa da un colpo di pistola; la sua immagine da cronache che gli hanno voluto cucire addosso l’immagine di uno che “in fondo se l’è cercata”.
Abbiamo provato noi, io e Manuel, a raccontare “per lui” la “sua” Genova. La sua ultima giornata, ma anche la sua breve vita, le sue scelte, le poesie… L’abbiamo fatto parlando con i genitori Haidi e Giuliano e la sorella Elena, per testimoniare una personalità complessa, una sensibilità molto diversa dall’immagine consegnata alla storia dal cinico opportunismo di troppi organi di stampa.
Nel nostro racconto è rimasta l’immagine di un ragazzo che oggi probabilmente seguirebbe proprio “L’Isola dei Cassintegrati”, perché ancora oggi lotterebbe contro i rigurgiti del fascismo, contro il razzismo, per il diritto alla casa, al lavoro… Nel campo ormai devastato della difesa dei diritti.
[articolo pubblicato su www.isoladeicassintegrati.com]
Francesco Barilli (classe 1965) è un mediattivista e coordina il sito www.reti-invisibili.net. Collabora con ecomancina, Fumetti di Carta e Liberazione.