Quando, all’altro lato del mondo, era svelata la mia nazionalità italiana, mi veniva servito un allegro buffet di stereotipi folklorici che dovevo possibilmente ingollare con signorilità. Italiana? Mafia! Pizza-pasta, mamma mia! Erano gli anni ’80 e la sparata più imbarazzante la segnalavano gli “antropologi” libidinosi: italiana? Cicciolina! Sì, accettiamolo, abbiamo bisogno di luoghi comuni, preferibilmente grotteschi. D’altronde, anche noi siamo dei produttori seriali di pre-giudizi, e mettiamo l’Altro nella comoda posizione di confermare la etero-definizione. Quali situazioni ci prendono contropiede e perché? L’eccezione alla regola, anche se la regola la creiamo noi sulla base di una evidente ignoranza del mondo dell’Altro: che è variegato quanto o più del nostro.
L’arabo parlato in Italia… dai media
Secondo il dossier Caritas Migrantes 2010, 668.848 residenti in Italia parlano arabo come madrelingua (un idioma parlato nel mondo da 300 milioni di persone). I 22 paesi di provenienza degli immigrati arabi in Italia includono Yemen, Libia, Oman, Palestina, Tunisia, Marocco, Emirati Arabi Uniti, Mauritania, Libano, Giordania, Algeria, Egitto, Arabia Saudita, Somalia, Kuwait, Siria, Qatar, Iraq, Gibuti, Comore, Bahrein e Sahara Occidentale. Il minimo spazio televisivo dedicato all’Italia pluriculturale imbocca il pubblico con una paradossale semplificazione mediatica sull’identità dell’Altro, specialmente se arabo.
Ma non siamo gli unici. Difatti, una ricerca di Wingfield & Karaman sugli stereotipi dimostra che il mondo arabo è tuttora ritrattato da gran parte dei cartoni animati e dal cinema occidentale come il deserto: dei cammelli, della crudeltà arbitraria e del barbarismo. Di erotiche danzatrici del ventre e bellezze da harem, affiancate da beduini, sceicchi e terroristi. Anche se solo 2% degli arabi sono beduini tradizionali, e oggi il numero di ingegneri ed esperti informatici supera abbondantemente il numero di abitanti del deserto. La mitragliata del rifiuto include le seguenti presupposizioni circa una fantomatica “mentalità araba”: monolitica, unidimensionale, statica, ostile, militante, patriarcale, misogina, arcaica, incapace di integrarsi. Assetata di teocrazia.
L’analista mediatico Jack Shaheen osserva che “non c’è mai un eroe arabo che possa essere celebrato dai bambini”. Gli stereotipi etnici sono particolarmente dannosi in assenza di immagini positive; quando mai si mostrano personaggi arabi “come persone comuni, che praticano la legge, guidano taxi, cantano ninne nanne o curano gli ammalati”? Questo filtro arabofobico impedisce alla maggioranza degli occidentali di avvicinarsi alle complessità delle società arabe e anche alle dimensioni umane dei conflitti che tormentano molte di loro. Un tempo era l’antisemitismo la forma di razzismo prevalente nel mondo occidentale: ora potrebbe essere l’arabofobia? Con i pezzi dei Muri che cadono, se ne costruiscono degli altri.
Voi siete tutti musulmani
Click 1, italiani in giro per il mondo: raramente veniamo interrogati sulla nostra appartenenza religiosa. Nonostante “El Paìs” abbia coniato il termine “Vaticalia”, pare banale, all’estero, sentenziare “sei italiano, quindi cattolico?”. Pare interessino piuttosto le nostre idee politiche, specialmente ora che in Italia siamo sempre vicini ad un cambiamento -che non sopraggiunge, non ancora, non oggi. Click 2, italiani in Italia: durante il primissimo scambio di battute con qualcuno che proviene dal Maghreb o dal Medio Oriente, assumiamo la sua “musulmanità” come un dato di fatto. Se preparatissimi, osiamo proporre la scelta, “e sei sunnita o sciita?”
Ma, sorpresa, non tutti gli arabi in Italia sono musulmani: vi sono anche gli agnostici. Ne incontro tre, trentenni, e chiedo loro cosa ne pensano dell’associazione univoca “il mondo arabo-musulmano”. Sahar, del Libano, è ricercatrice dell’Università di Trieste, esperta in transizioni democratiche post-conflitto, sostiene che “Come ci innamoriamo, ci disinnamoriamo. Se non cambiassimo mai saremmo dei monumenti, non degli umani. Il sociologo tedesco Simmel diceva che la nostra identità è concentrica. Assumiamo molteplici ruoli a seconda dei contesti familiari, sociali, sportivi, politici, e anche religiosi. Come assumiamo questi ruoli, ce ne dissociamo. E infatti, nessuno “nasce” di una certa religione.
Piuttosto, ereditiamo la religione della nostra famiglia. In Italia ho visto che il battesimo di rado è una scelta consapevole, e similmente, nel mondo arabo, la religione dei genitori, tramandata al figlio, viene indicata sulla carta d’identità del nuovo cittadino. Siamo socializzati nell’infanzia ad identificarci con una certa religione, così come ad imparare una madrelingua. Sono dei primi strumenti, molto probabilmente non saranno gli unici né gli ultimi. Nel tragitto della vita ciascuno può scoprire fasi spirituali diverse. Per alcuni che mantengono una fede solida, ci sono altri nei quali vi è una sospensione della fede o forse un cambio di fede o una assenza di fede vissuta con serenità.
È un processo intimo, legato anche alla personale sensibilità intellettuale ed emotiva. Quando vedo intellettuali imprigionati nel nome della “sicurezza nazionale” in Egitto, o la sofferenza gorgogliare ogni giorno nelle gole di chi non conta nulla in Bahrein, non riesco ad accettare la logica del “iradet-allah”, ossia “è la volontà di Allah”, che secondo i cristiani sarebbe “sia fatta la volontà di Dio”. Pulire il mondo dall’autoritarismo e dall’ingiustizia dipende da noi, non da Dio. Per me è liberatorio fare ricerca sulle trasformazioni democratiche nel mondo arabo, abbiamo bisogno di attenzione politica: questa è la realtà. Mia madre mi dice che parlo così perché ora sono giovane, e non riconosco nel discorso religioso la mistica poetica dell’umiltà e dell’accettazione. Lei pronostica che nel tempo diventerò come mio nonno, che ascolta molto e parla sempre meno. Chi o sa”.
Hassan, iracheno, è ricercatore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, esperto in modelli federali. “Che uno si identifichi o meno con una appartenenza religiosa, secondo me occorre scommettere sulla cittadinanza civica. Se in Italia ti avvicini alla sfera pubblica e mediatica “in quanto musulmano”, ti inserisci da solo in una trappola. La destra populista, megafono in mano, indurirà i muscoli: “Tu sei musulmano e minoranza, noi siamo cristiani e maggioranza: e questo è un paese cristiano”.
Ed ecco che entrambi hanno alimentato la mai tramontata dicotomia “cristiani vs. musulmani”. Gettando legna sul fuoco della “Alterità” e della tensione interreligiosa. Per cui, dato che i diritti umani sono nati da una logica laica, nemmeno i musulmani possono prescindere da un discorso laico per affermare diritti sociali legittimi. Se da una parte si accusano i musulmani di “opporsi alla modernità”, da parte sua, la destra populista finge di presentare la modernità come identità. Ma non è così. La modernità è composta da regole laiche, è una forma di dignificare ogni essere umano al di là delle identità ascritte. Io penso che una improbabile lotta per imporre in Italia simboli culturali come i minareti o i niqab non faccia altro che riprodurre le frontiere identitarie. Voltaire diceva che il fanatismo è un mostro mille volte più pericoloso che l’ateismo filosofico. Infatti, il fondamentalismo musulmano alimenta il fondamentalismo cristiano. Sono nemici eppure hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere. Ed entrambi temono la modernità e i diritti di cittadinanza”.
Un ulteriore preconcetto che affiora dal discorso mediatico: i residenti arabi-necessariamente-musulmani-pensano-solo-alla-religione. Nessun’altra preoccupazione o interesse o passione agiterebbe i loro sogni. Uno studente palestinese di relazioni internazionali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Ahmed, racconta: “Vengo da una famiglia di comunisti. Poi il comunismo è scomparso come punto di riferimento delle rivendicazioni socioeconomiche in gran parte del Medio Oriente. In Italia è successa la stessa cosa. Sono alla ricerca di un linguaggio che unisca gli sfruttati per costruire una democrazia inclusiva. I miei amici arabi e italiani sono di casa nei centri interculturali e non ho mai visto la religione interferire con la coscienza politica.
Perché, per molte persone “anche” musulmane, molto prima di bisogni circa “l’identità religiosa”, ci sono richieste comuni a tutta la popolazione, “anche” immigrata. Per esempio, ridurre la discriminazione economica e sociale verso i lavoratori stranieri – tutti. Di più, che i lavoratori precari marcino insieme, italiani e stranieri. Che la meritocrazia dia migliori opportunità di lavoro a italiani e a stranieri. In effetti, le religioni possono approfondire il discorso dell’eguaglianza da un punto di vista etico e spirituale, ma le leggi vengono cambiate solo se la gente internalizza il fatto che i diritti umani non sono una concessione politica né una opinione soggettiva, né una questione burocratica. Piuttosto, punto di partenza di qualsiasi democrazia, pane di tutti”.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).