Le immense dighe che tagliano i fiumi generano metano 20 volte più velenoso del biossido di carbonio. Alberi bruciati per fare carbon fossile, per coltivare le palme dell’olio, per la soia che ingoia centinaia di chilometri di piante ogni anno. “Noi indigeni non vogliamo forum per indigeni: vogliamo partecipare ai forum mondiali sul clima perché siamo i primi a pagare l’inerzia della civiltà evolute”
Azzurra CARPO – Nell’Amazzonia senza pioggia: se il polmone del mondo diventa una camera a gas
01-08-2011Nata in un posto che non esiste piú
Pareva che il tempo fosse un lusso e un piacere, in Amazzonia, da gustare lentamente. Con un preciso galateo. In alcune culture, chiedere “come stai?” cosí, su due piedi, é segno di maleducazione. Troppo diretto, al limite del brutale. Il principio é il seguente: il “come stai tu” é conseguenza di come sta tutto ció che ti circonda. In primis, da quello che noi chiamiamo “ambiente”, ma che le culture indigene non collocano come dimensione separata. Quel pomeriggio mi trovavo sulla riva del fiume Callería, nella regione Ucayali, sulla frontiera amazzonica Perú-Brasile, a conversare con una signora indigena Shipibo né giovane, né vecchia, direbbe Grazia Deledda. Jesbe Guimaraes Tananta, si chiamava. Lavavamo i panni una accanto all’altra. Non ci si guardava mai negli occhi e scacciavamo le stesse zanzare che si posavano un po’ sulle mie braccia, un po’ sulle sue. “Come sono state le piogge, quest’anno, signora?”. “Forti, anche troppo. Mai successo cosí”. Lei aspettava serena le rituali ulteriori venti o trenta domande relative alla situazione dei raccolti, alle notizie sulle comunitá vicine, a se durante le inondazioni la pesca era risultata difficoltosa, a come stavano le galline, le papere, ecc. per poi passare allo stato di salute e all’umore di tutta la famiglia allargata, dai trisnonni alle pronipoti incinte. Alla fine, quando il tramonto ci accarezzava lo sguardo di viola e di arancio, potevo chiederle, sfinita, “come sta lei, Jesbe?”. “Bien, gracias a Diosito”; anche “Dio” veniva designato con un affettuoso diminutivo.
Le chiesi anche se fosse nata nella comunitá dove ci trovavamo, che portava, come quasi tutte, il nome di un santo. Furono i missionari cattolici a inventare queste comunitá indigene, allo scopo di evangelizzazione e l’immancabile “civilizzazione”. “No, sono di un’altra comunitá, San Fernando. Ma in Comune in cittá mi hanno detto che la mia carta d’identitá non puó essere accettata. Perché sono nata in un posto che non esiste piú”. Come dire, sono nata in Atlantide. E come mai San Fernando non c’é piú, signora? “Le piogge sono state rabbiose. Non come prima, quando erano forti, belle sane. Adesso sono in collera. Hanno fatto crescere il fiume, il fiume ha divorato la comunitá, lavando via le case e le palme, i raccolti, gli animali e la gente. E il “sandial” (il campo delle angurie) dove incontravo Rubén. Quando, da ragazzini, ci sognavamo di giorno e di notte, sufriendo de amor. E anche l’ufficio del capo della comunitá, dove si tiene l’anagrafe”.
Cambio climatico in lingue indigene
La signora il cui mondo era centrato sulla vita comunitaria, forse non aveva appreso dal Dipartimento di Fisica dell’Universitá di Oxford, che l’effetto globale di una variazione nelle precipitazioni é ancora piú importante di quello relativo alla temperatura. Poco male. Lo sapeva giá, che l’Amazzonia subisce sia la furia dei fiumi, che ora ingoia tutta la vita- come l’anaconda, sia il suo opposto: la desolante mancanza di nuvole che bagnino i raccolti. Lei avrebbe qualcosina da dire, per esempio, ai businnessmen del gruppo Romero, grandi deforestatori della foresta peruviana (3 mila ettari di boschi primari “ripuliti” per la monocoltivazione di olio di palma, nel solo distretto di Barranquita, regione San Martín). Ossia, che i popoli indigeni hanno sempre valorizzato la biodiversitá delle foreste, dei coltivi agricoli, dei paesaggi e degli miglioramenti genetici per proteggersi contro le catastrofi: ad esempio, nel caso di una piaga, se muore un coltivo, un altro puó salvarsi. E se si salvano “loro”, ci salviamo anche noi. Per “noi” si intende anche chi non ha un dollaro, ma vive dignitosamente di ció che semina. “Poveri sono quelli che dipendono dai soldi”, diceva Jesbe.
Ora o mai piú
Secondo Pedro Gamio, ex ministro dell’Energia del Perú e direttore regionale di GVEP Internacional per America Latina e i Caraibi, le riserve petrolifere mondiali potrebbero esaurirsi nei prossimi 45 anni. Per altre due generazioni, il prezzo del petrolio sará il pensiero fisso degli economisti che, deliranti, insistono su uno sviluppo globale basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili. A meno che le societá civili e le accademie mettano pressione sui politici. Questa rete della consapevolezza ecologica sta inglobando anche chi, fino a pochi decenni fa, era marginalizzato. Forse perché ora, il tempo gioca a svantaggio della foresta.
L’Amazzonia viene spogliata d’alberi da decenni per beneficiare le esplorazioni di gas e petrolio. Adesso, anche sterminati monocoltivi di biocombustibili, venduti come l’alternativa all’economia petrolifera. Come segnala Manuel Pulgar-Vidal, direttore della Societá Peruviana di Diritto Ambientale, occorre determinare le implicazioni economiche, energetiche, ambientali e sociali per la promozione dei biocombustibili. Il criterio commerciale non puó essere l’unico. Ció che per considerazioni di profitto é stato venduto come “fonte di energia pulita”, si rivela ora rimedio peggiori del problema. Ad esempio, secondo la giornalista di Comunicaciones Aliadas, Milagros Salazar, le mega-dighe in Amazzonia generano grandi quantitá di metano, un gas serra 20 volte piú contaminante del diossido di carbonio. Si costruisce, passo a passo, la fine dell’equilibrio idrobiologico per chi dell’Amazzonia vive, ossia, 20 milioni di abitanti di 7 paesi latinoamericani. Senza alberi, non piove. La diminuzione del 20% delle precipitazioni sta avendo luogo durante la stagione secca, potenziando la siccitá.
I figli di Jesbe: etnoecologisti al lato degli scienziati britannici
Santiago e Agustín Guimaraes Tananta, figli di Jesbe, residenti nella capitale peruviana, lavorano presso ONG ambientaliste. Sono riconosciuti esperti della connessione fra cambio climatico e globale e lo “sviluppo” legato agli ecocidi, in Amazzonia. Mi spiegano, durante un colloquio su Skype, da Lima: “Noi indigeni osserviamo i cambi. Sappiamo di climatologia, di variazioni nell’abbondanza e distribuzione delle piogge durante le varie stagioni. Ma anche delle interazioni fra piante e animali in rapporto al clima. Sappiamo anche adattarci. E sviluppiamo molte strategie diversificate per resistere: coltiviamo sempre diverse piccole piantagioni di sussistenza, che crescono all’ombra degli alberi, cosí la terra non si secca sotto il sole. Coltiviamo in zone diverse, per avere piú probabilitá di raccogliere i frutti. Alterniamo l’agricoltura di sussistenza con la caccia e la pesca. E per noi non é saggio cacciare e pescare tutto l’anno, come fa chi non ama la foresta. Nella nostra cultura, lo permettiamo solo dopo la stagione della riproduzione: e i cuccioli non si mangiano. Pratichiamo tradizionalmente il baratto di alimenti, che per noi é sacra reciprocitá. I soldi non sono mai reciproci. L’avete notato anche voi, adesso? ”. Annuisco con un sorriso triste, e chiedo loro quale sfida stanno affrontando al momento. “Noi indigeni non dobbiamo essere relegati ai “forum per indigeni”. Dobbiamo partecipare ai forum mondiali sul clima, perché siamo i primi a subire le conseguenze negative di questa inerzia suicida decisa da altri. Dobbiamo avere voce in capitolo sulle politiche di mitigazione. Collaboriamo in molte reti internazionali con scienziati occidentali che studiano il cambio climatico, specialmente con botanici e l’Environmental Change Institute dell’Universitá di Oxford: noi siamo “etnoecologisti”, con esperienza sul campo di generazioni e generazioni. Lo scambio di conoscenze ci potrebbe salvare tutti. Occorre peró unire la ricerca all’azione politica. Le alluvioni e le siccitá colpiranno prima o poi tutti, anche quelli che le “spengono” dalla propria televisione, e quelli che credono ancora che Dio ha qualche popolo eletto, che si salverá.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).