Il prinmo incontro di qualche anno fa. Molto prima del pancione, prima di diventare la madre che canta per il suo bambino. Gianna Nannini sembrava diversa dalla “la mia vita è come un rock”. Non somigliava agli idoli dannati ai quali rivolgere domande tipo: “Come hai fatto a smettere con la coca?” Aveva un’altra storia. E con buona pace del libro dichiarazione d’amore di Barbara Alberti, restava lontana dall’immagine dei rotocalchi: “Una voce di carta vetrata, gonfia di forza e tenerezza…”
La voce di carta vetrata si accarezza i piedi dentro una poltrona. Sorride alla ragazza che la accompagna nella poltrona accanto. E racconta la storia di una adolescente che scappa. Dalla sua città, Siena. Dalla famiglia, famosi pasticcieri Nannini (panforti, ricciarelli). “Ho cominciato ad andar via quand’ero bambina. Avevo cinque anni. Abitavamo a Siena; un appartamento a San Prospero. Camminavo mezzo chilometro per comprare le figurine. Alla fine, soddisfatta: ce l’avevo fatta”.
E a casa… “A casa non se ne fregava nessuno. Tutti in pasticceria. Sono nata con la crema addosso, cresciuta in un profumo di burro e zabaglione. Non andavo ancora a scuola e mi hanno messa al lavoro, in piedi, sulla scaletta, grembiule bianco. Mettevo strisce di pasta sulle crostate. Zig, zag; mi piaceva”. Riassumo qualche capitolo di una fuga che il tempo ha reso meno precipitosa: a scuola, fuori dal coro. Niente Fratelli d’Italia, troppo stonata. Di fratelli ne ha due: Guido e Alessandro. Non si consumano sui libri. Il padre li manda in collegio; perfino in Svizzera.
“A papà la Svizzera è sempre piaciuta: i fiori alle finestre, ordine e tutti che lavorano. Era fissato con lo studio delle lingue. Lui laureato in economia, lui guardava lontano. Voleva programmare i figli come macchine per l’azienda. Ed è rimasto solo, una punizione cercata. Ci ha parlato troppo di paste. Alessandro correva e commercia in caffè; Guido si è messo con le macchine. Io sono qua. Povero Nannini, perché nell’azienda o sei sempre li, o vai in malora. Lui ci deve stare, non è come quando alla Fiat c’erano gli Agnelli con centomila operai. Pensare che ha tirato come un matto: dai negozi alla fabbrica. Ma il culo, diciamo la verità, se l’erano fatto i nonni… Sento ancora l’odore della nonna. La nonna della Maremma. In fondo ho sempre cantato per lei. Un odore che ritrovo nei posti dove è passata. Profumo di vecchi vestiti, forse il respiro della pelle di una donna bella, alta, grossa; forse il legno dei suoi mobili che diventavano miei nei mesi di vacanza al mare”.
Al mare si stava bene perché la vacanza è vacanza, e i nonni e gli zii con sangue maremmano le sembravano un pòmatti. Una zia andava a caccia come un uomo e la portava a cantare di nascosto al Salone Margherita di Viareggio “quando il Nannini non voleva”. E i cugini, uno sull’altro, nei letti a castello. Ricordi meravigliosi: “Perché dagli zii si andava a tavola tutti assieme. Nei giorni normali i Nanni non erano proprio una famiglia: Guido in Svizzera, Alessandro in collegio a Siena fino a sera. Tornava e usciva in motorino. Ognuno mangiava per i cazzi suoi. Ma nella casa accanto c’erano i contadini e c’era Lucia, l’amica d’infanzia. Ero sempre li’a mangiare. La cosa che mi colpiva è che tutti i giorni, proprio tutti, si trovavano attorno alla tovaglia a masticare assieme. Tutti pescavano dalla stessa ciotola. Che bello sentirsi a casa così. Come dalla nonna…”
Figurarsi se la famiglia Nannini non si raccoglieva intorno alla stessa tovaglia…” Succedeva quando c’era gente. E di gente ce n’era spesso. Due volte la settimana arrivava l’Anconetani da Pisa. Romeo, il presidente della squadra di pallone. Lui e il Nannini, presidente del Siena, non smettevano di parlare: di calcio, di calcio e di calcio. Discorsi fra padroni di squadre. Due palle… E c’erano le feste, e per le feste si stava insieme, magari coi parenti. E si discuteva delle paste. Delle paste non vendute, per esempio.
“Ma guarda la disgrazia: adesso bisogna macinarle per fare la diplomatica” (riaffiora il lessico della pasticceria: la diplomatica è una torta). Oppure tutti contenti: “Hai visto che alle 11 le vetrine erano vuote?”. Discorsi da scappare”. E la mamma? “Non è che si capisce che io ce l’ho con i miei, vero? I miei li amo. Solo che non dovevo arrendermi ai progetti del Nannini o a chi mi diceva: stai buona e torna a casa. Avevo paura di finire risucchiata dal loro affetto mai più libera di diventare come volevo. Terribile avere attorno sempre la stessa gente che soffoca le cose che hai dentro. Cerca di castrarti. Ti frega e sono scappata per non farmi fregare. Non mi si deve fraintendere: a mio padre e a mia madre voglio bene davvero. Adesso che parlo di loro sento un bisogno fisico di vederli. Stanno invecchiando, fanno tenerezza. Ma quando sono arrivata a Milano piuttosto che tornare a Siena sarei andata a far soldi sul marciapiede. Ero sicura di farcela. Volevo cantare”.
E sua madre… “Mia madre mi voleva signorina di buona famiglia. Comprava tailleurini e certi ricami dalle Cirri di Firenze… Una volta, mi ha regalato la minigonna con calzamaglia sotto. Avevo 14 anni, mi aspettavano a una festa. Torno a casa e il babbo vede la minigonna e s’incazza. Due schiaffi alla mamma; piglia le forbici e fa a striscioline la sottana. Allora mi sono messa a giurare: da oggi per sempre i pantaloni”. Però, le hanno permesso di studiare musica: prima solfeggio a Siena, poi conservatorio a Lucca… “Era d’accordo anche il Nannini. A un patto: niente canzonette: Beethoven e basta. E la mamma invitava le amiche per il tè.
“La bambina vi farà sentire qualcosa”. Suonavo per loro. Su quei pomeriggi ci ho scritto su una canzone ( e la comincia a cantare): “Bimba bionda che scende lentamente le scale e la madre che invoca ‘vieni, vieni c’è gente’. Manichini che siedono già comodi: con le mani dietro recito a memoria… Come un angelo! (coro). Diventa rock” . Sempre in pantaloni, sempre contro il Nannini…
“Finito il liceo mi iscrivo a filosofia. Continuo a rimandare ma penso di laurearmi; in ritardo, è vero: nel frattempo ho fatto anche dieci LP… Torniamo alla filosofia: mi affascinava la mentalità complicata dei metafisici tedeschi. Insomma, all’università andavo forte; anche se restava il complesso di essere ricca e mi vergognavo. Frequentavo Lotta Continua, quindi Radio Siena. Un amico che si chiama Gianni mi odiava perché ero figlia del Nannini. Faceva i picchetti davanti alle pasticcerie gridando ‘Le paste del Nannini uccidono i bambini. Il babbo s’incazzava, lui vecchio tipo patriarcale seduto sul suo vecchio mondo dove la donna non conta niente. Discutevamo delle donne che in fabbrica erano pagate meno. Prendevano 2.400 lire all’ora; gli uomini 4.500. Mi arrabbiavo: ‘Non è giusto’. Rispondeva: ‘Ma poi restano incinte…'”
Perché ha fatto l’operaia? “Volevo lavorare dal Sapori per guadagnarmi i soldi e scappare in America. L’America voleva dire libertà, un sogno. Si sogna sempre quando le cose non vanno bene. Quante volte ho sentito dire che l’America risolve un sacco di problemi. Uno scappa e fa la febbre dell’oro. Non potendo scappare volevo andare dal Sapori per far dispetto al Nannini, ma mi sono arresa alla fabbrica di famiglia per mostrargli quanto ero brava. Studiavo e lavoravo. Operaia a duemila e 400 lire l’ora. Avrà pur capito che sua figlia guadagnava poco. Eravamo in tre ed era appena arrivata la macchina per i ricciarelli. Non funzionava bene: le guide erano senza protezione e le teglie si ammucchiavano una sull’altra. Nel tirarle via ho sbagliato e l’ingranaggio, specie di catena da bicicletta, mi ha strappato le falangi. Dolore indescrivibile. Sono caduta. Mi hanno portata all’ospedale. Poi è arrivato il Nannini bianco come un morto, di corsa, da Viareggio. Era successo proprio alla figlia che non era assicurata. Mi hanno dato due milioni come infortunio di famiglia. Li ho messi in banca per scappare a Milano. Un mese dopo, via, ancora minorenne: agosto ’75”.
Come si fa a scappare? “Un giorno si decide: domani parto. Si lascia una lettera: vi ringrazio perché mi avete messa al mondo, ma questa vita è insopportabile, non la posso fare… Credo che il babbo ce l’abbia ancora nel cassetto. Tiene tutto, non butta via niente”. Neanche una telefonata? “Non volevo far sapere dov’ero. Non volevo mi riprendessero. Per dare notizie parlavo con la nonna. Che si preoccupava. A casa pensavano fossi scappata per fare la troia. La nonna raccomandava: ‘Piccinina, tienila da conto’. Ha capito di cosa parlava, vero? Invece Milano è stata la libertà. Sono arrivata con una valigia, dentro quasi niente. Estate, la città sembrava una piazza vuota. Ho preso albergo dove alla sera andavano le puttane, attorno a via Vittorio Emanuele. Costava poco. Poi ho trovato una stanza con due ragazze. L’anno prima ero venuta a trovare Gianni Mescoli per cantare davanti a quelli della Ariston. Il Nannini mi aveva mandato dietro la Lory, una che lavorava nel negozio. Che noia portarmi questo straccio, però con lei facevo tutto. A quelli dell’Ariston sono piaciuta, ma a me non sono piaciuti loro. Dicevano: bisogna tirar su i capelli, ci vogliono vestiti lunghi… Insomma, basta. Così mi sposto al Numero Uno, la casa di Battisti che faceva sognare. Insomma, lì conoscevo qualcuno e nella Milano della clandestinità mi sono rifatta viva. Comincio le serate all’Operetta, canto nei locali alternativi di Porta Ticinese. Subito il contratto della Ricordi. Ma un giorno mi chiamano e mostrano una lettera: il Nannini. Scriveva: ìPer favore, non voglio che mia figlia usi il nostro cognome. Non mi piacciono questi gruppi rock che fanno tardi di notte’. Pazienza, ho pensato: mi chiamerò Gianna”.
Invece si ribella. Sul primo disco c’è scritto Nannini. Si sente libera di tirar mattina. Sgobba e guadagna, compra una macchina e l’appartamento. Resta la bohème. Anni con qualche scivolata. “Ma dopo il buio è tornata la luce”. Ormai gira le piazze. Diventa “la voce etrusca” dei festival dell’Unità attorno a Siena. “I miei continuavano a incazzarsi. Eppure una volta papà è venuto a vedermi di nascosto: c’erano 40 mila persone. Me l’ha confessato dopo. Travestito da Lotta Continua, giubbotto, berretto, per non farsi riconoscere. Te l’immagini se scoprivano che il dottor Nannini era finito in mezzo agli scalmanati in delirio per la figlia…”
Quando vi siete rivisti? “Due anni dopo. Prima al telefono. Veniva a Milano, naturalmente al Gallia, per via dei calciatori. Ormai ce l’avevo fatta. Non avevo paura che mi riportasse indietro. Non con la forza; con la testa. Siamo andati a mangiare alle Colline Pistoiesi, sempre storie di pallone: il Bobo Gori dell’Inter. Abbiamo parlato alla pari. Ormai non dipendevo più dalla famiglia e ho capito che malgrado tutto con mio padre resisteva una certa complicità”.
L’America? “Due viaggi, un disco: California. Non proprio delusa però amo Berlino. Non solo perché è stato il primo successo fuori Italia: a Berlino la vita non finisce mai. Pensare che da piccola volevo scappare in America e per vivere m’ero ricopiata le ricette del Nannini. Spionaggio industriale. Pensavo: vado a New York e faccio le paste”. Non ha mai scritto una canzone che si intitola “paste”? Ride: “No, troppo dolce”.
(È il primo incontro, anni Novanta. Nella vita della Nannini sono cambiate tante cose. Alessandro non corre più: ha perso le gambe in una pista di Formula Uno. Il padre, la madre, le nonne, le zie sparite nel silenzio che tutti aspetta. Adesso il bambino…)