Paura, ha sempre avuto paura: di una morte drammatica o del silenzio. L’angoscia l’ha resa taciturna; chiusa verso gli altri. Se n’è liberata e i sogni sono cambiati. Prima immaginava di “morire per gli aerei che inseguono la gente come falchi. Talmente bassi che le ali sfiorano i capelli e la mitraglia scoppia vicino”. In Bagheria, un libro lontano, Dacia Maraini ricorda come ha imparato nel Giappone di guerra, a distinguere il sibilo delle bombe buone dal sibilo delle bombe cattive. Erano gli americani a buttarle giù attorno al “suo” campo di concentramento. “Ma dalle bombe riuscivamo a difendercI, dai guardiani no. Obbligavano mio padre e gli altri prigionieri italiani, a scavare rifugi nel giardino. Una pena. Uomini sfiniti dalla fame che rivoltavano la terra giorno e notte. Ma era un buon nascondiglio, mi sentivo protetta. E poi c’erano le sirene ad annunciare i bombardieri che stavano per arrivare”. I terremoti non li annunciava nessuno: lampi improvvisi. “Una parete comincia a cadermi addosso. E mia madre prende al volo Toni, la sorella piccola: una scossa l’aveva spinta fuori dalla finestra. Ancora adesso se nell’aria passa qualcosa di strano, alzo gli occhi e guardo il lampadario. Paura che si muova, paura che non è andata via”. Il terzo fantasma dell’infanzia è la fame. Gli occhi della Maraini ridono con tenerezza della bambina che sta raccontando: Dacia, sbarcata in Sicilia quando la guerra finisce. “Per anni ho nascosto il pane, come i cani. In fondo ai cassetti seppellivo zollette di zucchero che ritrovavo coperte di formiche. E po bocconi di marzapane avvolti nei giornali con l’idea di andarli a prendere quando non c’era niente da mangiare”. Spiega come il padre e la madre, cosi’giovani da sembrare ragazzi, cercassero di imbrogliare il digiuno ricordando i piaceri perduti dietro i reticolati del lager giapponese. Parlavano di cibo dal mattino alla sera: “E la pasta alle melanzane che si mangiava a Palermo? fettine nere, lucide, sommerse da pomodoro dolce…”. La dieta era la dieta di ogni prigione. Una scodella di riso, ogni tanto una rapa. “Mi ritrovavo talmente denutrita che i tessuti avevano perso elasticita . Se premevo forte su gambe o braccia, si aprivano ferite. Quattordici prigionieri chiusi in una casa circondata da filo spinato. Odio ancora la crudeltà dei guardiani. Mangiavano arance e facevano cadere le bucce davanti ai nostri occhi. Le seppellivano per evitare che frugassimo fra gli avanzi del loro pranzo. Eravamo in quattordici, anche un prete: quattordici italiani che non volevano obbedire alla Repubblica di Salò. Mia madre, la sola donna, e poi tre bambine. Raccontava per anni come gli uomini affamati guardassero Toni, pallida e paffuta, con ossessione cannibalesca. Di notte sentivo la borbottare. Riferiva al papà degli sguardi degli altri prigionieri. E papà la calmava, ridendo piano. ‘Come finirà?’. ‘Speriamo che i nostri padroni perdano.Ma in fretta altrimenti le bambine non ce la fanno’. Ogni tanto chiedevano ai prigionieri se fossero disposti a giurare fedelta’al Patto d’Acciaio: Roma-Berlino-Tokyo. Rispondevano che non erano disposti. E per punire l’insolenza ci lasciavano a pane e acqua. Una volta sembrava davvero finita, allora mio padre si è inventato qualcosa. Ha chiesto di disinfettare il filo di un’accetta che serviva a riordinare il giardino. Ed ha affrontato i carcerieri. Sotto i loro occhi si è amputato due falangi del mignolo sinistro. La mamma gridava, papà ordinava di tacere. Aveva compiuto un yubi kiri, gesto rituale col quale la persona che vuol dimostrare di essere vittima di un torto ma non è in grado di difendersi, coinvolge nella colpa gli oppressori. Uno dei guardiani è svenuto. Un altro, capito il gioco, si è arrabiato ed ha preso a calci il prigioniero che sanguinava. Ma il capo conosceva la regola che la tradizione impone: sapeva di doverci qualcosa. Ha chiamato il medico. Ha fatto sapere che la punizione era stata rinviata ed ecco le parole magiche . Topazia, mia madre, avrebbe avuto una capra: il latte per le bambine”… Come è arrivata in Giappone? “La storia è lunga”. E la storia di Fosco Maraini, figlio di uno scultore presidente della Biennale di Venezia. Se il padre era fascista, Fosco non lo eera . Nella casa di Fiesole dove Dacia è appena nata, ogni venerdì pomeriggio riceve amici sgraditi al regime. Specialmente tre giovani fisici, collaboratori di Fermi. Le lettere degli sposi ragazzi, fuori regola per Mussolini, vengono aperte dalle dita di qualche polizia segreta. Sentono d’essere spiati. “Un giorno il padre allunga a Fosco qualcosa. Un regalo: la tessera del partito fascista. Fosco la strappa e rompe con la famiglia. Per fortuna vince la borsa di studio di antropologia di una università giapponese. Si imbarcano nel ’38. Appena arrivati nasce l’altra bambina: Yuki, vuol dire neve. “A Sapporo c’era tanta neve da costringerci ad uscire dalla finestra…” . Ricordo fedele o riflesso che l’infanzia ingigantisce? “Nevicate cosi’non ne ho viste più. E poi la slitta e papà che correva sugli sci. Facevamo il bagno tutti assieme, c’era anche Tata Marioka, la governante. Quando ci hanno trascinate nel campo di concentramento, Marioka è venuta a trovarci. L’hanno bastonata, ma lei insisteva: voleva vederci. L’ho ritrovata tanti anni fa. Dirigeva un ostello per la gioventù. Dopo la guerra, nell’austerità del collegio delle Poggioline di Firenze, scandalizzavo le insegnanti col racconto della vita in Giappone. Tre bambine e i genitori immersi nella stessa vasca! Ci proibivano di parlare perfino di soldi e di piedi. Figuriamoci il racconto delle nudità”. . Com’è cominciata la prigionia? “Dopo l’8 settembre ’43, un mattino ci siamo svegliati con la polizia che circondava la casa. Dovevamo decidere se aderire alla repubb lica di Salò.. Mamma raccontava: “Ci hanno dato mezz’ora di tempo” ma assieme a papà ha subito risposto: “Non ci stiamo”. Allora prigionieri in casa per sette giorni. E lei intristiva. Per consolarla andavo a raccogliere l’erba cedrina: ne adorava il profumo. Ne ho sempre un vaso sulla terrazza. Perchè i profumi sono parte importante della mia vita. Guardo qualcosa e penso: sa di cioccolata, di gelsomino, di caffè . Se papà tornava da fughe interminabili, annusavo le sue tasche: tabacco o magari i profumi delle donne che si innamoravano di lui. E una storia ripetuta: fino a una certa età ne sono stata innamorata. Non mi trattava come una bambina, ero un compagno di barca, di gite in montagna. Tornavo disfatta, gonfia di sole, febbre alta. Mamma si arrabbiava: ‘Non puoi…’, e io la odiavo per l’intrusione, ma col passare del tempo ho capito. Quando papà se n’è andato senza tornare, mamma è rimasta. Lei doveva, lei faceva. I suoi odori erano gli odori banali di casa, minestre e letti disfatti. Ma era attorno a lei che cresceva la famiglia, in poverta’. Siamo sempre stati sognatori affamati”. Il primo campo della prigionia giapponese si chiamava Nagoja, non lontano da Hiroshima. Poi la casa è crollata: un po’ il terremoto, un po’ le bombe. Vi hanno portate via… “Il nuovo posto era Tempoku, un tempio. C’erano due bonzi: il bonzo giovane aveva delle figlie. Ho ritrovato Keiko, la mia compagna di giochi. A Tempoku eravamo quasi liberi. C’era un giardino e Keiko mi insegnava a a scivolare sotto la rete: scappavo nei campi. Andavo ad aiutare i contadini a raccogliere pomodori o patate. E mi pagavano con pomodori e patate. Le cuocevamo di nascosto. Le dividevamo in quattordici parti con solennita’. Ma negli ultimi mesi di guerra la fame era per tutti. Frugavo la terra per trovare le formiche: Keiko le mangiava, le mangiavo anch’io. Gli uomini catturavano piccoli serpenti. “Un mattino del ‘45 i guardiani sono spariti. Liberi, dunque, ma bisognava che gli americani ci trovassero. Con gli stracci abbiamo messo assieme una bandiera tricolore da stendere sulle pietre della collina. E un ricognitore finalmente si è abbassato. Il giorno dopo hanno paracadutato pacchi con dentro le cose sognate negli anni duri. Si spaccavano, cadendo, e noi a raccogliere, fra i sassi, latte in polvere, zucchero in piccole scatole marroni, tanta cioccolata. Bisognava mangiarne poco: il nostro stomaco non sopportava quel ben di Dio…”. Poi Dacia e le sue sorelle vanno a Nagoya, poi a Tokyo. Il padre fa l’interprete, la madre l’ esperta dell’ufficio americano che compra opere d’arte. Anche i giapponesi hanno fame e vendono giade, lacche, avori. Nel ’47 tornano a casa. Sulla nave Dacia scopre il gelato. Attraversano il canale di Panama, attraccano a Le Havre. Quando arriva a Firenze corre nel bellissimo giardino del nonno, ma il nonno non le piace: “Sei brutta. Occhi gonfi: tua nonna era bella…”. Tacevo, anche perchè cosa potevo rispondere nel mio italiano di poche parole? Parlavo giapponese e inglese. Purtroppo il giapponese non lo ricordo più”. L’arrivo a Bagheria è fantastico. Il nonno materno, Enrico Alliata, duca di Salaparuta, era stato discepolo di Steiner fondatore dell’antroposofia. Per assorbirne l’insegnamento aveva vissuto in Svizzera. Ma sapeva far bene anche il vino. E tra gli inventori del Corvo, appunto, di Salaparuta. La nonna le sembra strana. “Entrava in scena come una cantante. Eternamente vestita per una recita che le era negata. Figlia dell’ambasciatore cileno a Parigi, aveva studiato da soprano alla Scala, ma il matrimonio col duca le aveva impedito di calpestare le scene. Non per il nonno, lui l’avrebbe lasciata fare. Ma quello che allora si chiamava “il nostro ambiente” non lo permetteva. Le era rimasta una insoddisfazione che nè le figlie, nè la famiglia avevano placato. Parlava italiano come se fosse sbarcata in Sicilia qualche mese prima. Guai contrariarla. Si rotolava a terra sconvolta da crisi famose. Forse la nonna merita un libro…”. Da Bagheria a Palermo e poi Roma: diventa la storia di una normale giovinezza con il piacere del racconto. Scrive il primo libro, “La vacanza” e Roberto Lerici, l’editore, le dice: mi piace, glielo pubblico se mi porta una prefazione di Alberto Moravia. Dacia va da Moravia. Quattro parole, come succede tra uno scrittore famoso e la ragazza che comincia. Qualche giorno dopo suona il telefono. “Dacia, è Moravia”, grida il marito dal corridoio. Il marito è Lucio Pozzi, fa il pittore. Quando si è sposata, la suocera, Ida Borletti, ha organizzato una festa medioevale nella villa del Garda. Ma i giorni belli sono ormai finiti: stanno per lasciarsi. La Maraini si emoziona mentre Moravia le parla: “L’ho letto. E bello. Ancora ingenuo ma con dentro una forza”. Amore e scrittura cominciano così.
[Fosco Maraini, grande orientalista, è morto qualche anno fa. La seconda moglie era giapponese. Topazia, madre di Dacia, vive a Roma: ha quasi 100 anni. Moravia e la Maraini si sono lasciati dopo una straordinaria convivenza. Dacia non smette di scrivere. Romanzi che affascinano migliaia di lettori. Ha vinto Strega, Campiello e tanti premi che non l’hanno distratta dall’impegno sociale, l’altra vocazione dopo la letteratura forse ispirata dalla madre che ha accompagnato la “rivoluzione” siciliana di Danilo Dolci]