Anche se dal 2006 il Vecchio Continente é pattugliato dall’agenzia europea anti-immigrazione Frontex, che esternalizza i controlli nelle acque territoriali dei paesi di transito (specialmente Libia, oltre che Turchia, Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Mauritania e Senegal), nulla pare fermare i flussi migratori dall’Africa. Perció, la difesa piú effettiva della Fortezza Europa continua ad essere la rimozione mediatica e politica del tema. Piuttosto che avvicinarsi alle cause degli esodi di massa (guerre – tra l’altro- alle quali partecipano paesi europei, carestie, dittature), le leggi migratorie vengono affilate con disumanitá. L’Italia fa la sua parte, fischiettando sopra il fenomeno: secondo NagaOnlus, dal giugno 2011, piú di 50 mila cittadini stranieri sono sbarcati a Lampedusa (ma fanno piú notizia le 50mila “bambine” del premier). Tredicimila migranti sono stati rimpatriati. Viene ignorato anche quanto succede ogni giorno con i rifugiati accolti temporaneamente in vari punti della penisola – 21.192 quest’anno- spesso in strutture non idonee e in condizioni di isolamento effettivo: senza poter lavorare né essere informati su quanto dovranno aspettare ancora. Nel documentario “Sogni” (http://www.youtube.com/nagaonlus), co-prodotto da NagaOnlus e da Milano Film Festival 2011, i rifugiati condividono con noi i loro sogni: da quelli avuti durante il viaggio in mare, a quelli avuti nella prima notte a Lampedusa, a quelli della notte precedente nella struttura di accoglienza. E dove sognano di essere “domani”. Per i profughi scampati alla morte, la terra non è ferma ma inferma: in qualche caso vengono tenuti isolati per essere rimpatriati, appena finirá la guerra in Libia
Ecco che, pochi giorni fa, il film “Terraferma”, di Emanuele Crialese, ha vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia. “Il fatto” é l’attuale legge italiana, che prevede la criminalizzazione del soccorso in mare, attraverso l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a chiunque soccorra naufraghi africani, traendoli in salvo in porti italiani. Narra l’incontro – travolgente e inatteso – fra una famiglia locale di Lampedusa e una famiglia di profughi, e della sfida etica alla legge italiana sull’immigrazione clandestina.
Un riconoscimento importante perché ambientato nella drammatica attualitá politica internazionale di guerra “visibile” nel Mediterraneo libico, e di guerre dimenticate del Corno d’Africa, da dove provengono gran parte dei profughi. Secondo il Corriere della Sera (30 agosto 2008), il trattato di amicizia, partnerariato e cooperazione fra il governo Berlusconi e il governo Gheddafi stabiliva che, in cambio di progetti infrastrutturali per 5 miliardi di dollari italiani in 20 anni versati alla famiglia del Colonnello, i migranti irregolari dovessero sparire dalle coste italiane. E di questo si incaricó Gheddafi, attraverso i noti campi di detenzione libici, due dei quali (a Kufrah e a Gharayan), finanziati dal governo Berlusconi. HumanRights Watch denuncia da anni le torture e ricatti economici delle guardie sulla pelle dei migranti. Per non parlare delle autentiche stragi di migranti, come quella del 2000 a Zawiyah, nel nord-ovest del paese, dove 560 di loro vennero uccisi nel corso di sommosse razziste (26 ottobre 2000, The Baltimore Sun). Anche il governo Prodi, nel 2007, avvió pattugliamenti italo-libici in acque libiche con l’obiettivo di respingere verso i porti di partenza i migranti intercettati in mare. Amnesty International ha protestato contro la decisione italiana di respingere in Libia anche potenziali rifugiati politici: al di lá di questo respingimento, non viene chiarito cosa debba accadere a queste persone, migranti e rifugiati. E la Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
Terraferma: una metafora del “fatto”
La locandina del film parla dello stesso Mediterraneo, dove i nostri fanno i tuffi dai panfili, mentre altri vengono scaricati da barcacce di trafficanti di esseri umani. Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), segnala che un migrante irregolare su cinque vi perde la vita: “da metá marzo, da quando sono cominciati i combattimenti in Libia, sono almeno 1.500 persone i dispersi”. Lampedusa: “uno scoglio in mezzo al mare”, una minuscola isola al sud della Sicilia, “terraferma” per i barconi di profughi che la cercano con gli occhi accecati dal sole impietoso del naufragio imminente. In quest’isola é ambientato il lirico film di Emanuele Crialese. Un doppio tempo si snoda lungo la narrazione: quello di una breve e intensa convivenza fra una famiglia locale e una famiglia di profughi, e il tempo di fondo, corrispondente alla maturazione del protagonista, un ventenne impacciato. Per lui il “diventare uomo” sará affrontare senza paura sia l’erotismo, sia la vita e la morte nel mare.
Crialese regala riprese di lungo respiro sulla superficie argentata del mare, per poi indugiare all’interno delle sue perturbanti profonditá. Qui, un senso di pace onirica si alterna all’angoscia del silenzio. Il mare tace sull’agonia e sulla morte. Solo, le raccoglie, le mostra a chi vuole vederle, a chi scava dentro l’azzurro. Reti che intrappolano pesci, resti di indumenti di naufraghi, piccoli oggetti che sapevano di storie umane. Il mare é vita, cosí come é tomba. In esso riposano in pace i nostri cari assieme a migliaia di vittime sconosciute. Il messaggio ci arriva in modo raccolto, elegante nella sua essenzialitá.
La legge del mare contro la legge della “terraferma”
Il mare conferisce ai protagonisti uno scenario di rischio e di riscatto. Per Ernesto (bravissimo Mimmo Cuticchio), nonno del protagonista, rappresenta l’identitá di uomo, di padre di famiglia, e di isolano “indipendente” dall’economia italiana. Commuove la gratitudine espressa al mare da parte dell’assemblea dei pescatori, richiama quella che gli indigeni amazzonici sentono verso la foresta. Ernesto difende la dignitá di un mezzo di sostentamento, la pesca, rispetto all’abbandonare l’isola per una vaga “terraferma” di benessere economico o anche all’alienazione di noleggiarla ai turisti. Non vuole “rottamare” barche né sue componenti per soldi: vuole salvare la memoria. Ma ancora piú fortemente, difende il codice etico del mare, il dogma dell’uguaglianza: solo la solidarietá umana, anonima e verso ignoti, pertanto universale, puó sfidare il pericolo delle acque. Questo vale per tutti, senza distinzioni di nazionalitá. La legge del mare é ai suoi occhi piú giusta della legge della “terraferma”. Ernesto cura il suo lutto per il figlio pescatore inghiottito dal mare, non tollerando altri morti. In questo modo, porta avanti il conflitto morale del film, nel quale Lampedusa si spoglia della nazionalitá: non é piú “italiana”, é un’isola di esseri umani, dove le “nostre regole”, si possono e si devono opporre “alle loro”. Se una legge non é giusta, ad essa non é dovuta obbedienza. Ernesto é la saggezza parca dell’esperienza e dell’etá anziana. Si sa succube della legge, pertanto non polemizza oltremodo con l’autoritá; ma si sa anche padrone delle sue scelte, e da´ l’esempio alla sua famiglia.
Il nipote, Filippo (Filippo Pucillo) eredita il mestiere di famiglia in tempi di migrazioni di massa e di leggi nazionali di respingimento coatto dei migranti irregolari. In assenza della figura del padre pescatore, cerca la propria identitá fra l’influenza del nonno, che colloca l’indipendenza morale al di sopra della sottomissione burocratica, e l’influenza dello zio, interpretato da Nino (Giuseppe Fiorello), un personaggio cinico che vuole credere e far credere che Lampedusa sia “solo” un paradiso per turisti (tuffi spensierati al suon di “Maracaibo”), servendosi dei carabinieri per “ripulire” le spiagge dagli intrusi moribondi che arrivano dal mare. Filippo é confuso e lacerato, “Ma é vero che salvare gente in mezzo al mare é proibito?”. La sua personalitá alterna ingenuitá e vulnerabilitá ad un coraggio rabbioso per salvare la propria coscienza.
Donatella Finocchiaro interpreta la madre, Giulietta, giovane vedova consunta per l’amore perduto, smarrita nell’isola che crede sia ormai solo scenario di felicitá rammentata. Vorrebbe abbandonarla, e fare in modo che il figlio rinunci al mare: vuole un’altra “terraferma”, dove iniziare una nuova vita. Invece proprio degli sconosciuti che arrivano dal mare le faranno rivivere un istinto di umanitá che avrá la meglio sui suoi programmi e sulle sue paure. La fotografia nella “casa” comune alle due famiglie é chiaroscuro caravaggiesco di una nuova grotta di Betlemme. Il contatto fra le due protagoniste donne é probabilmente la trasformazione reciproca piú toccante e corporea del film.
Nel film “la legge”, é un’astrazione invisibile, isterilito dal protocollo dei carabinieri (armati di mascherine e guanti monouso), nell’identificazione dei cadaveri e dei sopravvissuti. “La legge” viene contrastata dalla fisicitá del soccorso. Un abbraccio naturale da chi é sulla “terraferma” della salvezza verso chi puó essere solo miracolato. Questa fisicitá é di spirito e di corpo: diventa protezione, complicitá di destini, conoscenza del percorso dell’Altro. Quindi, affetto senza pregiudizi, nascosto alla societá, nascosto alle forze dell’ordine. Come fosse “illegale”. Disarmante gratitudine che tutti i personaggi finiscono per sentire verso gli Altri, perché li hanno resi piú umani. In un tempo di “crisi” soprattutto morale, in cui essere solidali richiede coraggio.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).