Forse i Maya non si sono sbagliati di tanto. La fine del mondo non avverrà nel 2012, come hanno predetto gli aruspici centroamericani, ma la fine del Bel Paese non è poi così lontana. Un Paese che non investe nei e per i giovani, che taglia le spese per l’istruzione, la cultura e la ricerca non ha vita lunga. Ma non solo.
Se spostiamo l’età pensionabile da 60 a 67 anni precludiamo l’inserimento nel mondo del lavoro a migliaia, decine di migliaia di ragazzi e ragazze che dovranno aspettare altri sette anni in più per trovare un’occupazione. Perché il loro eventuale posto è occupato da dei signori di mezza età che, per un’insensata visione del mondo “a breve termine”, devono ora lavorare – e sicuramente controvoglia – un bel po’ di più.
Tenuto conto poi che un sessantenne guadagna, giocoforza, almeno il doppio di un primo impiego giovanile, i posti di lavoro che saltano saranno almeno due per ogni anno lavorato dall’arzillo signore al quale non è permesso andare in pensione.
Non solo, ma passando dal sistema retributivo a quello contributivo i giovani, che incominceranno a lavorare non prima dei trent’anni – stando nel frattempo sulla gobba dei loro genitori e/o nonni che percepiscono nel frattempo uno stipendio o una pensione e quindi, automaticamente saranno costretti ad abbassare i consumi –, andranno “a riposo” con una pensione ridicola che li obbligherà a consumare sempre meno.
Se ho meno soldi consumo meno, vado meno in pizzeria o al ristorante, passo le ferie dai parenti, non compro casa, non compro l’automobile, per cui, tendenzialmente, faccio chiudere ristoranti e pizzerie, alberghi e pensioni, imprese edili, produttori e rivenditori di auto. E via dicendo. Insomma, se quello che si dovrebbe fare dovrebbe essere tirare tutti un po’ più la cinghia per garantire ai nostri figli e ai figli dei nostri figli un futuro (non un oggi) migliore, non è certo questa la strada giusta.
Ma forse i “professori” che sono al governo non hanno mai studiato le pagine del libro relative a Roosevelt e al New Deal…
Paolo Collo (Torino, 1950) ha lavorato per oltre trentacinque anni in Einaudi, di cui è tuttora consulente. Ha collaborato con “Tuttolibri” , “L’Indice” e “Repubblica”. Ogni settimana ha una rubrica di recensioni su "Il Fatto Quotidiano". Curatore scientifico di diverse manifestazioni culturali a Torino, Milano, Cuneo, Ivrea, Trieste, Catanzaro. Ha tradotto e curato testi di molti autori, tra cui Borges, Soriano, Rulfo, Amado, Saramago, Pessoa.