Alessandro Soprani, L’ultima estate che giocammo ai pirati, Mondadori, 2009
Tre ragazzini, le vacanze estive, un minuscolo paese dell’appennino parmense a metà degli anni Cinquanta. E già così vien voglia d’infanzia, di monellerie e di far finta, sul treno fermo nella pianura arroventata, che «io ero il cowboy e arrivavano gli indiani». Chi arriva, invece, è solo il controllore, che non somiglia in nulla a Cavallo Pazzo e sul viso non ha pitture di guerra ma rivoli di sudore, come te. Allora abbassi gli occhi e ti abbandoni alla lettura.
E par di vederli, Luca, Davide e Mario – i tre moschettieri, come li chiamano in giro -, scorrazzare nei campi, o bighellonare in piazza nei giorni di festa oppure rintanarsi nel fienile per fantasticare in pace sugli eroi del «Corrierino»; e la sera, felicemente ignari che un giorno sarebbe arrivata la tv, interrogare avidamente il nonno sulla guerra, i partigiani, le armi, ricevendone in risposta solo poche asciutte parole: perché il conflitto che ha messo famiglia contro famiglia, straziando anche il piccolo paese, è un ricordo ancora troppo vivo e doloroso.
Ma per tre dodicenni la guerra, per fortuna, è solo un altro gioco, e i morti ammazzati dai fucili di legno saltano in piedi come molle per correre a sfidarsi sulla pista per le biglie, vero campo di battaglia sul quale conquistarsi l’ammirazione e il rispetto dei compagni. Almeno fino a quando… Fino a quando Luca, in una solitaria passeggiata tra i boschi, ritrova il cadavere del tenero e inoffensivo Delmo, lo «scemo» del villaggio. Un omicidio inspiegabile, che scuote il paese come un terremoto portando alla luce affari loschi e segreti inconfessabili. Così i tre ragazzi si trovano coinvolti in un’avventura più grande di loro, tragicamente reale, dove i nemici da stanare non sono più pirati che veleggiano nei misteriosi mari del Sud ma contrabbandieri in carne e ossa, e dove i veri cattivi non li puoi riconoscere dalla benda nera sull’occhio.
Coraggio e incoscienza li porteranno a compiere gesti straordinari, in un mondo di adulti inveleniti dall’alcol o rassegnati a bruciare, insieme al tabacco della pipa, ogni desiderio di conoscere la verità. Tutti tranne l’Italina, splendida figura di vecchietta – destinata, secondo i tre ragazzi, all’immortalità -, generosa dispensatrice d’amore e di saggezza che si assumerà il compito di traghettarli da una brutale e dolorosa consapevolezza del passato e del presente a una più matura visione del futuro. Il prezzo del viaggio, però, sarà molto alto, troppo, per dei bambini che in fondo avevano solo sete di vita.
Un bell’esordio, davvero, questo primo libro di Alessandro Soprani, raccontato con tenerezza e al contempo vigore, anche se segnato da un paio di incongruenze che ritengo corretto sottolineare. Una, macroscopica, riguarda la famiglia di Luca: come si dice nella prima pagina, il babbo di Luca è morto quando la mamma era incinta di Chiara, la sorellina che ora ha quattro anni (p. 13); all’epoca, dunque, Luca aveva otto anni e non tre, come l’autore gli fa dire a p. 255, forse per rendere più commovente il suo racconto all’amico Davide.
E poi un appunto sul linguaggio. La piacevolezza e l’assoluta credibilità delle espressioni dialettali che i ragazzi usano parlando fra loro contrasta con alcune frasi che vengono fatte pronunciare al nonno, un po’ troppo forbite e «moderne» per un anziano che legge il giornale seguendo le parole con il dito. Dubito poi che ragazzini nati all’inizio degli anni Quaranta potessero apostrofarsi con il termine «sfigato», che all’epoca non era ancora stato coniato, tantomeno nel significato di «goffo, insignificante» che oggi va per la maggiore e che gli si attribuisce nel testo: si sarebbe dovuto aspettare (senz’ansia, lo ammetto) i creativi anni Ottanta per arricchire la nostra lingua con termini, di cui francamente non si avvertiva la necessità, come «tamarro», «paninaro» o «truzzo».
Forse il lapsus di Soprani è dovuto al suo desiderio di farci sentire questi tre ragazzi ancora più vicini. Non ce n’era bisogno: ognuno di noi, nel proprio modo e nel proprio tempo, è stato un po’ Davide e Luca. E Mario? Lui no, perché Mario…
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.