In un mondo equo e giusto la sfera riproduttiva sarebbe al centro dell’organizzazione e dell’agire umano, e non avrebbe luogo la soggezione e lo sfruttamento della maggioranza delle persone da parte di altre secondo l’imperativo produttivistico delle regole del capitale e del profitto.
Educazione, cultura, cura e relazioni creative, improntate al rispetto tra donne, uomini e il resto del pianeta, (quella Gaia che ogni giorno è sempre più stremata dalla violenza della distruzione ambientale), sarebbero al centro dei programmi dei governi e delle comunità. Non è così, per la stragrande maggioranza dei luoghi.
E, accanto alla catastrofe della povertà e dell’ingiustizia, c’è il disordine e l’infelicità generata dall’ignoranza. Prima tra tutte l’ignoranza su di sé, sul proprio corpo, sulla propria salute e sulla propria (e altrui) sessualità. Di questo parlano le donne e i movimenti che da decenni si battono per fare diventare centrale la questione del diritto alla contraccezione e alla salute riproduttiva per le donne e gli uomini, che da sempre, in Occidente, hanno dovuto lottare anche contro la titanica obiezione della chiesa su questi temi: come si sa è dall’enciclica di Paolo VI del 1968 contro la contraccezione che la pillola contraccettiva, e quindi la volontà di non avere figli, sono peccati gravi e soprattutto femminili. Le assatanate del sesso matrimoniale (quell’altro non si cita nemmeno) siamo solo noi. Le botte dei mariti invece non meritano neanche una scomunica piccola piccola. O una fatwa piccola piccola.
Per questo oggi la posta in gioco in Italia è altissima, se guardiamo alla vicenda della pillola del giorno dopo. Sembra una questione marginale, ma non è così.
In Italia, dove l’ignoranza sulla salute sessuale è un problema serio e un pericolo grave, (una ricerca recente su un elevato campione di giovani ha rivelato che oltre il 70% dei ragazzi sotto i 30 anni ritiene che la contraccezione sia una questione che riguarda solo le donne), la possibilità di accedere gratuitamente alla pillola del giorno dopo, soprattutto per le donne giovani e le migranti, entrambe a rischio di gravidanze indesiderate per vari e diversi motivi, costituisce un salto di qualità nel livello di civiltà già abbastanza compromesso, tra penosi scandali sessuali, devastante analfabetismo politico e derive razziste e sessiste.
Certo, al primo posto ci dovrebbe essere una educazione sessuale (per le donne e soprattutto per gli uomini) prioritaria e capillare che rendesse progressivamente inutile e marginale il ricorso sia alla pillola del giorno dopo che all’interruzione della gravidanza. Chi tuona contro questo farmaco, con un furore ideologico che sarebbe davvero interessante per la psicoanalisi indagare, sostiene che l’accesso ad esso va nella direzione opposta rispetto a comportamenti di responsabilità.
Nel frattempo, però, molte situazioni drammatiche (fino ad arrivare all’infanticidio, è cronaca di ieri ma è tragedia quotidiana nel mondo) sarebbero evitate se si potesse usare un metodo non invasivo come la pillola del giorno dopo per rimediare ad un errore e ad una distrazione che possono capitare a chiunque.
L’amore si fa in due, ma fin qui nella maggioranza dei casi è solo la donna a dover medicalizzare la sua potenzialità riproduttiva. In attesa di una rivoluzione che veda anche l’altra metà della popolazione (quella maschile) assumere la sua parte di responsabilità nella sfera sessuale è troppo chiedere che, in caso di esiti non previsti, non si debba anche ricorrere a operazioni comunque pesanti per il corpo femminile? La stessa legge 194 (articolo 15) prescrive che si continuino a cercare le soluzioni migliori perché l’aborto sia il meno possibile.
E’ dunque un diritto della donna di poter scegliere un metodo meno invasivo e traumatico dell’operazione chirurgica. A meno che al fondo della avversione tutta ideologica contro la pillola del giorno dopo non ci sia, (come è legittimo temere), la solita paura patologica dell’autonomia femminile, e anche di fronte all’eventuale rischio che una pratica semplificata possa deresponsabilizzare alcune donne, in un paese civile la medicina e le istituzioni hanno il compito e il dovere di offrirci la metodologia più sicura per evitare l’aborto.
Monica Lanfranco è giornalista e formatrice sui temi della differenza di genere e sul conflitto. Ha fondato il trimestrale di cultura di genere MAREA. Ha collaborato con Radio Rai International, con il settimanale Carta, il quotidiano Liberazione, con Arcoiris Tv. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici). Insegna Teoria e Tecnica dei nuovi media a Parma.
Il suo primo libro è stato nel 1990 "Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi". Nel 2003 ha scritto assieme a Maria G. Di Rienzo "Donne disarmanti - storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi" e nel 2005 è uscito il volume "Senza Velo - donne nell’Islam contro l’integralismo". Nel 2007 ha prodotto e curato il film sulla vita e l’esperienza politica della senatrice Lidia Menapace dal titolo "Ci dichiariamo nipoti politici". Nel 2009 è uscito "Letteralmente femminista – perché è ancora necessario il movimento delle donne" (Edizioni Punto Rosso).