Elizabeth Strout, Olive Kitteridge, Fazi Editore, 2009.
Da non leggere in treno, ma non da non leggere tout court. Perché Olive Kitteridge non è affatto brutto, anzi, è un libro ben scritto (ben tradotto, nello specifico dell’edizione italiana) e non manca certo di originalità, a cominciare dalla struttura: tredici racconti che potrebbero tranquillamente vivere di vita propria, ma che letti in sequenza costruiscono invece una sorta di romanzo a puntate, in ciascuna delle quali personaggi e situazioni ritornano, arricchendosi di nuovi dettagli.
E proprio di dettagli trabocca il racconto. Uno sguardo, il gesto improvviso di una mano, la ciocca ribelle di capelli o la smagliatura della calza: nulla manca di quel che può rendere più vivida la descrizione del personaggio che di volta in volta la Strout pone al centro della scena. E anche del loro carattere viene svelato quasi tutto, perché li si vede vivere o li si sente raccontare dai loro concittadini, dato che Crosby, nel Maine, dove sono ambientate le vicende narrate, è un paese davvero piccolo, e si sa tutto di tutti. O quasi.
Dunque non è ciò che manca ad avermi colpito di questo libro, ma piuttosto la sensazione – forte, in virtù della capacità descrittiva dell’autrice – di claustrofobia che ho provato addentrandomi nelle storie dei vari protagonisti: Henry, il farmacista, comprensivo datore di lavoro e marito innamorato, la cui mitezza viene fissata per sempre in un sorriso dall’ictus che lo porterà alla morte; Nina, prigioniera della malattia che toglie peso e voglia di vivere; Angie, che solo nell’alcol trova la forza di far scivolare le dita sulla tastiera del pianoforte nel locale in cui si esibisce ogni sera per pochi dollari; e poi Olive Kitteridge, l’anziana insegnante di matematica che ha imperniato la propria esistenza e i rapporti interpersonali, soprattutto con il figlio che ha avuto l’ardire di sottrarsi al suo dispotico affetto, sulla stizzita domanda: «Ti ho fatto del male, ma ti ho perdonato: perché non mi sei riconoscente?».
Troppo nutrito è il campionario di umane infelicità che si apre davanti al lettore, talmente vasto e sciorinato con tale dovizia di particolari da suscitare un senso di ribellione: davvero non esiste un briciolo di speranza?, davvero un amore purché sia dà senso alla vita?, davvero il destino di ciascuno è la compagnia dei propri fantasmi?
Prendo da Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal: «… perché io quando leggo in realtà non leggo, io succhio la bella frase come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcol, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari». Sarà allora, il libro della Strout, come un farmaco omeopatico che aggrava i sintomi del male di vivere? In questo caso attendo anche di esserne guarita.
Nel frattempo, per me e i miei compagni di viaggio cercherò bocconi più teneri e dolci, da masticare lentamente nelle lunghe ore di assordante solitudine che viviamo ogni giorno tra una partenza e un arrivo.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.