Raniero LA VALLE – “Perché mi odiano?”. Cavaliere, è amicizia rispondere
17-12-2009Berlusconi lo ha sentito soprattutto come uno sfregio morale. A lui, e a Milano! Ha scritto un leader pacifista, Enrico Peyretti: “Berlusconi ferito, umiliato e offeso lo sentiamo umanamente più vicino a noi. Nessuno offenda il potente nella sua fragilità”. E umana, così da riavvicinarlo alla gente comune, è la domanda che l’aggredito ha rivolto a don Verzè e agli altri suoi amici: “Perché mi odiano?”. Amicizia è rispondere a questa domanda.
La prima risposta è quella che si legge nel Vangelo, ed è ciò che dice Gesù citando i Salmi: “Mi hanno odiato senza ragione”. Questa risposta è verissima, e vale per tutti gli uomini, perché l’odio non ha mai ragione, per nessuna colpa e in nessuna circostanza, e solo quando la società uscirà dalla spirale della reciprocità violenta, sarà salva. Ma per dare questa risposta bisogna essere cristiani o nonviolenti, cosa ai tempi che corrono piuttosto rara.
E allora bisogna dare anche altre risposte. Dire che è il clima, non è una risposta. Ma con più cultura, oggi purtroppo dismessa in politica, si potrebbe riconoscere una causa che la ricerca storica e antropologica ha ormai sufficientemente chiarito, e cioè che quando la comunità concentra la sua attenzione su figure fuori dell’ordinario, uomini di Stato, star, vedettes e altri “uomini famosi”, scatta una dinamica di ambivalenza di amore-odio. Questa perciò è una cosa che va maneggiata con cura. I vecchi sovrani che identificavano in sé il corpo stesso del popolo, erano i più predisposti a suscitare sentimenti estremi, ciò di cui si mostrano consapevoli molti degli antichi riti di intronizzazione, che innalzavano il re come se fosse una vittima designata.
Berlusconi ha impostato la sua strategia politica attivando una estrema polarizzazione sulla sua persona, accentuando al massimo la sua differenza: il più ricco, il più bello, il più amato dalle donne e dai capi di Stato stranieri, il miglior governante attraverso tre secoli, il più perseguitato di tutti, il più calunniato, il più innocente, il primo sopra tutti i suoi pari, insomma l’unico. Questo è di per sé un pericolo. Ma questo pericolo è stato enormemente accresciuto dallo sciagurato sistema bipolare che gli apprendisti stregoni hanno voluto a tutti i costi instaurare nel nostro Paese. Perché per quanto in passato la popolarità di Berlusconi possa essere stata grande, in ogni caso essa lasciava fuori dai processi imitativi e identificativi col capo metà dell’Italia. E Berlusconi ha assunto la sua metà come se fosse il tutto: il suo partito l’ha chiamato “popolo”, rendendo gli altri “non popolo”; e su tutto il non popolo, non votante per lui, sono piombate definizioni ed epiteti, intesi come ingiurie, pesanti come il duomo di Milano: mortadelle, coglioni, comunisti, cattocomunisti, sinistre, antitaliani in combutta con lo straniero, giudici rossi, Corte incostituzionale, presidenti della Repubblica partigiani, terroristi mediatici, eccitatori di odio e via esorcizzando.
Questa temeraria e tragica polarizzazione non si esaurisce però nel rapporto con la persona del leader, come avviene nei regimi cesaristi e totalitari, ma nelle condizioni della democrazia investe, divide, corrompe e scuote tutto il Paese. Essa erompe nella protesta degli esclusi, le cui rappresentanze sono state addirittura cacciate dal Parlamento con quel 4 per cento che è tanto piaciuto a Berlusconi e a Veltroni, e dilaga con la sua carica ansiogena attraverso l’anello più debole ed emotivamente labile, che è il sistema mediatico-informativo, sicché dopo la televisione non si riesce più neanche a dormire la notte.
È forse per questo che oggi si vuol correre ai ripari spegnendo la democrazia, dal cambio della Costituzione alla repressione dei cortei, facendo per essi appello alle norme concepite per sedare le risse programmate dalle opposte tifoserie negli stadi per cui ci vorrà, forse, una “tessera del manifestante” concessa dal governo, e agli studenti dalla signora Gelmini.
L’accusa che si fa ai costituenti del 1947 è che essi hanno costruito un eccessivo sistema di garanzie perché spaventati dal fascismo da cui erano appena usciti, cosa che non sarebbe oggi più necessaria: ma avevano ragione loro se, non appena si intaccano le garanzie, l’ombra del fascismo riappare; e anzi nel mondo di oggi il terreno è più fertile di ieri, perché oggi ci sono grandi concentrazioni di ricchezze che ieri non c’erano, e una potenza di fuoco mediatica di cui allora non c’erano neanche i mezzi e il preannuncio.
Dunque è l’intero sistema politico che va ri-formato, con una decisa inversione di tendenza rispetto alla deriva di questi ultimi vent’anni, che ci ha portato fin qui. Questo è il senso della richiesta pressante, che sale dalla società, anche da quella che il 5 dicembre si è tinta di viola, perché le forze democratiche si riuniscano in una alleanza o “costellazione democratica” che si assuma il compito di vincere le elezioni, ripristinare la pace e salvare la Repubblica. L’accusa di voler così rifare il CLN o riprodurre le ammucchiate senza altro cemento che l’antiberlusconismo, è stantia e radicalmente infondata. La chiusura dell’esperienza Berlusconi – che gli stessi suoi amici ormai dovrebbero perorare – non significa tanto rimuovere una persona che la logica del sistema ha reso vittima catalizzatore e signore del conflitto, ma significa rovesciare la logica dell’attuale sistema restituendogli piena agibilità democratica, nonché liberare e nello stesso tempo regolare il conflitto, riportandolo nei parametri civili delle necessarie lotte sociali, sindacali e politiche.
Per questo insistiamo a dire che la grande alleanza democratica per la difesa del costituzionalismo e la fondazione di una democrazia pluralista, non sospende la lotta per la giustizia sociale, il lavoro, l’equità fiscale, la sicurezza previdenziale e sanitaria, i beni comuni; né l’alleanza politica che l’attuale legge elettorale, madre di tutte le storture, impone che sia estesa a tutte le forze democratiche alternative alla destra, deve interamente tradursi in una coalizione di governo; ciò naturalmente a condizione che tra le due alleanze, quella politica più larga e quella esecutiva più ristretta, siano stabiliti patti chiari e leali, non di potere, che garantiscano da un lato l’identità e il radicamento sociale di ogni forza politica, dall’altro la stabilità e la linearità dell’azione di governo.
Ciò è perfettamente possibile solo che si tenga conto che nell’emergenza si è meno liberi che nella situazione di normalità: quella normalità democratica a cui appunto è necessario tornare.
Raniero La Valle è presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Ha diretto, a soli 30 anni, L’Avvenire d’Italia, il più importante giornale cattolico nel quale ha seguito e raccontato le novità e le aperture del Concilio Vaticano II. Se ne va dopo il Concilio (1967), quando inizia la normalizzazione che emargina le tendenze progressiste del cardinale Lercaro. La Valle gira il mondo per la Rai, reportages e documentari, sempre impegnato sui temi della pace: Vietnam, Cambogia, America Latina. Con Linda Bimbi scrive un libro straordinario, vita e assassinio di Marianela Garcia Villas (“Marianela e i suoi fratelli”), avvocato salvadoregno che provava a tutelare i diritti umani violati dalle squadre della morte. Prima al mondo, aveva denunciato le bombe al fosforo, regalo del governo Reagan alla dittatura militare: bruciavano i contadini che pretendevano una normale giustizia sociale. Nel 1976 La Valle entra in Parlamento come indipendente di sinistra; si occupa della riforma della legge sull’obiezione di coscienza. Altri libri “Dalla parte di Abele”, “Pacem in Terris, l’enciclica della liberazione”, “Prima che l’amore finisca”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”. Nel 2008 ha pubblicato “Se questo è un Dio”. Promotore del “Manifesto per la sinistra cristiana” nel quale propone il rilancio della partecipazione politica e dei valori del patto costituzionale del ’48 e la critica della democrazia maggioritaria.