La fantasia che mescola intellettuali e mafiosi non raggiunge il “bronzeo volto” del fantastico Amministratore di Trenitalia: la Grande Nevicata da combattere con “panini e coperte”…
Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci, Einaudi 2009.
Lo dico subito: non ci si aspetti un coinvolgimento emotivo né l’appassionante ricerca di contenuti rivelatori della nostra anima, da questo piccolo romanzo di Ammaniti. Lontana anni luce dai precedenti Io non ho paura e Come Dio comanda, l’ultima sua creatura è infatti una piccola follia (come dichiara lui stesso nei ringraziamenti finali), frutto di una scatenata immaginazione e di sogni turbolenti. Ma i sogni, si dice, e persino gli incubi, prendono spunto dalla realtà, tant’è che i protagonisti della storia non sono poi così improbabili. Nel giovane e vanesio scrittore Fabrizio Ciba, dunque, non è difficile riconoscere qualcuno dei morfo-intellettuali che sbocciano in una notte (come brufoli su un viso adolescente) e fioriscono nei salotti televisivi accapigliandosi volonterosamente: ciuffo ribelle, abbigliamento studiato-casual, sguardo ispirato, sigaretta fra le labbra, Ciba è la perfetta espressione di una stagione “culturale” le cui icone sono ormai nient’altro che emoticon prive di qualsivoglia sfumatura e spessore.
E Mantos, al secolo Saverio Moneta, capo indiscusso delle Belve di Abaddon (una scalcinata setta satanica in cerca di gloria) ma soprattutto marito odiato, incarna la livida frustrazione e l’insopportabile malessere che strisciano nelle nostre città e sfociano talvolta in gesti di esasperata crudeltà, incomprensibili e inaccettabili a leggerli sui giornali, eppure tragicamente veri, di cui Ammaniti sottolinea però l’aspetto grottesco quasi per esorcizzarli.
Ad accomunare per un poco l’esistenza dei due protagonisti sarà l’evento del secolo, un mirabolante party organizzato a Villa Ada, residenza tra le più note di Roma, dal suo nuovo proprietario, uno sguaiato palazzinaro in odor di mafia che ama circondarsi di belle donne e vip assortiti, spinto dall’irrefrenabile desiderio di esibire una spudorata ricchezza le cui origini, peraltro, restano piuttosto misteriose (scrive l’autore nei ringraziamenti: «Il romanzo è frutto della mia fantasia. Se ci vedete cose e fatti che somigliano alla realtà sono affari vostri»).
Ma basta inoltrarsi nell’immenso parco e salire sull’avveniristico trenino destinato agli ospiti perché d’improvviso la festa si trasformi in un vero e proprio incubo, fra cacce alla tigre ed elefanti imbizzarriti, coccodrilli che divorano contesse imbellettate e pirañas che fanno strage di chirurghi estetici, cercopitechi impazziti di paura e umanoidi ributtanti che emergono dalle viscere della terra.
Quando però la sfrenata ordalia immaginata da Ammaniti si placherà, non saranno i giusti a salvarsi, ma i furbi, quelli che dalle disgrazie altrui sanno e sapranno sempre trarre vantaggio, quelli capaci di spazzolarsi via dal cuore i sentimenti come polvere dalla giacca sgualcita.
Una storia paradossale che lascia un po’ d’amaro in bocca, guarda caso iniziata mettendo piede su un treno: eppure, per quanto assurda possa essere l’atmosfera creata da Ammaniti, non potrà mai uguagliare la realtà ferroviaria vissuta nei giorni della Grande Nevicata. Nessun autore – mai – avrebbe avuto la sfrontatezza di far pronunciare a un proprio personaggio le parole uscite dalla bocca dell’amministratore delegato di Trenitalia, che, con bronzeo volto, consigliava ai viaggiatori di portarsi in treno panini e coperte. Quando si dice che la realtà supera la fantasia…
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.