Oscar Arnulfo Romero, pastore di agnelli e di lupi di Alberto Vitali, Edizioni Paoline
Non ho conosciuto personalmente monsignor Romero, l’arcivescovo di San Salvador. L’avrei potuto incontrare a Puebla, nel Messico, per l’incontro dei vescovi latinoamericani nel gennaio 1979, per il quale ero stato designato come rappresentante dei vescovi italiani dalla Commissione della CEI per le Missioni, se all’ultimo momento non si fosse preferito sostituirmi con un vescovo più “sicuro”. Oppure nel gennaio 1980 – dal 4 al 13 – nella missione dei vescovi europei (incluso un cardinale, l’arcivescovo di Vienna), sollecitata da monsignor Romero per dare prestigio e coraggio agli episcopati dell’America Centrale, compresi dalle dittature controllate dagli USA.
La missione, organizzata dal Movimento internazionale per la riconciliazione (Jean Goss, apostolo della non violenza, aveva tenuto un apprezzato convegno a Bogotà e
monsignor Romero ne aveva ricavato l’idea della missione dei vescovi europei), era stata sospesa su richiesta dello stesso monsignor Romero che si rifaceva all’abbattimento della dittatura nicaraguense da parte dei sandinisti e alla nuova giunta del suo Paese in cui sarebbe entrato anche il democristiano Napoleón Duarte.
Il 24 marzo 1980 monsignor Romero viene ucciso. E fu Pax Christi internazionale (di cui ero presidente) a promuovere, con il consenso dei vescovi locali, una «missione per i diritti umani», che visitò il Guatemala, El Salvador, il Nicaragua, convergendo poi, con rappresentanti di quei Paesi, in Panama per una sintesi che venne in seguito pubblicata. Personalmente vi partecipai in modo informale, anche per non richiamare troppa attenzione in quei momenti difficili (in El Salvador venimmo avvertiti che eravamo già controllati dagli squadroni della morte!), toccando i singoli Paesi e ritrovandomi poi a Panama.
Nelle due notti che passai in El Salvador fui ospitato presso l’ospedaletto sulla collina, nella cameretta dove alloggiava monsignor Romero (non si fidava a dormire in centro città; nelle ultime notti si era addirittura fermato in un corridoio segreto presso la cappella dove poi fu ucciso). Confesso che mi lasciai prendere dalla curiosità di perlustrare la cameretta, lasciata come ne era uscito monsignor Romero l’anno antecedente (oggi è diventata un museo-sacrario). Mi colpì che libri e documenti si dividessero tra Bibbia, teologia e sociologia: era evidente l’impegno a conoscere sempre meglio la sua gente e a scoprirne le vicende concrete di sofferenza e oppressione, e d’altra parte di volerla aiutare con la luce della parola di Dio e con la forza della fede.
Nei molti colloqui con i suoi collaboratori, ma anche con la gente dei quartieri più poveri della città, emergeva la figura attenta e paterna dell’arcivescovo, confermata nei viaggi successivi, con visite ai villaggi e con l’itinerario del viaggio che portò padre Rutilio Grande alla morte e alla sepoltura nella chiesetta del suo villaggio. È così che venni a conoscere ulteriormente la personalità di monsignor Romero e a rendermi conto di come un vescovo fondamentalmente “conservatore” e garantito dai politici della dittatura fosse poi stato “convertito” dalla sua gente e fosse diventato talmente critico del sistema dittatoriale da provocare il proprio assassinio.
Quando ho preso in mano il libro dell’amico don Alberto Vitali (amico mio, ma soprattutto amico di El Salvador, dove si è recato ormai innumerevoli volte) devo dire che ho finalmente conosciuto monsignor Romero, tanta è l’accuratezza con cui don Alberto si è documentato e tanta è la precisione con cui espone la vicenda della vita di monsignor Romero compresa la «conversione» che ha avuto momenti singolari (come la notte di veglia sulla salma di padre Rutilio), che ha avuto però un’evoluzione lenta ma costante, fino al martirio.
Riprendo la parola martirio perché ritengo che veramente monsignor Romero sia un martire, così come lo venera ormai tanta parte dell’America Latina. Che se i martiri tradizionalmente erano testimoni (così significa la parola greca martire) della fede, papa Giovanni Paolo II ha asserito il “martirio della carità” per quelli che – come padre Massimiliano Kolbe, offertosi in cambio di un compagno di prigionia designato a morire – testimoniano una carità che fa accettare per essa anche la morte.
Monsignor Romero sapeva che il suo atteggiamento alimentava la speranza di una vita più libera, più umana e lo faceva in forza della sua missione di cristiano e di vescovo; sapeva che questo poteva portarlo alla morte e ha continuato proprio perché cristiano e vescovo. Credo allora che possiamo definire monsignor Romero come martire della speranza. Se sarà canonizzato per la qualità della sua vita, sapremo che potremo invocarlo come martire, martire della speranza.
Luigi Bettazzi è Vescovo emerito di Ivrea. È stato presidente di Pax Christi.