Prefazione a Thomas Preskett Prest – James Malcolm Rymer, VARNEY IL VAMPIRO (Gargoyle Books, 2010)
Nell’aprile del 1847 il Blackwood’s Edinburgh Magazine, un’autorevole rivista letteraria che nel corso del periodo vittoriano avrebbe ospitato alcune delle opere di Trollope, George Eliot e poi Joseph Conrad, pubblica un articolo sul vampirismo sotto forma di lettera firmata da un certo Mac Davus al giovane e inesperto amico Archie. Nella lettera, la seconda di una serie dedicata alle “verità contenute nelle superstizioni popolari”, viene presentata un’ampia documentazione tendente a dimostrare l’esistenza dei vampiri non in quanto creature sovrannaturali, ma in base a spiegazioni scientifiche suffragate da numerose testimonianze.
Rifacendosi a una cospicua bibliografia, l’estensore della lettera definisce il vampiro: «un corpo morto, che continua a vivere nella tomba, che egli lascia, comunque, di notte con il proposito di succhiare il sangue dei vivi, da cui viene nutrito e conservato in buone condizioni, invece di decomporsi come tutti gli altri corpi morti».
È pur vero che, a conclusione della lettera, dopo essersi vantato di aver spiegato in modo inequivocabile l’esistenza dei vampiri, Mac Davus rimescola le carte in gioco, chiamando “pura invenzione” uno dei personaggi del circostanziato racconto ambientato nel 1727 vicino a Belgrado, che avrebbe dovuto rafforzare la credenza nei vampiri; in ogni caso, l’argomento viene evidentemente considerato di notevole interesse per i lettori di una rivista, come il Blackwood’s, che si rivolgeva a un pubblico selezionato e medio-alto borghese.
Il 1847, vero annus mirabilis per la narrativa vittoriana e per l’affermazione di una cultura che aveva il suo centro a Londra, vede non solo la pubblicazione in tre volumi del romanzo anonimo Varney the Vampyre or the Feast of Blood, ma anche quella dell’edizione economica delle prime opere di Dickens da parte di Chapman and Hall. Nel frattempo, Dickens prosegue la stampa a
puntate di Dombey e figlio, mentre Thackeray fa uscire nel gennaio 1847 il primo fascicolo de La fiera delle vanità. Nell’ottobre del 1847, la casa editrice Smith, Elder & Co. dà alle stampe Jane Eyre di Charlotte Bronte, ancora conosciuta come Currer Bell. Il successo di Jane Eyre, che non disdegna situazioni sensazionalistiche, tocchi sovrannaturali, e che presenta un personaggio pienamente byroniano in Rochester, il “master” di Jane, suo insidioso amante e, solo a conclusione della vicenda, marito sottomesso e ubbidiente, ebbe un risalto che oggi si definirebbe “strepitoso”.
Di fronte a tanti nomi illustri, passano in secondo piano perfino l’esordio del prolifico Anthony Trollope, destinato a una brillante carriera, con The Macdermots of Ballycloran, e, appunto, la pubblicazione di Varney il vampiro, che nei tre volumi che lo compongono (il cosiddetto triple decker, diffuso dalle biblioteche circolanti e prestato agli iscritti un volume alla volta), dispiega le sue 868 pagine distribuite in 220 capitoli. Come se non bastasse, ogni pagina, fittamente stampata, e ogni tanto vivificata da una incisione, si divide in due colonne, raddoppiando quindi, di fatto, le dimensioni di un’opera, di cui spesso gli studiosi hanno ammesso l’importanza, pur aggiungendo che si tratta del romanzo gotico in assoluto “meno letto”.
È auspicabile che la presente versione italiana – un’impresa editoriale davvero ciclopica – riesca finalmente a mettere anche in Italia studiosi, appassionati, lettori curiosi, a contatto con un’opera di straordinario interesse.
Prof. Carlo Pagetti, docente di Letteratura Inglese all'Universita' di Milano e grande esperto di narrativa vittoriana.