La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

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Spiare i fantasmi affacciato alla finestra

10-06-2009

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È stato appena ristampato dall’editore Passigli uno dei più importanti romanzi spagnoli degli ultimi decenni. È La pioggia gialla (La lluvia amarilla) dello scrittore spagnolo Julio Llamazares, che ha recentemente vinto il Premio Grinzane-Fenoglio con l’altrettanto straordinario Luna da lupi (Luna de lobos), sempre edito da Passigli. A “La pioggia gialla” – traduzione di Pier Luigi Crovetto – il Premio Internazionale Nonino.

Ma a che ‘genere’ appartiene questo romanzo? È la domanda che sorge spontanea dopo aver letto La lluvia amarilla di Julio Llamazares.
È la storia di un uomo che muore assieme al suo paese, alla sua casa, ai suoi affetti, al suo cane?
È un esempio della cosiddetta “memoria di un vinto”? L’allegoria di una morte individuale che mano a mano si dilata su tutto quanto gli sta attorno?
Oppure la narrazione psicoanalitica di una morte interiore?
O, ancora, la storia della fine di un’anima sempre più perduta dinnanzi all’avanzare del nulla?
Certo, è anche tutto questo.
Ma a ben pensarci, e rileggendolo con attenzione, La lluvia amarilla è – forse inconsapevolmente – un perfetto, classico romanzo dell’orrore (così come lo è stato, altrettanto inconsapevolmente,  Pedro Páramo di Juan Rulfo).
Gli elementi ci sono tutti: la casa stregata, i fantasmi, le voci, il cimitero, i ‘non morti’, il sangue, gli ‘altri’, una natura ostile, velenosa e ‘malata’, i vivi che spiano impauriti da dietro le finestre, il delirio, l’abisso…
E il protagonista, Andrés de Casas Sosas, l’ultimo abitante del paese di Ainielle, nei Pirenei, non sa neppure lui se è vivo o se è già morto da tempo. Gli altri, i vivi, quando un giorno o l’altro passeranno da quelle parti, in realtà se ne renderanno immediatamente conto: “Perché quando il primo di loro comincerà a salire le scale, tutti avranno capito che cosa da molto tempo ormai li stesse aspettando al piano di sopra. Lo capiranno quando saranno investiti da un freddo misterioso e improvviso. Quando un fruscio d’ali nere sbatterà contro i muri della stanza” (i corsivi, qui e più avanti, sono evidentemente miei). Un qualcosa al piano di sopra, un freddo misterioso e improvviso, uno sbattere d’ali nere (di un Corvo, forse?) sono classici elementi dell’orrore walpoliano, o delle descrizioni di Poe, di Stoker, e quindi fino a Lovecraft, a King e ai suoi più o meno fortunati emuli, e, ancora, fanno parte – come del resto tutto questo libro, pagina dopo pagina, – delle immagini che ci sono rimaste impresse dopo aver visto anche solo pochi film horror.
Qualche altro esempio: nel silenzio totale della casa addormentata si ode uno strano brusio, una sorta di rantolo. È il respiro di Sara, la bimba morta anni prima: “per qualche secondo rimasi lì nel corridoio, […] sentendo la morte passare parte a parte le pareti di casa, graffiare alle porte e lacerare il vento e la mia anima fino a ridurli in brandelli […] indietreggiai per il corridoio incapace di aprire la porta, incapace persino di scappar via…”.
Poi il bambino-mostro dei vicini di casa che viene tenuto rinchiuso nella stalla perché nessuno possa vedere “il suo orrendo rachitismo e la sua mostruosa deformità”. E dopo la sua misera fine, il letto di contenzione che l’aveva ospitato prigioniero diverrà la tana per un nido di vipere. Vipere che “a centinaia” invaderanno un giorno la stanza del protagonista (come nel migliore/peggiore degli incubi da delirium tremens).
E quindi i fantasmi. Di sua madre: “Portava lo stesso vestito che mia sorella e Sabina le misero addosso appena spirata […] E ora, seduta sulla panca, davanti al fuoco, immobile e muta come nel mio ricordo, sembrava fosse venuta per dimostrarmi che era il tempo, e non lei, a esser morto davvero”.
Tanti fantasmi: “Una notte, verso le due o le tre del mattino, uno strano brusio mi sorprese nel sonno […] Quel brusio non veniva dalla strada. Veniva da un angolo imprecisato della casa ed era di un sommesso vociare, come se, in cucina, qualcuno stesse conversando con mia madre […] In cucina, con mia madre, c’erano solo ombre morte, ombre nere, silenziose, sedute in cerchi davanti al camino, che, nel momento in cui aprii la porta alle loro spalle, si girarono all’unisono a fissarmi“. Sono tutti morti, anzi, sono tutti i morti di casa: la madre, Sara, la figlia malata, e Sabina, la moglie pazza e suicida: “Sabina era lì, penzolante […] con gli occhi immensamente aperti e il collo spezzato dalla stessa corda alla quale, alcune notti prima, avevo appeso il cinghiale nell’androne di casa”.
Andrés de Casas Sosas cerca, apparentemente, di fuggire da tutto questo orrore, e si nasconde “sotto le coperte come un bambino”. Per non vedere quanto gli sta intorno, per non vedere l’abisso “che stava in agguato dall’altro lato dello specchio“.
E anche la natura, poi, è malvagia, ostile: “alghe putrefatte”, “frutta marcia”, il freddo, la neve, la nebbia, e la povera cagna, eternamente spaventata e tremante, unica superstite di una cucciolata affogata nel fiume, che “crebbe da sola, completamente da sola, per le strade di un paese abbandonato persino dai cani”. E che Andrés stesso ucciderà con una fucilata.
E poi le voci, quell’assordante silenzio che lo accompagna ovunque, lui, “ombra tra le ombre dei morti”: “Tra gli alberi del fiume c’erano altre ombre, oltre la mia, e si udiva un bisbiglio interminabile di parole e di suoni che il fragore delle rapide non bastava a soffocare. Le ombre soltanto io riuscivo a percepirle”.
E quelli che non sono ombre, che non sono morti, o meglio, i non-morti, lo guardano da dietro i vetri delle finestre chiuse, lo sentono da dietro le porte di casa sbarrate. Come se fosse una fiera pericolosa, un lupo, un orso, o forse un vampiro, un licantropo: “Era come se in tutto il paese non fosse rimasta una sola anima viva […] Ma io sapevo bene che le cose non stavano così. Sapevo che a Barbusa vivevano ancora sei famiglie e che, in quello stesso momento, molti occhi, al di là dei vetri, mi stavano spiando“.
E infine la “pioggia gialla”: “le ore scorrono lente e la pioggia gialla va cancellando l’ombra del tetto di Bescós e il disco infinito della luna. È la stessa di tutti gli autunni. La stessa che seppellisce le case e le tombe. Quella che segna di rughe il volto dei vecchi. Che, goccia dopo goccia, devasta i loro volti, stinge le loro lettere e ingiallisce le loro fotografie. È la stessa che, una notte, sulla riva del fiume, mi penetrò nell’anima per non abbandonarmi mai più […] Finché un mattino, spalancando la finestra, vidi le case del paese tutte colorate di giallo“. Una “fanghiglia densa”, che al pari di un sudario copre tutto e tutti, come l’orrenda onda anomala di sangue che invade l’Overlook Hotel di Shining.
Perché, forse, Andrés de Casas Sosas è un po’ come il Jack Torrance (Jack Nicholson) del film di Kubrick.
Morto tra altri morti, in una vecchia fotografia anch’essa ingiallita.

Paolo ColloPaolo Collo (Torino, 1950) ha lavorato per oltre trentacinque anni in Einaudi, di cui è tuttora consulente. Ha collaborato con “Tuttolibri” , “L’Indice” e “Repubblica”. Ogni settimana ha una rubrica di recensioni su "Il Fatto Quotidiano". Curatore scientifico di diverse manifestazioni culturali a Torino, Milano, Cuneo, Ivrea, Trieste, Catanzaro. Ha tradotto e curato testi di molti autori, tra cui Borges, Soriano, Rulfo, Amado, Saramago, Pessoa.

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