Il calcio d’inizio è stato fischiato. La palla è tornata nell’altro emisfero ed ha toccato per la prima volta nella storia il suolo africano. C’è chi vende l’illusione di un ingresso ufficiale nel gioco dei grandi. A me il Sudafrica riporta immagini e suoni, il sapore di un viaggio fatto cinque anni fa. Quando tornai, mi chiesero di scrivere, raccontare, ma parlare di Sudafrica in modo lucido dalla scrivania della mia normalità non era per niente facile.
Ero confusa, frastornata, mi si affollavano nella mente le immagini più dure e dolorose del mio breve percorso dall’altra parte del mondo e non riuscivo a mettere ordine tra la grande quantità di informazioni e sensazioni che avevo ricevuto.
Il Sudafrica è una realtà complessa e cangiante. Basta osservare le superstrade che collegano Johannesburg a Pretoria, la periferia ed il centro delle città: è come se due mondi coesistessero l’uno a fianco all’altro. Africa nera ed Occidente, povertà e ricchezza, lotta per la sopravvivenza e crescita tecnologica, lustrini e violenza, vestiti alla moda e Aids.
Ripensando al mio viaggio mi tornano spesso in mente i due autisti che ci hanno accompagnato nelle nostre visite. Andrej, detto Stoney, era il proprietario della piccola ditta di trasporti. Altezza media, carnagione chiara, capelli e baffi brizzolati, occhiali a goccia con le lenti a specchio.. insomma per me poteva tranquillamente rispondere all’immagine di quegli americani che si vedono nei film.
Suo silenzioso compagno di viaggio, John, l’autista d’appoggio, era un tipo strano, alto, la testa un po’ incassata nelle spalle, occhiaie pesanti, un sorriso timido… All’inizio boeri, quasi bianchi colonizzatori, per noi arrivati per conoscere il degradante regime dell’apartheid, per sentirci più vicini al popolo nero, umiliato, offeso, calpestato.
Noi, ignoranti ed ignari, inconsciamente quasi ostili a quel mondo bianco che popola il Sudafrica, come erede di una colpa difficile da cancellare.
Una sorta di razzismo al contrario, il nostro ai giorni dell’arrivo, una serie di stereotipi da appiccicare agli uomini dimenticando le loro peculiarità per incasellarli in categorie predefinite. Un razzismo più difficile da comprendere e da riconoscere perché additava gli eredi di coloro che nella storia sono stati carnefici e non vittime, persecutori e non perseguitati. Un razzismo comunque assurdo.
Ma lo avrei capito solo più tardi. All’inizio Stoney e John ci accompagnavano quasi intimoriti. Sospettosi, sembrava, come se avessero paura del nostro sguardo scettico. Di fronte alla loro goffa timidezza avevamo iniziato a cambiare modo di fare: quanche sorriso rassicurante, qualche parola in inglese per rompere una distanza nata dalle immagini che avevamo l’uno dell’altro. E il loro timore sembrava diventare stupore verso un atteggiamento che ormai superava i preconcetti per divenir rapporto di uomini tra uomini.
Ricordo il giorno che ci hanno accompagnato a Soweto, una delle township nere di Johannesburg famosa per essere stata teatro delle prime rivolte studentesche del ’76. Simbolo di una segregazione razziale inumana, ma anche emblema del riscatto dei neri a ricordare la forza della mobilitazione civile. Quando scendemmo dal pullman Stoney e il suo compagno erano visibilmente preoccupati, tesi, ben attenti a guardarsi le spalle: dei bianchi nella città dei neri. Un confine che non avevano mai varcato.
Era incredibile: l’apartheid era finito da 11 anni ma “white” e “no white” (come li definiva un lessico che discriminava a tal punto da negare l’identità), vivevano ancora su due mondi paralleli. Ancora allora nelle zone rurali, gli indigeni non si erano neppure accorti della fini del regime. Per loro non era cambiato niente, costretti a lottare ogni giorno con la fame, le malattie e la miseria.
Nelle città era già diverso. Non esistevano più le leggi che impedivano di circolare da un quartiere all’altro, il coprifuoco, i cartelli sulle cabine del telefono e sui gabinetti che vietavano l’accesso ai membri di una “razza inferiore”. Divenuti uguali ai bianchi sulla carta, i neri erano ancora la maggioranza della popolazione povera, quella che faceva i mestieri più umili, saltuari, che passava le giornate ad un semaforo in attesa di qualche datore di lavoro occasionale pronto a caricarla nel cassone di un camion per portarla a cementare un muro.
Il Sudafrica è famoso per il processo di riconciliazione che si è svolto alla fine dell’apartheid. E in parte forse la riconciliazione c’è stata. Tuttavia credo che molti neri sentano ancora bruciare l’offesa subita e continuino a vederla riflessa nei volti bianchi che li circondano. Ma eravamo a Stoney e al suo amico timido.
Arrivati a Soweto, andammo a visitare il museo dell’apartheid. Gli autisti giravano stupefatti tra le foto della mostra. Davanti ai filmati dei massacri del ’76 si sono fermati. Hanno pianto. Era come se vedessero quel mondo per la prima volta: non lo conoscevano, non lo avevano mai voluto conoscere. Quell’episodio sembrò segnare uno spartiacque. Avevo la sensazione che ci guardassimo in modo diverso, noi cercavamo parole nuove per capire quel mondo. Lo stesso facevano Stoney e John, quando accompagnandoci si trovavano a relazionarsi con la popolazione nera, la loro realtà, le loro ragioni.
Per me è stato come se quel giorno due mondi si fossero incontrati, come se si fosse aperta la strada verso la comprensione, l’uno dell’altro, verso l’accettazione delle diversità. Certo è stato un piccolo passo, che per un minimo ha aperto gli occhi a uomini comuni che probabilmente avranno già perso un po’ del senso di quell’esperienza nella loro quotidianità.
Ma per me è stata la dimostrazione che la conoscenza può essere un ponte tra culture, un mezzo per appianare le ostilità che nascono da immagini costruite su stereotipi, per far di tutti gli uomini, semplicemente, esseri umani.
Giada Oliva, giornalista, si è occupata a lungo di Paesi in via di sviluppo e di cooperazione internazionale. Attualmente lavora nell'ambito della comunicazione politica e continua a seguire ciò che accade dall'altra parte del pianeta.