Arrivo ad Angkor col tuk-tuk in fila come al casello di fine week end. Il tuk-tuk è un’Ape trasformata in taxi. Capote bianca. Sguscia come una mosca fra auto e corriere in processione dall’aeroporto, turisti impazienti che allargano la vacanza in Thailandia con un salto nella storia. Chi guida è un ragazzo. Non smette di sorridere e parlare, purtroppo. Inglese a singhiozzo. Chiacchiere soffocate dal rombo di chi sorpassa con fastidio. Forse fa domande. Per un momento tace aspettando risposte che non arrivano: non ho capito.
A passo d’uomo di fronte alle mura che abbracciano il cuore della zona archeologica. Le macchine fuori; il tuk-tuk no, ma fino a un certo punto e con percorsi incanalati nell’anello piccolo, 17 chilometri: avvolge i templi, orgoglio della storia e tristezze delle guerre che hanno segnato la Cambogia. Le ultime, 40 anni fa: grappoli dei bombardieri Usa e la distruzione paranoica di Pol Pot. Aveva studiato a Parigi con la protezione di una zia arricchita dall’amante, cortigiano di Sianouk che era un sovrano eccentrico come lo sono stati i sovrani di Angkor. Siamuk cambiava bandiera ritmando le convenienze “perché un testimone di dio può farlo”. Protezione russa e poi cinese; protezione americana e sdilinquimenti con i vietnamiti invasori-liberatori.
Sopportava la noia degli esilii un po’ sulla Costa Azzurra o giocando a pallavolo o ballando, capocomico di una troupe che spopolava nell’Asia dove spunta il sole. Pol Pot riporta la Cambogia al medioevo. Niente moneta: solo baratto. Lavori forzati per tutti, proibito portare gli occhiali. Chi parla francese (lingua della colonia) o l’inglese “dei capitalisti” sparisce chissà dove. Bambini educati a spiare i padri.
Angkor erano le pietre che glorificavano il passato e l’odio diventa profondo. Decapita le statue, non importa la divinità; sgretola i fiori di pietra che abbracciano i capitelli; lascia che la foresta soffochi i simboli di una grandezza che non sopporta. Liane e radici abbracciano come serpenti elefanti e bassorilievi dove marciano antichi guerrieri kmer. 19 anni prima l’avevo vista così. Pol Pot voleva infangare in una risaia il lago artificiale (otto chilometri) scavato alla fine dell’ottocento per il capriccio megalomane di un sovrano che immaginava il sorriso dei Budda specchiarsi nell’acqua. Gli è mancato il tempo. Arrivano i vietnamiti e Pol Pot deve scappare, ancora combattere e alla fine umiliarsi nel processo degli orrori: 3 milioni di morti, un quinto del popolo kmer. Uccisi a bastonate o lasciati morire nella fame.
“Adesso puoi andare a piedi”, il ragazzo tuk-tuk spegne il motore all’ombra di un fico. “Aspetto qui”. Ecco Angkor Wat monumento religioso più imponente del mondo. Trasformazione del tempio induista in cattedrale buddista. Accende camere e video telefonini: un milione di persone, racconta il ragazzo tuk-tuk. Un milione, capirai. Il ricordo della spianata dove vagavano come fantasmi monaci affamati negli stracci non sospetta l’assedio del turismo di massa. Devo ricredermi. Ai piedi dell’Angkor Wat è come essere a San Siro. Migliaia e migliaia. Sparite le radici che avvolgevano templi e decorazioni nella follia di un barocco minaccioso. Restauri in corso. Monaci ragazzi che con passi di gazzelle si offrono ai flash dei visitatori. Un poliziotto si avvicina con l’aria di uno zio. “Vieni a vedere dove abito”. Giacigli nell’angolo di un tempio abbandonato. Un dollaro e il poliziotto vuole baciare le mani. Raggiungo affranto l’ombra del tuk-tuk. Il ragazzo sta ridendo al cellulare.
Tornare dove si è visto passare la guerra non vuol dire rivivere il passato. Sotto la crosta delle abitudini che accendono la normalità, si affacciano le stesse pietre, perfino le stesse case con promesse diverse. Non più rifugi o trappole ma posti normali per mangiare, dormire, ridere quando c’è da ridere. Se ha smesso di piangere la Cambogia continua a tirare la cinghia. L’egoismo del ritorno di chi pretende di incontrare i segni delle vecchie emozioni, ancora una volta trascura la vita degli altri per capire cosa davvero è cambiato sotto la pelle nuova. Tutto. Mi arrendo nel diario della sera, alberghetto di Seam Reap, la città del mio tuk-tuk, non lontana da Angkor. Le pale lente del ventilatore appeso al soffitto fanno tremare i fogli nell’illusione di rendere sopportabile il caldo liquido. Fra qualche settimana cominciano le piogge. Mi ero affacciato al bancone del Lotus, albergone thailandese, aria condizionata, piscina e uno strano cartello accanto all’ascensore: le persone di una certa altezza sono avvisate che le porte sono basse, tradizione kmer. Non devo preoccuparmi: letti prenotati da un anno all’altro. Per fortuna tuk tuk conosce il proprietario di una locanda. Sulle bancarelle del mercato cianfrusaglie dell’elettronica giapponese. O bancarelle dove parlano russo e offrono giocattoli che sparano scintille. “Due viaggi così lontani”, trovo nel diario. Ossessivamente normale, nessun batticuore: sono passati 19 anni, sembra un secolo fa.
Per arrivare al tuk tuk di Seam Real un mattino nuvole e sole compro il biglietto del battello veloce alla Mekong Express di Phnom Pen. Guarda il porto sul fiume e i ricordi diventano bianco e nero. 1985, la città del traffico senza respiro era una capitale deserta. Jeep russe dei vietnamiti, primi motorini, tante bici. Sei elefanti che legano le proboscidi alla coda dell’elefante che li precede attraversano la città la città senza suscitare meraviglia. Quando passeggio con gli occhiali da sole, i ragazzi mi seguono curiosi. Pol Pot è scappato da poco e gli occhiali non sono ormai proibiti ma nessun ragazzo sa cosa sono. “Provali”.
Il più piccolo prova e sviene dalle risate piegato sullo specchio del taxi antidiluviano sul quale viaggio in compagnia di una guida di stato. Che è un poliziotto e non lo nasconde. Magro e disfatto; sopravissuto ai lavori forzati di Pol Pot. Ogni giovedì pomeriggio mi affaccio sul Mekong per l’arrivo del battello di Singapore: attracca una volta la settimana. EÈ’ il solo legame col fondo di fuori. Sulla terrazza di legno del piccolo ristorante il vento porta gli ordini del comandante: ha fretta, vuole sbarcare valige e container prima del tramonto. Dalla balaustra si sporge gente che mi somigliava. Gli americani della Fao, i francesi dell’Unicef, svizzeri della Croce Rossa. Ambrogio Cattaneo, milanese di Mani tese. Vengono a guardare il battello con la nostalgia di telefoni, aerei, treni, metrò, civiltà perduta.
Vivono chiusi negli alberghi, rapporti ambigui e scarni con chi comanda. Legione straniera della solidarietà chiusa tra due silenzi: il silenzio del nostro mondo che non vuole ammettere le atrocità della guerra totale e il silenzio vietnamita, occupanti e liberatori che governano armi alla mano. I legionari della solidarietà si consolano negli stessi alberghi dove non ho trovato posto. Dormo al Metropol. Piccola hall con paesaggi che immagino vietnamiti, ma sono russi. Polacco è l’ufficiale che sfoglia il passaporto sotto la scaletta del mio Antonov partito da Hanoi. Si scende uno per volta, controllo che non finisce mai. Ungherese il berretto che guida il bus dimenticato dai francesi. Viene da Berlino Est la ragazza dietro il banco del Metropol.
Fra i passeggeri del battello veloce – secondo viaggio a colori, 2004 -facce che potrebbero essere le loro: figli, nipoti. Un vecchio osserva con un’emozione che l’allegria dei gitanti non contempla. Polacco in vacanza; forse è già passato da qui. La traversata del lago riporta il viaggio nelle abitudini della vacanza. Qualche meraviglia perché il lago Tonlé Sap è il cuore di un paese d’acqua, foresta fluviale e canali si torcono nelle campagne. Lago che diventa fiume e poi mare quando soffiano i monsoni. Si allarga, si stringe. Risaie come prati. Anche i villaggi affacciati a riva hanno i piedi nell’acqua: palafitte. Acqua che pescano con le pentole nel su e giù delle carucole. Bere, cucinare. Finito il pasto le immondizie ripiombano nel lago. Finalmente a Seam Real dove incontro il ragazzo tuk-tuk.
Nel viaggio in bianco e nero 1985 l’automobile si arrampicava sulle colline. Asfalto arato da tank o trattori. Attenzione alle mucche che attraversano la strada. Posti di blocco diffidenti: nemmeno la targa di auto di stato e i documenti di chi guida e chi accompagna aprono subito la mano per dire ” avanti ” di militari che non si fidano: avanti. Riga per riga e poi telefonano. Finalmente si riparte. Dodici ore dal mio Metropoli alla stanza della guest house in fondo al corridoio di una caserma. Leggo, parlo col poliziotto- accompagnatore che non ha voglia di parlare. Sillaba sempre le stesse parole.
“Vorrei incontrare il comandante vietnamita di questa regione…”. Il poliziotto-accompagnatore non alza le palpebre: “Il faut faire le papier, monsieur”, devi presentare richiesta scritta, signore. Guardo dal finestrino le creste bianche delle colline attorno. Rocce carsiche? E il poliziotto accompagnatore apre gli occhi. Ferma l’auto. “Vieni a vedere…”. Teschi uno sull’altro come legna da bruciare. Pol Pot li aveva nascosti in buche comuni, gente di città costretta a costruire una diga senza ingegneri, senza tecnici, senza nome.
Il poliziotto-accompagnatore legge un cartello: “Nella fossa sono stati trovati tre paia di occhiali. Ragazzi del liceo Twol-Sleng, era il più elegante della capitale. Quando torniamo a Phnom Pen possiamo vedere gli occhiali e leggere la lettera piegata nelle tasche di uno scheletro. Si chiamava Rowin Bernard, figlio del signor Jean Bernard e della signora The Duom…”. Per visitare Angkor c’è solo una bicicletta. Una. Strade che sembrano arate. Il poliziotto accompagnatore ha un momento d’imbarazzo: non può lasciarmi andar via senza controllo.
“Lei pedali, io la seguo”. Un po’ di metri e perde il fiato. Lo carico sulla canna, leggero come una piuma. Monaci che sembrano mendicanti si affacciano dai templi dove forse studiano e forse pregano e forse mangiano con la meraviglia di chi vede un uomo bianco trasformarsi nel ricsciò di un piccolo cambogiano. Il ritorno a Phom Pen 1985 è una marcia silenziosa sulla strada che a volte non c’é. Forse la memoria trasforma ogni desolazione in un sospiro di nostalgia, ma il ritorno 2004, superbus, aria fresca, chiacchiere vuote di chi è uscito dalla visita meraviglia, rimpiange il mormorio delle speranze dei primi giorni di libertà. Prima dell’albergo visita alla Grande Pagoda. Cineprese, telefonini. Ho voglia un taxi per arrivare alla doccia. Ma la tentazione di controllare se dove si raccolgono le preghiere qualcosa è cambiato mi mette in fila con gli altri.
È cambiato. Allora non era stato facile farsi spiegare come mai le candele illuminavano devotamente i ritratti di Marx, Lenin e Ho Chi Min appesi alle spalle di Buddha. “Nella loro dottrina non parlano di spiritualità…”. Il bonzo venerabile è un vecchio mezzo nudo, tunica arancione che fascia i fianchi. Risponde ad occhi bassi: “Ma io sono qui a pregare e lei è qui a parlare perché questi tre signori hanno elaborato una dottrina che ci ha liberati dal terrore di Pol Pot”. La paura è passata. Marx, Lenn e Ho Chi Min non ci sono più. E la doccia dell’albergo funziona come non funzionava quindici anni fa. Mezz’ora di acqua bollente al giorno. Soffitto coperto da gechi che erano una benedizione perché vivono di mosche e zanzare. Ripenso alla “gloriosa avventura” davanti alla Tv, bicchiere in mano, aria fresca che ritempra dal viaggio.