Sfogliando le favole di Corona sono tornata piccola: “Uffa”, rispondeva il nonno che mi invitava a visitare il bosco, cogliere il muschio, immergermi nella natura. “Uffa”, impazienza adulta se il treno è in ritardo, se il cielo di Milano non ha colore. E la nostalgia di piaceri perduti immalinconisce il lavoro
I bambini sono i primi a capire come va il mondo
11-10-2010
di
Federica Albini
Mauro Corona, Torneranno le quattro stagioni, Mondadori, 2010.
Il bello delle favole è che raccontano con parole semplici, comprensibili a tutti. Una scelta non certo rivolta all’infanzia, nel caso di Corona, ché i bambini son sempre i primi a capire le cose che sfuggono ai grandi. (Mentre il mio gatto ronfava beato alle nostre carezze, cercavo di spiegare alla bimba della mia amica Barbara, 7 anni, una famiglia e una lingua nuove di zecca, il significato della parola “fusa”: “Dice grazie” mi ha anticipato lei, sovvertendo in due parole secoli di luoghi comuni sull’ingratitudine felina.)
Già, perché i grandi hanno sempre bisogno di qualcuno che spieghi loro le cose, o meglio, che gliele ricordi. E le sedici brevi favole di Corona – quattro per ogni stagione, appunto – sembrano scritte allo scopo, per richiamare all’evidenza gli adulti distratti dalle nuvole dei loro pensieri “importanti”. O forse, chissà, solo io ne avevo bisogno. Così mi è bastato leggere Uffa! per riconoscermi nella bimba pigra che, agli inviti del nonno a passeggiare con lui nei campi e nei boschi, rispondeva invariabilmente “Uffa! Ho altro da fare”: scuola, palestra, chitarra riempivano tutte le sue giornate. “Troppi impegni esigono tempo. Per averne occorre guadagnarlo accorciando le distanze con mezzi a ruote e motore.”
Allora mi sono vista sul marciapiede della stazione scalpitare per pochi minuti di ritardo del treno, maledire nei giorni di pioggia i tram affollati, salire di corsa le scale della metropolitana con l’occhio all’orologio e il respiro mozzato. E mi ha preso il desiderio improvviso e inatteso di scalzare le scarpe e misurare i passi, nudi e finalmente indifesi, su superfici diverse dal selciato, l’erba, i sassi del fiume, dove i piedi ormai disavvezzi non sanno trovare equilibrio; la voglia di riprovare il gusto della salita che accorda il ritmo del sangue al sentiero, lo sforzo che celebra in stille rapprese sulla fronte dal freddo la gioia di toccare la vetta.
E ho sentito il bisogno di dare alle mani non plastica o ferro ma la forza del legno, del tronco col muschio che cresce per dirigerci a nord, del ramo saldo che serve da appiglio, del bacchio che aiuta a cogliere i frutti maturi; del ciocco che brucia tenace, intride del suo profumo i vestiti e fiacca anzitempo le palpebre, ma infonde calore.
Chiuso il libro, ripiombo nel grigiore del cielo a Milano, indifferente ad ogni stagione. Che importa: ormai il ritmo della terra ce l’ho dentro, insieme alla certezza che, almeno in me, sono tornate le quattro stagioni.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.