Il Padre di tutte le Grandi Opere, monumento-cattedrale allo spreco delle risorse e al consumo di territorio, delirio d’onnipotenza di una classe politica inetta e parassitaria. È il Ponte sullo Stretto di Messina, l’Ecomostro i cui lavori dovrebbero iniziare entro la fine del prossimo anno e che ha già battuto tutti i possibili record: il progetto più costoso della storia dei lavori pubblici, il più lento mai partorito, quello che richiederà la più grande gittata di cemento e calcestruzzo e che avrà la campata unica più lunga del pianeta, 3.360 metri, 1.400 in più del gioiello tecnologico giapponese di Akashi Kaikyo.
Nell’incantevole scenario di Scilla e Cariddi, i mitologici mostri decantati da Omero, si chiede di realizzare due torri di cemento e acciaio alte 382,60 metri, formata ognuna da due piloni del diametro di oltre 50 metri, rette da quattro tiranti di acciaio per un peso totale di 166.600 tonnellate. Il volume delle fondazioni in Sicilia sarà di 86.000 metri cubi, mentre in Calabria di 72.000. Oltre al Ponte vero e proprio saranno realizzati 40 chilometri di raccordi stradali e ferroviari (2 km su viadotto e 20,6 km in galleria), mega-discariche, cave e strutture di raccordo. L’Opera investirà superfici territoriali vastissime nelle province di Messina e Reggio Calabria: la somma delle aree destinante ai cantieri ammonterà a 514.000 metri quadri, a cui si aggiungeranno le aree destinate a discariche finali, distanti anche più di 50 km dall’infrastruttura, per un valore complessivo di 764.500 mq.[1]
La realizzazione del Ponte e delle opere connesse comporterà un fabbisogno complessivo di materiali pari a 3.540.000 metri cubi e una produzione di materiali provenienti dagli scavi per un totale di 6.800.000 mc. Altra insostenibile colata di cemento è programmata per completare alcune infrastrutture di “servizio” al Ponte (un centro direzionale, un centro commerciale con albergo, ristoranti, un anfiteatro e un museo in Calabria, un’area di servizio-ristoro in Sicilia) per altri 117.000 mc. Un affare stimato dalla Società Stretto di Messina Spa, concessionaria pubblica per la realizzazione del Ponte, in 8,5 miliardi di euro (perlomeno 10 secondo la rete No Ponte), che fa gola da più di trent’anni alle più efferate cosche criminali nazionali ed internazionali.
Quel pizzo del 40%
Commissioni parlamentari d’inchiesta, magistrati, organi di polizia, servizi segreti, studiosi ed esperti hanno posto ripetutamente l’accento sugli interessi della criminalità organizzata nella realizzazione del Ponte. Il primo allarme degli organi inquirenti risale al 1998, quando la Direzione Investigativa Antimafia denunciò la “grande attenzione” di ‘ndrangheta e Cosa Nostra per il progetto di costruzione dell’infrastruttura.[2] Da allora, il tema dell’infiltrazione criminale nei lavori compare costantemente nelle relazioni semestrali presentate dalla DIA. Il connubio Mafia-Ponte è pure al centro delle attenzioni delle diverse agenzie d’intelligence. “Grazie alle capacità strategiche dei capi carismatici, alle elevate doti di mimetizzazione e all’abilità nella gestione dei capitali di provenienza illecita e nell’infiltrazione di imprese impegnate nella realizzazione di opere viarie, la ‘ndrangheta ha evidenziato crescente dinamismo nei tentativi di contaminazione dei processi economico-imprenditoriali relativi ai cosiddetti grandi lavori. In tale quadro è stata rilevata, tra l’altro, una convergenza di interessi con le cosche siciliane in vista della possibile intercettazione dei flussi finanziari destinati alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina”, si legge nella Relazione sulla politica informativa e della sicurezza, presentata in Parlamento dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, a fine 2002.[3] Nel luglio dello stesso anno, anche il magistrato Alberto Cisterna, sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, si soffermava sui rischi di penetrazione mafiosa nei lavori per il Ponte. “Esistono elementi concreti sotto il profilo investigativo per affermare che la ’ndrangheta si sta preparando ad approfittare dell’affare miliardario”, dichiarava Cisterna. “Molte cosche calabresi starebbero per entrare in cordate di impresa che potranno avere parte negli appalti al momento in cui saranno chiamate dal general contractor. Tra queste, quelle che si occupano di attività legate all’edilizia: gli Alvaro, gli Iamonte, i Latella, i Libri, i Molè, gli Araniti, i Garonfolo ma anche i Raso–Gullace–Albanese, i Bellocco, i Serraino e i Rosmini, oltre alla potente cosca dei Piromalli. Queste potrebbero comprare o entrare in società pulite già costituite nel centro-nord e in particolar modo nei grandi distretti industriali del nord Italia. Un modello comportamentale aggiornato alle esigenze di una grande opera infrastrutturale, che porterà le cosche a trovare un accordo per guadagnare tutte del grande affare”.[4]
Sul cosiddetto “impatto criminale del Ponte”, esiste uno studio del 2000, mantenuto in buona parte segreto sino ad oggi, realizzato dal centro Nomos del Gruppo Abele di Torino per conto dagli advisor nominati dal Ministero dei lavori pubblici per valutare la fattibilità dell’opera.[5] I passaggi chiave della ricerca sono stati rivelati dal sociologo Rocco Sciarrone sulla rivista Meridiana.
Partendo dall’analisi di alcune grandi opere pubbliche realizzate in Calabria (l’autostrada Salerno-Reggio, il porto e la centrale di Gioia Tauro, ecc.), il rapporto Nomos ha rilevato la notevole capacità dei gruppi criminali d’inserirsi in questi appalti. A causa delle relazioni intercorse ed al controllo pressoché totale del territorio da parte della ’ndrangheta, scrive Sciarrone, “è pienamente fondato il rischio criminalità della localizzazione dell’infrastruttura in quest’area mentre si prefigura un rapporto di cooperazione tra le cosche per l’accaparramento degli appalti”. “A tal fine – aggiunge lo studioso – la ’ndrangheta si è dotata, sul modello della struttura organizzativa della mafia siciliana, di un organismo unitario e centralizzato di coordinamento in grado di appianare le controversie interne”.[6]
Il rapporto Nomos si è pure soffermato sulle strategie individuate dai gruppi mafiosi per impossessarsi dell’enorme flusso finanziario previsto. La prima “ha a che fare direttamente con il controllo del territorio e si sostanzia concretamente nel meccanismo della estorsione-protezione. La seconda riguarda l’attività imprenditoriale dei mafiosi e di loro eventuali soci e si traduce empiricamente nell’inserimento dei lavori da eseguire”. È stata fatta una stima di massima degli interventi che per le loro caratteristiche potrebbero subire un “maggior grado di permeabilità all’azione di gruppi criminali”. Si tratterebbe – sempre secondo Nomos – di circa il 40% dei lavori: “movimenti terra, trasporti, forniture di materiali inerti e calcestruzzi, in cui è più facile glissare normative e certificazioni antimafia”. Le attività più prevedibili “appaiono dunque il pagamento del pizzo sui lavori affidati in appalto o in concessione, la protezione su scambi e accordi pattuiti da terzi, il controllo e l’intermediazione rispetto al mercato locale del lavoro, il collegamento e la mediazione con i circuiti politico-amministrativi”.[7]
È comunque nell’ambito dei lavori ferroviari e stradali e delle rampe di accesso al Ponte che, secondo Nomos, il rischio criminalità è più alto ed evidente. Tali lavori prevedono notevoli volumi di scavo e discarica, oltre al fabbisogno di inerti lapidei per calcestruzzi. Altro settore particolarmente “sensibile”, quello relativo alla costruzione delle differenti infrastrutture di servizio al Ponte.
La criminalità mafiosa potrebbe esercitare la sua forza pure sull’offerta di servizi necessari per il funzionamento dei cantieri. Oltre alla tradizionale guardianìa, “i mafiosi cercheranno con molta probabilità di inserirsi nelle fasi di installazione e organizzazione dei cantieri, e successivamente anche nella gestione dei loro canali di approvvigionamento. È dunque ipotizzabile il tentativo di controllare il rifornimento idrico e quello di carburante, la manutenzione di macchine e impianti e la relativa fornitura di pezzi di ricambio, il trasporto di merci e persone”. In ultimo, il ruolo che i mafiosi potrebbero cercare di assumere – in termini di intermediazione e speculazione – sui terreni da espropriare per la costruzione delle infrastrutture di collegamento e di servizio. Ciononostante il rapporto Nomos, nelle sue conclusioni, ha sostenuto che “il grado avanzato di tecnologia richiesto per la costruzione del Ponte può costituire una barriera all’entrata di imprese mafiose”.[8]
Lo status symbol della mafia finanziaria
Quella di Nomos, come evidenziato da Umberto Santino (presidente del Centro di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo), è tuttavia un’analisi “inadeguata”, perché “inadeguata è l’idea di mafia che si limita a un ruolo parassitario-predatorio”. Per lo studioso, la penetrazione criminale nell’economia è un fenomeno assai più articolato e complesso e più che di “mafia imprenditrice” si deve parlare di “mafia finanziaria” che, a seguito dello sviluppo dell’accumulazione illegale, è in grado di “giocare un ruolo da protagonista e non da parente povero dei grandi gruppi imprenditoriali”. “Le grandi opere sono uno dei terreni principali in cui si cementano i blocchi sociali e si formano e consolidano le borghesie mafiose”, scrive ancora Umberto Santino. “Tutto questo si consuma in un contesto, come quello in cui viviamo, in cui l’illegalità è una risorsa, la sua legalizzazione è un programma, l’impunità è una bandiera e uno status symbol. E il consenso non manca”.[9]
L’evoluzione dell’impresa mafiosa, delle sue capacità tecnico-operative e della sua forza finanziaria e d’inserimento nei mercati “legali” risale perlomeno alla seconda metà degli anni ’70 quando fu dato l’assalto ai pacchetti azionari di grandi gruppi industriali (vedi il controllo di Cosa Nostra sulla holding finanziaria “Ferruzzi” o, per restare nell’ambito geografico dello Stretto di Messina, il tentativo – abortito – dei clan di Africo Nuovo d’investire cinquemila miliardi di vecchie lire per acquisire il colosso “Italstrade Spa”, Gruppo IRI).[10]
Ancora più inquietante quanto avvenuto proprio con il progetto di realizzazione del Ponte. Una recente inchiesta giudiziaria ha rivelato come le organizzazioni criminali si siano organizzate per partecipare non solo alla realizzazione diretta del manufatto e delle opere complementari ma soprattutto come elemento chiave del loro co-finanziamento. Nella seconda relazione semestrale 2005 trasmessa al Parlamento, la Direzione Investigativa Antimafia affermava che “la mafia è pronta a investire il denaro del narcotraffico nella costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina”. La DIA specificava che le indagini della Procura della Repubblica di Roma “hanno accertato che ingenti capitali illecitamente acquisiti da un’organizzazione mafiosa a carattere transnazionale sarebbero stati reinvestiti nella realizzazione di importanti opere pubbliche, con particolare riguardo a quelle finalizzate alla costruzione del Ponte”.[11]
L’inchiesta, denominata Brooklin, sulla base di numerose intercettazioni, aveva individuato l’operazione concepita dalla famiglia mafiosa dei Rizzuto di Montreal (Canada), per riciclare cinque miliardi di dollari provenienti dal traffico di droga nei lavori del Ponte. Secondo i magistrati, il boss Vito Rizzuto si sarebbe avvalso di un noto professionista italo-canadese, l’ingegnere Giuseppe Zappia (poi condannato in primo grado) per costituire una società schermo e partecipare, nella primavera del 2004, alla gara preliminare per il general contractor.[12] Nonostante l’impresa venisse poi esclusa dalla gara perché non in possesso dei requisiti richiesti, Zappia fu in grado di accreditarsi di fronte ad importanti rappresentanti del governo, alla Società Stretto di Messina e ad alcune delle maggiori società di costruzioni partecipanti al bando, come l’operatore in grado di anticipare la quota di finanziamento che il general contractor deve ricercare sul mercato ma che, ad oggi, nessun istituto bancario e/o finanziario è disponibile ad offrire, causa l’insostenibilità economica dell’opera. Come è stato evidenziato da Stefano Lenzi, responsabile dell’Ufficio istituzionale del WWF Italia, “l’attuale salto di qualità vede la holding mafiosa mettere sul tavolo dei suoi rapporti con le imprese il suo ruolo di intermediatore finanziario, con enormi disponibilità economiche. Un mediatore che non ha nemmeno bisogno di condizionare il general contractor per realizzare l’opera, ma che tenta, addirittura, di diventare esso stesso (attraverso le necessarie coperture) l’elemento centrale di garanzia del GC, che dovrà redigere la progettazione definitiva ed esecutiva e realizzare l’infrastruttura”.[13]
Quella del clan Rizzuto e dell’ingegnere Zappia non va intesa però come una mera operazione di riciclaggio. Appare strategico per la criminalità organizzata infatti, appropriarsi dell’enorme valore simbolico dell’opera, tentando di ottenerne utili effetti di ri-legittimazione politica e consolidare la propria immagine di fronte alle istituzioni, ai media e all’opinione pubblica. La mafia, cioè, raccoglie gli appelli e i messaggi trasversali provenienti da concessionarie pubbliche, gruppi imprenditoriali e settori governativi, secondo i quali se la mafia è in grado di costruire il ponte, ben venga la mafia (come ebbe a dire il più alto dirigente della Stretto di Messina in un’intervista televisiva a Sciuscià, diretta da Michele Santoro) o che al Sud, le imprese devono imparare a convivere con le organizzazioni criminali (affermazione dell’ex ministro alle Infrastrutture, Pietro Lunardi). “Quando farò il ponte – dice in una telefonata l’imprenditore Zappia – con il potere politico che avrò io in mano, l’amico (il boss Rizzuto ndr) lo faccio ritornare…”. Quindici anni dopo le efferate stragi di Capaci e via d’Amelio e la trattativa Stato-Antistato che ha spianato la strada alla Seconda repubblica di stampo neoliberista e autoritario, la grande mafia riemerge per affermare la piena signoria sui territori e sugli affari, a partire dal Ponte, vero emblema delle contraddizioni del sistema glocal globale-locale. Opera-modello, cioè, dei rapporti economici e sociali nell’era della globalizzazione liberista dove intanto si ristrutturano le economie e le gerarchie sociali a livello locale. In una realtà “periferica”, quella dello Stretto di Messina, ad altissima densità criminale, da decenni laboratorio di una borghesia mafiosa al centro di vasti traffici internazionali di droga ed armi in combutta con i poteri più o meno occulti. A Messina e Reggio Calabria si sono sviluppati più che altrove intrecci fra eversione nera, cosche criminali, logge massoniche deviate e non, istituzioni (apparati dello Stato, forze dell’ordine, magistratura, servizi segreti e finanche nuclei dell’organizzazione militare Gladio). Non sarà certo un caso che tra gli operatori più intraprendenti pro-Ponte compaiano proprio le ‘ndrine di Africo e la “famiglia” di Barcellona Pozzo di Gotto, quest’ultima con un ruolo tutt’altro che secondario nella preparazione delle stragi del biennio 1992-93, anche grazie alle trame ordite dai suoi boss con le più agguerrite organizzazioni neofasciste.
L’area dello Stretto è una vera e propria “zona franca” dove hanno operato ed operano impunemente quelli che abbiamo voluto definire I Padrini del Ponte: “speculatori e faccendieri; piccoli, medi e grandi trafficanti; sovrani o aspiranti tali; amanti incalliti del gioco d’azzardo; accumulatori e dilapidatori d’insperate fortune; frammassoni e cavalieri d’ogni ordine e grado; conservatori, liberali e finanche ex comunisti; banchieri, ingegneri ed editori; traghettatori di anime e costruttori di immonde nefandezze”.[14]
L’identità criminogena del neoliberismo
Gli anni del berlusconismo sono stati segnati dal rilancio delle Grandi Opere, devastanti per i territori e il bilancio pubblico, e dall’entrata in vigore di nuove disposizioni legislative in materia di appalti pubblici che hanno pesantemente condizionato gli strumenti di contrasto alle infiltrazioni mafiose. Si pensi innanzitutto alla cosiddetta Legge Obiettivo varata dall’esecutivo che vedeva ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi. Come segnalato nella Relazione di minoranza della Commissione antimafia della XIV legislatura, “il fatto che un’opera venga riconosciuta come obiettivo strategico per il Governo giustifica la disapplicazione di tutte le altre norme che con fatica, nel corso degli anni, sono state emanate al fine di creare un sistema normativo che, nel rispetto dei principi posti in sede comunitaria, fosse altresì funzionale a prevenire il rischio di infiltrazione della criminalità organizzata negli appalti pubblici”. Tra le norme della Legge Obiettivo maggiormente criticate c’è quella che prevede l’affidamento della realizzazione delle infrastrutture strategiche ad un unico contraente generale o concessionario, esattamente come accaduto con il bando di gara per il Ponte. “La stessa definizione della figura del contraente generale fornita dalla norma di attuazione – si legge ancora nella Relazione di minoranza – è chiaramente mirata a liberare il soggetto dall’obbligo di rispetto a valle delle norme dell’evidenza pubblica. Il general contractor può scegliere liberamente i sub-appaltatori, senza alcun vincolo normativo del genere di quelli tradizionalmente posti a presidio dell’imparzialità e della correttezza della scelta del contraente da parte della Pubblica Amministrazione…”.[15]
Norme ad alto valore criminogeno, non abrogate dall’effimero governo di centro-sinistra, a cui si aggiungono adesso i “colpi di coda” del governo Berlusconi in materia di appalti pubblici. Nell’agosto 2009, con il ricorso al voto di fiducia, è stato approvato un “decreto anti-crisi” che ha modificato il Codice dei contratti pubblici, riducendo pericolosamente da 90 a 60 giorni i termini per l’approvazione del progetto preliminare e definitivo delle opere concorrenti le infrastrutture strategiche (quelle cioè della Legge Obiettivo).[16] L’ordine generale è dunque quello di ridurre all’osso i controlli preventivi, offrendo sempre più illimitate libertà di manovra a grandi e medie imprese.
Negli ultimi mesi, in nome del dio mercato e del “rilancio dell’economia”, l’esecutivo ha elaborato alcune proposte di revisione e snellimento delle procedure per gli appalti pubblici che non potranno che rafforzare il dominio dell’illegalità e della mafia finanziaria. Il ministro Altero Matteoli, in particolare, ha chiesto di estendere la trattativa privata senza bando, alzando l’attuale limite di 500 mila euro a un milione, e di puntare sulla “finanza di progetto di terza generazione” affinché i privati “diventino realmente i protagonisti nella realizzazione di lavori pubblici non previsti nella programmazione pluriannuale”. “Quindi maggiore dinamicità nelle procedure e al contempo maggiore competizione”, ha aggiunto Matteoli. “Stiamo lavorando a una sistematica riduzione dei termini di svolgimento di alcune importanti fasi procedurali nelle grandi opere, dall’approvazione dei progetti alle valutazioni ambientali”.[17] Relativamente alle opere strategiche, il ministro delle Infrastrutture pensa ad “un’approvazione unica del progetto sul preliminare e verifiche relative all’avanzamento dei lavori”. Il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), procederebbe cioè all’approvazione, “su richiesta dell’impresa aggiudicatrice”, del solo progetto preliminare, senza dunque dover esaminare successivamente il progetto definitivo “se esso è coerente con quello preliminare, in particolare con riferimento al rispetto del medesimo limite di finanziamento”.[18]
Dulcis in fundo, a settembre è giunto l’annuncio choc del ministro Brunetta sull’intenzione di abrogare l’obbligatorietà della presentazione dei certificati antimafia da parte delle imprese in gara per le opere pubbliche. Le certificazioni antimafia rilasciate dalle Prefetture consentono di accertare l’assenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto e di tentativi di infiltrazione mafiosa nei confronti dei soggetti che intendono instaurare rapporti con la pubblica amministrazione. Dopo le leggi ad personam, quelle per l’ingiusto processo e il bavaglio della libera informazione, l’abrogazione del certificato antimafia sarebbe il sigillo del golpe bianco dell’ultimo ventennio. I Padrini del Ponte e delle saghe nostrane del cemento sapranno certamente approfittarsene.
Antonio Mazzeo, peace-researcher e giornalista impegnato nei temi della pace, della militarizzazione, dell'ambiente, dei diritti umani, della lotta alle criminalità mafiose. Ha pubblicato alcuni saggi sui conflitti nell'area mediterranea, sulla violazione dei diritti umani e più recentemente un volume sugli interessi criminali per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina ("I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina", Edizioni Alegre, Roma).