Il 55 per cento degli uomini, il 33 per cento delle donne e 74 ragazzi su cento hanno risposto così. E la povera filippina assassinata a pugni nel centro di Milano mentre i passanti guardavano senza alzare un dito è l'ultima vittima sacrificale del Medioevo che continua
Monica LANFRANCO – Amo, dunque uccido, e la colpa di chi è? Delle ragazze che provocano…
09-08-2010Quante volte abbiamo sentito dire (o abbiamo detto, con rabbia e senza riflettere) una frase carica di presagi nefasti, come “ora ammazzo qualcuno”? Nel fraseggio della modernità abbondano espressioni violente con simbologie aggressive, sessiste, omofobe, razziste senza che si faccia quasi più caso al loro contenuto offensivo e pericoloso: la scusa è che nel mondo violento che ci circonda, e del quale facciamo parte, è necessaria una catarsi almeno nelle parole, e che la violenza verbale non è, nella maggioranza dei casi, immediatamente legata all’azione violenta che pure esprimono le parole che diciamo o che ascoltiamo.
Ma qualche mattina fa un giovane uomo ucraino, che da giorni andava ripetendo che avrebbe ucciso qualcuno, è uscito di casa e lo ha fatto davvero: lasciato dalla fidanzata da poco tempo, gonfio di rabbia e di rancore contro quella donna che l’aveva ferito e contro le donne, evidentemente tutte per traslato responsabili ai suoi occhi del dolore infertogli dall’abbandono, ha ucciso a pugni nel giro di pochi minuti una donna filippina di 41 anni, madre di due figli, che andava a lavorare, come ogni mattina, a Milano.
Unica colpa essere, appunto, una donna, per orribile coincidenza la prima capitata a tiro dell’assassino che se l’è trovata davanti e ha dato sfogo su di lei al suo odio.
In questo scenario di brutalità, abuso, ignoranza e dolore che ci sembra arcaico e lontano mentre è proprio qui nella nostra quotidianità, impastato con il sincopato e moderno presente c’è, una volta ancora nello sfondo un dato incontrovertibile: sono sempre di più gli uomini, non importa se giovani o maturi, italiani o di altri paesi, che non sono capaci di reggere emotivamente il peso dell’abbandono da parte di una donna, considerando le relazioni affettive e sessuali con l’altro genere un banco di prova della loro virilità.
Se qualcosa va storto, specialmente nel caso in cui sia la donna a decidere di troncare la relazione, essi non sono capaci di elaborare la ferita del distacco, del rifiuto, e una pur dolorosa e umana vicenda sentimentale di fallimento diventa un’ossessione, un’onta, una offesa insopportabile alla propria presunta integrità virile, che è possibile sanare solo con una escalation reattiva: l’insulto, la persecuzione, la violenza fino ad arrivare all’annientamento fisico della colpevole, e, se non di lei in persona, come in questo caso, in un suo surrogato.
Le pene d’amore celebrate dalle canzoni e dalle poesie di ogni tempo restano lì, raggelanti presagi di sventura: come è possibile che l’amore, la passione e le fortissime emozioni che tutti e tutte desideriamo vivere nella relazione amorosa possano trasformarsi in disprezzo, vendetta, odio fino all’assassinio?
È possibile, è realtà se non cambiamo modo di educare all’affettività e al rispetto: mai dare per scontato che gli uomini abbiano chiaro che l’amore non rende chi ama un proprietario e un padrone dell’amata; mai dare per scontato che dietro all’emancipazione apparente delle giovanissime di oggi ci sia una concreta consapevolezza del proprio valore e della inviolabilità del proprio corpo e della sessualità. Possiamo parlare semplicemente di raptus di follia (tutti i tg titolavano così la vicenda) e rubricare questo ennesimo episodio di violenza maschile contro le donne come un caso isolato di pazzia?
Facciamo un passo indietro: qualche mese fa l’Airs (Associazione italiana per la ricerca in sessuologia) rese noti i risultati di una ricerca dal titolo “Dalle molestie sessuali allo stupro”, per individuare le principali variabili all’origine della violenza sessuale. Le risposte allarmarono gli stessi vertici dell’associazione, che affermarono:
Fra i risultati che ci hanno sorpreso e sconcertato maggiormente c’è questa sorta di colpevolizzazione della vittima. Alla domanda 24 (“Secondo lei, le donne
sono spesso libere e ambigue sessualmente e ciò le rende alle volte responsabili della violenza sessuale che possono subire”?) il 55,8% degli uomini ha risposto affermativamente, come pure il 43% delle donne e il 75% dei giovani. Dunque non stupisce troppo che poi il 56% dei maschi pensi che, se le donne fossero meno provocanti, la violenza sessuale diminuirebbe. La pensa così il 33% delle donne e il 74% dei giovani”. Dal sondaggio emerge, inoltre, che per il 15,7% degli uomini e il 10% delle donne l’imposizione di un rapporto alla moglie o fidanzata non sia violenza. Per questa percentuale di uomini non c’è nulla di sbagliato, e per le donne non esiste motivo di ribellarsi. Ancora: sguardi, fischi e atteggiamenti che mettono a disagio la vittima per il 50% degli uomini non sono molestie, un’idea condivisa dal 43% delle donne. Che serve aggiungere ancora, per avere la certezza che nella nostra cultura ormai è maggioritaria l’opinione che l’aggressività, la misoginia e il sessismo di parole, sguardi e allusioni esplicite sono da considerarsi normali e accettabili nelle relazioni tra i generi e che un molestatore, anche solo a parole, è a livello psicologico già un violentatore, e che poi l’escalation può anche trasformarlo in un assassino, a seconda del suo squilibrio e della sua fragilità emotiva?
In questo ennesimo caso di femminicidio colpisce il vano tentativo di una donna di salvarne, purtroppo inutilmente, un’altra dalla violenza che stava per esplodere.
La madre del ragazzo al mattino della tragedia ha cercato di fermarlo intuendo che dalle parole si stava passando ai fatti: ha chiamato la polizia appena lui è uscito di casa, temendo che le affermazioni del figlio potessero diventare realtà. Non ce l’ha fatta.
Di fronte al lutto e alla disperazione nel quale ci immerge questo assassinio non resta che continuare a dire, forte e chiaro, che se non si rifiuta il paradigma della forza come fondativo delle relazioni non ci può essere alcuna speranza di convivenza umana pacifica e feconda. Alla base di questo percorso c’è la necessità di riconoscere la violenza sulle donne, in ogni sua forma, come violenza primaria da sradicare. C’è bisogno di farlo a partire dalla scuola elementare, nei luoghi di lavoro e di aggregazione, lo si deve ricominciar a fare come società civile, come movimenti, perché una cultura violenta contro le donne originerà, a cascata, modelli violenti in ogni altra manifestazione del corpo sociale. Riconoscerlo è un’emergenza.
Monica Lanfranco è giornalista e formatrice sui temi della differenza di genere e sul conflitto. Ha fondato il trimestrale di cultura di genere MAREA. Ha collaborato con Radio Rai International, con il settimanale Carta, il quotidiano Liberazione, con Arcoiris Tv. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici). Insegna Teoria e Tecnica dei nuovi media a Parma. Il suo primo libro è stato nel 1990 "Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi". Nel 2003 ha scritto assieme a Maria G. Di Rienzo "Donne disarmanti - storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi" e nel 2005 è uscito il volume "Senza Velo - donne nell’Islam contro l’integralismo". Nel 2007 ha prodotto e curato il film sulla vita e l’esperienza politica della senatrice Lidia Menapace dal titolo "Ci dichiariamo nipoti politici". Nel 2009 è uscito "Letteralmente femminista – perché è ancora necessario il movimento delle donne" (Edizioni Punto Rosso).