CARDENAL, UNA VITA DI TORMENTI
10-07-2009
di
Ippolito Mauri
Ernesto Cardenal, basco in mano, è l’icona di un prete inginocchiato davanti a Giovanni Paolo II. Il Papa lo sgrida alzando l’indice con severità, Managua, 6 marzo 1983. Ernesto ha ormai più di 80 anni. Viene da una famiglia aristocratica della Granada nicaraguene. La vocazione lo spinge nella trappa di Thomas Merton, e nella “Montagna dalle sette balze”, Cardenal respira nel poeta americano l’influenza di Eliot e la disobbedienza obbediente di Maritain. Si ritira nel rifugio di Solentiname;Merton promette di raggiungerlo in mezzo al lago. Il silenzio si trasforma in versi, ma la parola torna appena i sandinisti marciano contro la dittatura di Somoza. Ernesto, il fratello Fernando, gesuita, e la grande borghesia si schierano dalla parte della rivoluzione. Che confonde l’Europa. Non sa, non capisce mentre gli americani si arrabbiano. Chi avrà ragione? Anche la Chiesa è divisa. Dopo la vittoria Ernesto e Fernando diventano ministri del governo Ortega. I gesuiti mettono da parte Fernando considerandolo “separato in casa”, mentre i vescovi autorizzano i due preti diocesani ( Cardenal, e il ministro degli esteri D’Escoto ) a fare politica “nell’interesse del popolo”. Arriva a Managua Giovanni Paolo II e rifiuta la mano che il ministro Cardenal vuol baciare prostrato ai suoi piedi. Però due volte ammonisce, voce alta sul palco: “Lei deve regolarizzare la sua situazione. Esca dalla politica e sarà ancora prete”. Radio e Tv straniere disperdono parole ed immagini nel mondo. Nella fede di ogni spettatore, Reagan e Giovanni Paolo II stringono alleanza sullo stesso altare dal quale condannano il regime comunista di Managua. Cardenal? Agente pericoloso della sovversione. “Andiamo”, sorrideva Ernesto ai giornalisti che volevano sapere.”Comunista con tre preti ministri e settecentomila fedeli portati in piazza dal governo per festeggiare il Papa?”
Due anni dopo Ernesto viene sospeso a divinis. Nei volumi de “La revolucion perdida” raccoglie l’amarezza di quell’incontro lontano: “Mi stupiva che all’aeroporto e sul palco della piazza, Giovanni Paolo II leggesse discorsi scritti a Roma, prima di partire: parlava di ‘persone impedite a raggiungere il luogo dell’incontro’ quando tutti i mezzi disponibili in un paese sfinito dalla guerra di Reagan, avevano raccolto un terzo della popolazione attorno alla messa solenne. Come è possibile che i suggeritori vaticani immaginassero un regime simile al comunismo ateo della Polonia mentre l’Iglesia Popular, la nostra chiesa popolare, aveva conquistato il cuore di tutta la gente? Per due volte Giovanni Paolo II ha ripetuto che il Nicaragua era la ‘seconda Polonia’. Da dove lo capiva se ai suoi piedi una folla commossa ne invocava il nome?”
Passano gli anni, un anno fa Daniel Ortega riguadagna la presidenza in modo ambiguo. Si lega alla destra che aveva combattuto. Alle spalle, alleato ombra, il cardinale Obando Bravo, nemico feroce negli anni del primo governo sandinista. E’ un Ortega diverso: cancella la democrazia partecipata del dopo rivoluzione. Inaugura un centralismo autocratico che non ammette critiche. Cardenal non ci sta e non tace, ecco che Ortega ripesca nel passato del Nicaragua liberista, destra al governo, la denuncia di un imprenditore Usa: con l’appoggio dei ministri-affaristi al potere vuole trasformare il silenzio di Solentiname in un club vacanze. Cardenal si oppone, lo affronta con parole di fuoco e l’imprenditore lo denuncia “sentendosi offeso nella propria moralità”. Ma i tribunali della destra non se la sentono di mettere in croce un intellettuale gentil e trasparente. La denuncia decade; prescrizione per sempre. Ecco Ortega la resuscita con una legge ad personam e minaccia la galera. Per il momento non c’è riuscito, forse non ne aveva l’intenzione: solo un avviso (che in Italia diventa mafioso) per chiudergli la bocca.