Niente male per un paese civile: in meno di quattro giorni quasi tre donne sono state uccise dentro le mura domestiche. Lunedì scorso Shahnaz Begum, pakistana, veniva massacrata dal marito perchè difende il diritto della figlia ventenne Nosheen a dire no al matrimonio forzato; ad oggi Nosheen è ricoverata in coma farmacologico per le gravi ferite riportate nell’aggressione del fratello, che voleva sopprimerla in accordo con il padre. Dopo oltre un mese di sospetti, illazioni e morbosità mediatiche lo zio della quindicenne di Avetrana Sarah Scazzi confessa di averla uccisa dopo l’ennesimo rifiuto da parte della ragazzina di sottostare alle sue pressioni sessuali. La madre dell’adolescente apprende la notizia della confessione del familiare in diretta, dalla trasmissione di Rai tre Chi l’ha visto, di fronte a milioni di persone. Sebbene la giornalista abbia proposto di sospendere la diretta questa è andata avanti, e la realtà ha abbondantemente superato la fantasia.
È, sotto molti aspetti, un’escalation impressionante, che ci scaraventa di nuovo di fronte al femminicidio e alla violenza in nome e per conto del senso di possesso maschile delle vite femminili. In entrambi i casi appare evidente il criminale intreccio tra ossequio della tradizione patriarcale e negazione dei diritti inalienabili della persona.
Nella prima tragedia, come sottolineato nell’appello al quale si può aderire al sito dell’associazione Trama di terre di Imola, “c’è un fatto importante: una madre ha cercato di sostenere le ragioni di libertà di sua figlia. Pensiamo sia da questo fatto che possiamo trarre un grande segnale. Moltissime donne migranti guardano alle libertà femminili, conquistate con lotte durissime, con speranza e come ad una grande opportunità: le giovani, ma non solo, sperano e sognano di poter studiare, lavorare, non sottostare alle violenze patriarcali e religiose, di scegliere liberamente se e quando diventare mogli e madri. Per molte di loro vivere in Italia sotto una pesante tradizione significa perdere quei diritti che in alcuni dei loro Paesi di origine sono ormai legge. A chi oggi prenderà spunto da questo drammatico episodio per rilanciare la crociata contro la migrazione, colpendo indiscriminatamente tutta la comunità migrante, diciamo che questa non è la strada giusta, che è razzismo. Vogliamo vivere in un Paese accogliente, capace di aiutare chi è più vulnerabile e dove la cittadinanza sia un diritto per chiunque, a prescindere dalla provenienza geografica. A chi invocherà la doppia morale sostenendo che la tradizione va sempre rispettata, che le culture diverse vanno tutte seguite senza alcuna critica (e che per questo non è legittimo intervenire in faccende “private” quando ci sono conflitti che riguardano le scelte delle donne nelle famiglie) diciamo che né la tradizione né la religione possono diventare un’arma mortale contro chicchessia”.
Della vicenda tutta italiana, consumata in una “normale” famiglia dove il “mostro” è il parente stretto che piange in tv dopo il (finto) ritrovamento del cellulare della nipote spicca, oltre all’inquietante e quasi consueto epilogo quando si tratta di adolescenti, il ruolo del mezzo televisivo nella narrazione di questa tra le ormai numerose tragedie familiari annunciate.
Come sottolinea Antonella Beccaria, accanto al ‘mostro’ in carne e ossa ce n’è un altro: la realtà virtuale resa troppo più reale dell’esistenza vera attraverso la forza e la violenza della televisione. Non è cosa recente: già Pier Paolo Pasolini, con straordinaria e profetica preveggenza, aveva capito che la televisione avrebbe operato una mutazione antropologica in Italia, poi realizzatasi grazie al dominio totalitario delle tv berlusconiane. Corrono alla mente film come Videodrome o il più recente Live, nei quali la democrazia, prima ancora che finire per un processo politico anche violento, fallisce perché è la dittatura della tv a decidere per la gente. Non c’è limite, etica, deontologia, a segnare il confine tra il lecito e il non lecito. C’è solo la legge dell’audience. Quello che il popolo (si ritiene) vuole glielo si dà. E quindi l’annuncio di morte arriva in diretta. Dall’altra parte dello schermo persino la famiglia della vittima è pietrificata, nessuno ferma quello che comunque è uno show, perché tutto quello che sta in tv lo diventa di fatto, macinato dal meccanismo consumato dell’assuefazione a tutto: morte, guerra, violenza, pornografia. Ma, prima di arrivare a questo, c’è la vita delle persone coinvolte fatta a pezzi dai media: come stupirsi poi delle code in attesa ai tribunali per vedere da vicino i vari mostri delle vicende sanguinose, come fossero rock star? Come stupirsi se i modelli per giovani e meno giovani in questo paese sono i corpi incorporei che si muovono, o urlano, o piangono, o sghignazzano dall’elettrodomestico che ha ormai sostituito la piazza, la parola scritta, il dialogo occhi negli occhi? Come è possibile che nessuno dica basta, che non si interrompa nemmeno per pietas lo show?