se ogni cosa sulla Terra fosse razionale, non accadrebbe nulla
- Fedor Michailovich Dostoevski -
(traduzioni)
IL GIOCO DELLE VACANZE
Ogni settimana pubblicheremo e firmeremo l'intervento pi affascinante componendo un'opera dall'architettura curiosa, scritta da persone che non si parlano e non si conoscono.
Il romanzo collettivo verr presentato in ottobre a Cuneo nella settimana di "Scrittori in Citt", manifestazione alla quale ogni anno partecipano narratori e saggisti di ogni parte del mondo.
GLI INTERVENTI NON DEVONO SUPERARE 3600 BATTUTE.
I VOSTRI RACCONTI D'ESTATE
IL GIOCO DELLE VACANZE
Tra tutte le proposte arrivate alla redazione, stata scelta quella di Gabriella Antonelli di Pescara.
Come si diventa Dacia Maraini: dalla prigione del Giappone in guerra alla telefonata di Alberto Moravia
Paura, ha sempre avuto paura: di una morte drammatica o del silenzio. L’angoscia l’ha resa taciturna; chiusa verso gli altri. Se n’è liberata e i sogni sono cambiati. Prima immaginava di “morire per gli aerei che inseguono la gente come falchi. Talmente bassi che le ali sfiorano i capelli e la mitraglia scoppia vicino”. In Bagheria, un libro lontano, Dacia Maraini ricorda come ha imparato nel Giappone di guerra, a distinguere il sibilo delle bombe buone dal sibilo delle bombe cattive. Erano gli americani a buttarle giù attorno al “suo” campo di concentramento. “Ma dalle bombe riuscivamo a difendercI, dai guardiani no. Obbligavano mio padre e gli altri prigionieri italiani, a scavare rifugi nel giardino. Una pena. Uomini sfiniti dalla fame che rivoltavano la terra giorno e notte. Ma era un buon nascondiglio, mi sentivo protetta. E poi c’erano le sirene ad annunciare i bombardieri che stavano per arrivare”. I terremoti non li annunciava nessuno: lampi improvvisi. “Una parete comincia a cadermi addosso. E mia madre prende al volo Toni, la sorella piccola: una scossa l’aveva spinta fuori dalla finestra. Ancora adesso se nell’aria passa qualcosa di strano, alzo gli occhi e guardo il lampadario. Paura che si muova, paura che non è andata via”. Il terzo fantasma dell’infanzia è la fame. Gli occhi della Maraini ridono con tenerezza della bambina che sta raccontando: Dacia, sbarcata in Sicilia quando la guerra finisce. “Per anni ho nascosto il pane, come i cani. In fondo ai cassetti seppellivo zollette di zucchero che ritrovavo coperte di formiche. E po bocconi di marzapane avvolti nei giornali con l’idea di andarli a prendere quando non c’era niente da mangiare”. Spiega come il padre e la madre, cosi’giovani da sembrare ragazzi, cercassero di imbrogliare il digiuno ricordando i piaceri perduti dietro i reticolati del lager giapponese. Parlavano di cibo dal mattino alla sera: “E la pasta alle melanzane che si mangiava a Palermo? fettine nere, lucide, sommerse da pomodoro dolce…”. La dieta era la dieta di ogni prigione. Una scodella di riso, ogni tanto una rapa. “Mi ritrovavo talmente denutrita che i tessuti avevano perso elasticita . Se premevo forte su gambe o braccia, si aprivano ferite. Quattordici prigionieri chiusi in una casa circondata da filo spinato. Odio ancora la crudeltà dei guardiani. Mangiavano arance e facevano cadere le bucce davanti ai nostri occhi. Le seppellivano per evitare che frugassimo fra gli avanzi del loro pranzo. Eravamo in quattordici, anche un prete: quattordici italiani che non volevano obbedire alla Repubblica di Salò. Mia madre, la sola donna, e poi tre bambine. Raccontava per anni come gli uomini affamati guardassero Toni, pallida e paffuta, con ossessione cannibalesca. Di notte sentivo la borbottare. Riferiva al papà degli sguardi degli altri prigionieri. E papà la calmava, ridendo piano. ‘Come finirà?’. ‘Speriamo che i nostri padroni perdano.Ma in fretta altrimenti le bambine non ce la fanno’. Ogni tanto chiedevano ai prigionieri se fossero disposti a giurare fedelta’al Patto d’Acciaio: Roma-Berlino-Tokyo. Rispondevano che non erano disposti. E per punire l’insolenza ci lasciavano a pane e acqua. Una volta sembrava davvero finita, allora mio padre si è inventato qualcosa. Ha chiesto di disinfettare il filo di un’accetta che serviva a riordinare il giardino. Ed ha affrontato i carcerieri. Sotto i loro occhi si è amputato due falangi del mignolo sinistro. La mamma gridava, papà ordinava di tacere. Aveva compiuto un yubi kiri, gesto rituale col quale la persona che vuol dimostrare di essere vittima di un torto ma non è in grado di difendersi, coinvolge nella colpa gli oppressori. Uno dei guardiani è svenuto. Un altro, capito il gioco, si è arrabiato ed ha preso a calci il prigioniero che sanguinava. Ma il capo conosceva la regola che la tradizione impone: sapeva di doverci qualcosa. Ha chiamato il medico. Ha fatto sapere che la punizione era stata rinviata ed ecco le parole magiche . Topazia, mia madre, avrebbe avuto una capra: il latte per le bambine”… Come è arrivata in Giappone? “La storia è lunga”. E la storia di Fosco Maraini, figlio di uno scultore presidente della Biennale di Venezia. Se il padre era fascista, Fosco non lo eera . Nella casa di Fiesole dove Dacia è appena nata, ogni venerdì pomeriggio riceve amici sgraditi al regime. Specialmente tre giovani fisici, collaboratori di Fermi. Le lettere degli sposi ragazzi, fuori regola per Mussolini, vengono aperte dalle dita di qualche polizia segreta. Sentono d’essere spiati. “Un giorno il padre allunga a Fosco qualcosa. Un regalo: la tessera del partito fascista. Fosco la strappa e rompe con la famiglia. Per fortuna vince la borsa di studio di antropologia di una università giapponese. Si imbarcano nel ’38. Appena arrivati nasce l’altra bambina: Yuki, vuol dire neve. “A Sapporo c’era tanta neve da costringerci ad uscire dalla finestra…” . Ricordo fedele o riflesso che l’infanzia ingigantisce? “Nevicate cosi’non ne ho viste più. E poi la slitta e papà che correva sugli sci. Facevamo il bagno tutti assieme, c’era anche Tata Marioka, la governante. Quando ci hanno trascinate nel campo di concentramento, Marioka è venuta a trovarci. L’hanno bastonata, ma lei insisteva: voleva vederci. L’ho ritrovata tanti anni fa. Dirigeva un ostello per la gioventù. Dopo la guerra, nell’austerità del collegio delle Poggioline di Firenze, scandalizzavo le insegnanti col racconto della vita in Giappone. Tre bambine e i genitori immersi nella stessa vasca! Ci proibivano di parlare perfino di soldi e di piedi. Figuriamoci il racconto delle nudità”. . Com’è cominciata la prigionia? “Dopo l’8 settembre ’43, un mattino ci siamo svegliati con la polizia che circondava la casa. Dovevamo decidere se aderire alla repubb lica di Salò.. Mamma raccontava: “Ci hanno dato mezz’ora di tempo” ma assieme a papà ha subito risposto: “Non ci stiamo”. Allora prigionieri in casa per sette giorni. E lei intristiva. Per consolarla andavo a raccogliere l’erba cedrina: ne adorava il profumo. Ne ho sempre un vaso sulla terrazza. Perchè i profumi sono parte importante della mia vita. Guardo qualcosa e penso: sa di cioccolata, di gelsomino, di caffè . Se papà tornava da fughe interminabili, annusavo le sue tasche: tabacco o magari i profumi delle donne che si innamoravano di lui. E una storia ripetuta: fino a una certa età ne sono stata innamorata. Non mi trattava come una bambina, ero un compagno di barca, di gite in montagna. Tornavo disfatta, gonfia di sole, febbre alta. Mamma si arrabbiava: ‘Non puoi…’, e io la odiavo per l’intrusione, ma col passare del tempo ho capito. Quando papà se n’è andato senza tornare, mamma è rimasta. Lei doveva, lei faceva. I suoi odori erano gli odori banali di casa, minestre e letti disfatti. Ma era attorno a lei che cresceva la famiglia, in poverta’. Siamo sempre stati sognatori affamati”. Il primo campo della prigionia giapponese si chiamava Nagoja, non lontano da Hiroshima. Poi la casa è crollata: un po’ il terremoto, un po’ le bombe. Vi hanno portate via… “Il nuovo posto era Tempoku, un tempio. C’erano due bonzi: il bonzo giovane aveva delle figlie. Ho ritrovato Keiko, la mia compagna di giochi. A Tempoku eravamo quasi liberi. C’era un giardino e Keiko mi insegnava a a scivolare sotto la rete: scappavo nei campi. Andavo ad aiutare i contadini a raccogliere pomodori o patate. E mi pagavano con pomodori e patate. Le cuocevamo di nascosto. Le dividevamo in quattordici parti con solennita’. Ma negli ultimi mesi di guerra la fame era per tutti. Frugavo la terra per trovare le formiche: Keiko le mangiava, le mangiavo anch’io. Gli uomini catturavano piccoli serpenti. “Un mattino del ‘45 i guardiani sono spariti. Liberi, dunque, ma bisognava che gli americani ci trovassero. Con gli stracci abbiamo messo assieme una bandiera tricolore da stendere sulle pietre della collina. E un ricognitore finalmente si è abbassato. Il giorno dopo hanno paracadutato pacchi con dentro le cose sognate negli anni duri. Si spaccavano, cadendo, e noi a raccogliere, fra i sassi, latte in polvere, zucchero in piccole scatole marroni, tanta cioccolata. Bisognava mangiarne poco: il nostro stomaco non sopportava quel ben di Dio…”. Poi Dacia e le sue sorelle vanno a Nagoya, poi a Tokyo. Il padre fa l’interprete, la madre l’ esperta dell’ufficio americano che compra opere d’arte. Anche i giapponesi hanno fame e vendono giade, lacche, avori. Nel ’47 tornano a casa. Sulla nave Dacia scopre il gelato. Attraversano il canale di Panama, attraccano a Le Havre. Quando arriva a Firenze corre nel bellissimo giardino del nonno, ma il nonno non le piace: “Sei brutta. Occhi gonfi: tua nonna era bella…”. Tacevo, anche perchè cosa potevo rispondere nel mio italiano di poche parole? Parlavo giapponese e inglese. Purtroppo il giapponese non lo ricordo più”. L’arrivo a Bagheria è fantastico. Il nonno materno, Enrico Alliata, duca di Salaparuta, era stato discepolo di Steiner fondatore dell’antroposofia. Per assorbirne l’insegnamento aveva vissuto in Svizzera. Ma sapeva far bene anche il vino. E tra gli inventori del Corvo, appunto, di Salaparuta. La nonna le sembra strana. “Entrava in scena come una cantante. Eternamente vestita per una recita che le era negata. Figlia dell’ambasciatore cileno a Parigi, aveva studiato da soprano alla Scala, ma il matrimonio col duca le aveva impedito di calpestare le scene. Non per il nonno, lui l’avrebbe lasciata fare. Ma quello che allora si chiamava “il nostro ambiente” non lo permetteva. Le era rimasta una insoddisfazione che nè le figlie, nè la famiglia avevano placato. Parlava italiano come se fosse sbarcata in Sicilia qualche mese prima. Guai contrariarla. Si rotolava a terra sconvolta da crisi famose. Forse la nonna merita un libro…”. Da Bagheria a Palermo e poi Roma: diventa la storia di una normale giovinezza con il piacere del racconto. Scrive il primo libro, “La vacanza” e Roberto Lerici, l’editore, le dice: mi piace, glielo pubblico se mi porta una prefazione di Alberto Moravia. Dacia va da Moravia. Quattro parole, come succede tra uno scrittore famoso e la ragazza che comincia. Qualche giorno dopo suona il telefono. “Dacia, è Moravia”, grida il marito dal corridoio. Il marito è Lucio Pozzi, fa il pittore. Quando si è sposata, la suocera, Ida Borletti, ha organizzato una festa medioevale nella villa del Garda. Ma i giorni belli sono ormai finiti: stanno per lasciarsi. La Maraini si emoziona mentre Moravia le parla: “L’ho letto. E bello. Ancora ingenuo ma con dentro una forza”. Amore e scrittura cominciano così.
[Fosco Maraini, grande orientalista, è morto qualche anno fa. La seconda moglie era giapponese. Topazia, madre di Dacia, vive a Roma: ha quasi 100 anni. Moravia e la Maraini si sono lasciati dopo una straordinaria convivenza. Dacia non smette di scrivere. Romanzi che affascinano migliaia di lettori. Ha vinto Strega, Campiello e tanti premi che non l’hanno distratta dall’impegno sociale, l’altra vocazione dopo la letteratura forse ispirata dalla madre che ha accompagnato la “rivoluzione” siciliana di Danilo Dolci]
Colpo grosso al ristorante: a cena ti rubo un brevetto
Chissà perché non avvalersi di organi preposti, come le forze di polizia. È una domanda che si incontra spesso chiacchierando con gli investigatori privati. E la risposta che altrettanto spesso arriva è quasi sempre la stessa, riassumibile in una parola: discrezionalità. Discreto Ferruccio, detective di lungo corso con sede a Firenze, lo è sempre stato. Non ha un sito Internet e, massima concessione alla tecnologia che si fa per le comunicazioni formali, è un indirizzo di posta elettronica di quelli che se ne trovano a migliaia, con il “pezzo” che viene dopo la “chiocciola” di un qualunque provider nazionale.
Lavorando, fin dall’inizio, però Ferruccio della tecnologia ha fatto pieno uso. Da lui sono passati, nel corso dei decenni, sbirri, qualche barba finta ma soprattutto badilate di colleghi per sapere quali fossero gli ultimi ritrovati per registrare in modo discreto. Così, a metà degli anni Ottanta – ricorda Ferruccio – ecco che gli si presenta un americano. Uno dei tanti che popolano la città di Lorenzo il Magnifico, attratti da una “fama che è più nella loro testa che reale”, dice lo stesso investigatore.
I fatti si sono svolti in questo modo. Ecco che arriva il cliente in questione. Fa il consulente per un’azienda che progetta valvole petrolifere. Lo fa da casa e poi viaggia tanto per andare a discutere disegni, aggiustamenti, passaggi in produzione. E che c’entra Ferruccio? Inizia a c’entrare quando l’americano si convince che un concorrente gli ha rubato un progetto.
Dopo una riunione di lavoro dall’altra parte del Mediterraneo, quella che oggi brucia di fremiti di rinnovamento ma anche di repressioni, quella dove si fanno gli affari migliori per quanto riguarda l’oro nero. In poche parole, l’americano doveva concludere un grosso contratto, ma alla firma si ritrova disarcionato da qualcuno a cui non viene dato un nome, ma che ha avuto la sua stessa idea, in fatto di sistemi di avvitamento.
Ferruccio non riesce a essere più tecnico in fatto di valvole e neanche fa nulla per nascondere che di questo argomento gli frega alcunché. Però deve capire se è vero che l’americano è stato scippato del suo progetto oppure se, per una coincidenza micidiale (affaristicamente parlando, s’intende), ha avuto la stessa idea di un concorrente meno esoso, quando si tratta di staccare parcelle.
“Il punto da cui partivo”, racconta Ferruccio, “era un incontro che l’americano aveva avuto all’aeroporto di Fiumicino in attesa di partire per non ricordo più dove. Fatto sta che incrocia in sala d’aspetto un tizio che aveva già visto a un convegno di settore. I due si mettono a parlare, il volo Pan Am continua a rimorchiare un ritardo via via crescente e la coppia di colleghi si trasferisce nel bar dello scalo dove ci dà un po’ dentro con i biccherini. Fatto sta che galeotta fu un’urgenza fisiologica”.
“Mi guarda lei la borsa?” chiede l’americano al tizio incrociato. Il quale, ovviamente, si premura di accontarlo, non perderà d’occhio la valigetta. E fin qua non succede nient’altro. Non troppo tempo dopo i passeggeri del volo vengono chiamati e arrivederci, grazie e alla prossima.
Ferruccio parte dall’identità di questo personaggio e seguendo le sue mosse risale a un incontro con un intermediario siciliano, di Messina. Il sospetto che, mentre l’americano rispondeva alla natura nella toilette dell’aeroporto, in qualche modo il suo interlocutore abbia copiato i progetti custoditi nella borsa e poi se li sia rivenduto. I problemi per capire se fosse vero erano molteplici: l’aveva fatto davvero? Come? A chi aveva venduto?
Scartabella un po’ sulle conoscenze dell’intermediario siciliano e Ferruccio scopre che i due hanno una conoscenza in comune: un giornalista milanese che collabora con riviste di settore. Allora gli fa squillare il telefono e gli propone a sua volta un ingaggio: deve fingere un’intervista, metterlo a suo agio e poi fargli cantare tutto il cantabile. Il giornalista accetta di buon grado, visto che si intascherà un milione di lire dell’epoca tondo tondo, con cui vedersi ricompensato il suo disturbo e la spesa della cena a cui deve invitare l’intermediario. Che, vistosi proporre il rendez vous con la stampa specialistica, accetta di buon grado l’incontro.
Prima di partire, il giornalista si fa corazzare con un microfono di quelli che ai tempi, quasi trent’anni fa, si vendevano solo negli States: un sistema di registrazione miniaturizzato che indice un micronastro e che ha due ore d’autonomia. “Roba da film”, ridacchia Ferruccio. E vai a sapere se è proprio vero che quell’aggeggino ce l’avevano in pochi, ai tempi. La sera dell’incontro, fissato in un esclusivo ristorante tipico di Messina, il detective rimane tutta la sera attaccato al telefono, in attesa di comunicazioni dalla Sicilia. Passano le ore e niente, nessuna nuova. Il che lo innervosisce, dato che non riesce a capire perché il giornalista non si fa sentire.
Il trillo del telefono arriverà solo all’una di notte. “C’è voluto un po’”, dice l’uomo-esca di Ferruccio, “all’inizio non voleva saperne di sbottonarsi sull’affarone appena concluso. Ma poi, al quarto bicchiere di rosso, s’è lasciato andare e ha iniziato a raccontare tutto. Ha parlato del tizio che il tuo cliente ha incontrato, di fotografie che gli ha mostrato e di progetti nuovi che sono arrivati nel giro di qualche giorno. Sì, si è venduto la roba del tuo americano”.
“Ma sei sicuro che il registratore ha fatto il suo dovere? Che c’è tutto inciso?”
“E che ne so? Mi hai dato il registratore, non le cuffie per ascoltare. E poi il mio lavoro l’ho fatto. Domani arrivo a Firenze, ti lascio il tuo nastro, tu lo ascolti e se c’è tutto mi paghi. Dopodiché ci si risente al prossimo servizio che ti serve”.
Così è andata. L’americano ha avuto la sua prova dello spionaggio industriale e della vendita clandestina del suo progetto. Ha contattato l’azienda acquirente riuscendo a dimostrare la non cristallinità dell’affare appena concluso e ha mandato all’aria la precedente transazione. Vuoi mai che ne seguisse qualche rogna legale.
“E tu, Ferruccio, quanto ci hai guadagnato da questo lavoro? Sai, parlando di petrolio, valvole e impianti, magari ti sei portato a casa un cachet interessante…”
“A te lo dico? No, no, sto zitto sulla cifra. Ma ti dico solo una cosa: quando ho consegnato il nastro, sono andato due settimane in vacanza di Costa Azzurra. Fino a quel momento non me l’ero mai potuto permettere”.
Come sono diventato Garcia Marquez. “Ascoltavo la nonna quando parlava ai morti”
Di Cartagena posso raccontare la morbidezza del barocco, le ragazze che sorridono per strada e i venditori ambulanti dei libri di Gabriel Garcia Marquez, quasi sempre copie pirata che mandano in bestia lo scrittore. Posso ricordare il profumo d’aglio dei “patacones”, frittelle di platano famose come la pizza. E gli spaghetti dei ristoranti siciliani stesi sul mare e quasi sempre vuoti. Come riusciranno a tirare avanti gli elegantissimi signori dietro la cassa, chissà perché in avventura nella patria della coca? Ma non è il viaggio di un giornalista immerso nel fascino problematico dei Caraibi. Sono qui a far da spalla a Garcia Marquez che spiega a giovani giornalisti cosa non si deve fare per diventare comunicatori normali e non alla corda di qualcuno.
Ecco il ballo dell’ultima sera: il corso è finito. Dieci ragazzi hanno concluso l’inchiesta nella quale li ha guidati un capo cronista laureato dal Nobel. Con accanto due vice: uno spagnolo di El Pais, un italiano del Corriere della Sera. Insomma, c’ero anch’io. Avevamo conosciuto Garcia Marquez nell’occasione di una intervista. Ho scoperto mesi dopo che le mie domande gli erano sembrate “ripetitive ed uguali a milioni di altre domande”. I suoi brontolii da orso buono non hanno spiegato perché ci ha poi chiamati a dargli una mano nel seminario che regalava ai ragazzi innamorati del mestiere. Il seminario è finito, Gabo sta ballando con una fanciulla sottile dagli occhi sempre accesi: Laura Cardenas Muñoz. 28 anni, cronista dell'”Universal”. La sua inchiesta ha ricevuto i complimenti di tutti. La tiene per mano nel piccolo ristorante sotto le mura spagnole. Laura continua a sorridere. Gli si rivolge sottovoce come un’educanda. “Maestro…” Gabo mi guarda con imbarazzo. “In Colombia ogni giovane giornalista chiama così il redattore capo al quale si rivolge…” Dietro il separè di paglia un’orchestrina distribuisce languori, lentissimo cha cha cha.
I quindici giorni a Cartagena raccolgono tante storie. Le ho ascoltate soprattutto al mattino nella terrazza di Garcia Marquez, chiacchiere della prima colazione. Un po’ incantato, un po’ arrabbiato: il padrone di casa non rispondeva alle domande. Il suo racconto continuava ignorando le voci di chi voleva sapere, chi non capiva, chi chiedeva di più.
Gli scrittori raccontano sempre un viaggio. Viaggio dentro o viaggio fuori. I viaggi più belli di Gabo non sono mai usciti dalla famiglia. Ecco perché si innervosisce nel parlarne quando beviamo il primo caffè lontani dal soffio del condizionatore. Non gli piace il “freddo chiuso”. Preferisce la terrazza; aria immobile del mattino che soffoca la laguna. Nella cornice barocca della colonia ha messo in scena le storie di chi l’hanno aiutato a crescere. Le ha sepolte nei libri e non vuole mescolarle con “la piccola biografia di un ragazzo diventato scrittore”. “Chi sa tutto è mia cugina Margarita, memoria della stirpe…”. Margarita Baidesblankes vive ad Arataca (ufficialmente ribatezzata Macondo con decreto del presidente della repubblica colombiana: è la prima volta nella storia della letteratura che un paesino cambia nome per ufficializzare l’invenzione di uno scrittore amato). Una sera è seduta al nostro tavolo. Piccola, capelli ispidi, lenti come fondi di bottiglia. Sa di essere la storica designata “da un premio Nobel” a raccontare come Gabo è diventato uno degli scrittori più amati di qua e di la dal mare che divide il vecchio e il nuovo mondo. Lo ripete sorridendo ma appena sfoglia il quaderno degli appunti fa sul serio e Gabo scuote la testa per nasconderela vanità.
Il colonnello Nicolas Ricardo Marquez era stato informato delle nozze segrete della figlia unica: Luisa aspettava un bambino. “Voglio che nasca nella mia casa. Deve crescere con me ad Aracataca…” E ad Aracataca il 6 marzo 1928 viene al mondo Gabriel Josè. “I miei genitori gli hanno fatto da padrini”, inorgoglisce Margarita. “Nessuno lo ha mai chiamato Gabriel Josè. ‘Gabo’, diceva il nonno. ‘Gabito’, la nonna che parlava con i morti”. Racconta con la felicità di chi si sente qualcosa più di una cugina. Mentre Margarita attraversa il passato guardo le finestre dell’albergo Santa Clara, pochi metri in là. Signora bionda in accappatoio asciuga i capelli tirandosi le guance davanti allo specchio. Il bagliore della televisione illumina altre finestre. Un bambino sta gridando qualcosa. Pochi metri dividono mondi più lontani della luna.
Prima che Margarita continui a ricordare devo chiedere qualcosa. “La nonna parlava con i morti?” Vengo da lontano, mi è difficile capire. “Siamo in Colombia, non in Europa, caro signore. La magia è l’altra faccia della vita dove ogni giorno si specchiano”. Apre il giornale. “Legga qui”. Notizia di poche righe. Appello della signora Anselma Calderon Gaviria: “Mio padre è un vecchio dispettoso. Deve aver fatto uno sgarbo a qualcuno che gli ha dato l’incantesimo trasformandolo in un cane spelacchiato. Per favore, se incontrate questo cane randagio, bianco pezzato di nero, non sparategli. Spero possa riprendere forme umane e tornare a casa. Offro ricompensa a chi dà notizie: dove e quando ha visto il cane che adesso descrivo con precisione…” Nessun commento della redazione. “Possibile che i giornalisti abbiano preso sul serio la povera donna?” “La prendono sul serio perché ogni giorno ricevono lettere così”.
Margarita si emoziona nel ricordo del patriarca: “Il colonnello era tesoriere del municipio di Aracataca, ma l’aver partecipato alla guerra ‘dei mille giorni’ lo aveva trasformato nel patriarca, nel filosofo, nel saggio al quale la gente chiedeva consiglio. Dalla moglie Tranquilla, detta Mina, aveva avuto due ragazze e un maschio, ma non era un segreto che Nicolas Ricardo Marquez seminasse bambini fuori dal matrimonio, uno per ogni strada di Aracataca. Quasi cinquanta. La moglie si consolava discorrendo con le anime dei trapassati e, chi aveva sepolto un amore, andava a consolarsi da lei. Gabo è cresciuto in questa casa. Due vecchi strani nella loro magia e un bambino solo, mai coccolato, ma tanto ‘ considerato’. A otto anni parlava come un uomo. Si incantava ad osservare il nonno che trasformava piccole monete d’oro, in ciondoli e orecchini da distribuire in famiglia. Lavorava ogni pomeriggio perché era una famiglia grande: mezzo paese. Gabo passava ore a spiarne i gesti pazienti. Modellava l’oro impugnando una lente da collezionista di francobolli quando gli occhi cominciavano a stancarsi. Credo sia nata in quell’infanzia la pignoleria che ossessiona Gabo quando scrive e rilegge”.
Chi evoca la storia degli anni segreti di Garcia Marquez lega ogni piccolo episodio a un nome e a un cognome. Il nome della compagna di scuola, mano nella mano verso le prime classi del collegio Montessori di Aracataca, è Nora Fergunson. Adesso soffice signora. “Per favore Margarita, fagliela incontrare. Gli italiani sono amici bravi, ma rompono le scatole. Non voglio mi tormentino…” Gentilezza ruvida di Gabo. Sa che a Nora piace ricordare. “Non sono stata il suo primo amore. Il suo primo amore era la nostra maestra, Elena Fergunson, mia zia. Ogni mattina passavamo dalla casa del colonnello. Gabo ci aspettava sulla porta…” Una mano alla bambina, l’altra alla maestra: tremava per l’emozione. Elena aveva 24 anni e non era una bellezza, ma per Gabo rappresentava il mistero della femminilità mentre si affacciava dal buio dell’infanzia. “Forse è come dice lei…” Gabo prova a essere spiritoso mentre giro il registratore per fargli ascoltare la fine della confessione di Nora. Non vuole ammettere l’amore per la maestra. A più di 80 anni resiste la timidezza.
Come mai Aracataca, posto che ha segnato per sempre-polvere e misteri-la fantasia di milioni di lettori, è diventato Macondo? “Quando facevo il giornalista a Barranquilla viaggiavo come si viaggiava allora: treno, corriera. La sola cosa che cercavo nella vita era di essere scrittore e volevo diventarlo. Una volta il treno si è fermato in una stazione senza case attorno. E quando riprende il cammino attraversa un’immensa fattoria bananiera, la più imponente mai incontrata, feudo Standard Fruit, Usa. Il nome era scritto sul portale d’ingresso: Macondo. Sfogliando l’enciclopedia scopro che è il nome di una pianta. Non produce ne fiori ne frutti. Solo il tronco va bene per costruire canoe o scolpire le insegne dei posti dove si mangia. Non mi importava dei fiori o del legno. Il nome mi piaceva: rotondo, compatto. Ho cominciato ad usarlo in qualche racconto, e dovendo ribattezzare Aracataca, mi è sembrato il nome giusto”.
La vita privata di Garcia Marquez non è mai uscita da questa e dalle altre terrazze delle case che abita. Mai chiacchiere. Mercedes è una moglie nell’ombra: non appare negli incontri pubblici se non gli incontri solenni di quando Cartagena ha festeggiato i 50 anni di “Cento anni di solitudine”. Chissà cos’ha pensato lo scrittore della confusione dei numeri. Li ho visti per mano in tv. Lei seria come a un funerale, Gabo che sorride come chi non sa se ringraziare o querelare. La loro vita si è fatta ancora più nascosta dopo la malattia che lo ha invecchiato.
Mercedes ha sposato Gabo quasi 60 anni fa. Si veste solo di bianco. E scioglie il bianco in ogni stanza: moquette, pareti, librerie. Nella casa di Bogotà, nella casa di Cuernevaca, Messico, dove Gabo era scappato, minacciato dai califfi della “Violencia” colombiana. Bianca anche la casa di Cartagena quasi appoggiata al monastero di Santa Clara, teatro dell’ultimo romanzo barocco del premio Nobel: quella novizia morta adolescente nei giorni della peste ma i suoi capelli continuano ad allungarsi un secolo dopo l’altro. Sono andato a passeggiare nei portici del convento diventato l’albergo che sovrasta la terrazza delle nostre prime colazioni. Qui hanno girato le scene del il film “L’amore ai tempi del colera”, il solo romanzo che Gabo sente davvero suo, storia del padre telegrafista: incontra la ragazza che corteggia di nascosto battendo i tasti del telegrafo. Il Santa Clara affitta camere con prezzi diversi. Le finestre affacciate sulla terrazza dove facciamo colazione costano 30 dollari in più. Un depliant invita ad alzarsi di buon’ora.
“Alle 7 del mattino lo scrittore già lavora…” E lo scrittore si difende con siepi verdi e tende che sembrano muraglie. “Se all’improvviso si alza il vento e le porta via, i curiosi scoprono un signore che volta le spalle alla loro curiosità per discorrere con due sconosciuti nascosti dietro occhiali neri, facce pallide e sudate, pesci d’aria condizionata che non amano l’umidità della laguna. Vorrebbero far colazione nel soffio fresco che fa male al padrone di casa. E si costringono a sorridergli quando vorrebbero prenderlo a calci”. Il giorno comincia con questa risata.
Come si diventa Gianna Nannini: “Prendi il rock e scappa”
Il prinmo incontro di qualche anno fa. Molto prima del pancione, prima di diventare la madre che canta per il suo bambino. Gianna Nannini sembrava diversa dalla “la mia vita è come un rock”. Non somigliava agli idoli dannati ai quali rivolgere domande tipo: “Come hai fatto a smettere con la coca?” Aveva un’altra storia. E con buona pace del libro dichiarazione d’amore di Barbara Alberti, restava lontana dall’immagine dei rotocalchi: “Una voce di carta vetrata, gonfia di forza e tenerezza…”
La voce di carta vetrata si accarezza i piedi dentro una poltrona. Sorride alla ragazza che la accompagna nella poltrona accanto. E racconta la storia di una adolescente che scappa. Dalla sua città, Siena. Dalla famiglia, famosi pasticcieri Nannini (panforti, ricciarelli). “Ho cominciato ad andar via quand’ero bambina. Avevo cinque anni. Abitavamo a Siena; un appartamento a San Prospero. Camminavo mezzo chilometro per comprare le figurine. Alla fine, soddisfatta: ce l’avevo fatta”.
E a casa… “A casa non se ne fregava nessuno. Tutti in pasticceria. Sono nata con la crema addosso, cresciuta in un profumo di burro e zabaglione. Non andavo ancora a scuola e mi hanno messa al lavoro, in piedi, sulla scaletta, grembiule bianco. Mettevo strisce di pasta sulle crostate. Zig, zag; mi piaceva”. Riassumo qualche capitolo di una fuga che il tempo ha reso meno precipitosa: a scuola, fuori dal coro. Niente Fratelli d’Italia, troppo stonata. Di fratelli ne ha due: Guido e Alessandro. Non si consumano sui libri. Il padre li manda in collegio; perfino in Svizzera.
“A papà la Svizzera è sempre piaciuta: i fiori alle finestre, ordine e tutti che lavorano. Era fissato con lo studio delle lingue. Lui laureato in economia, lui guardava lontano. Voleva programmare i figli come macchine per l’azienda. Ed è rimasto solo, una punizione cercata. Ci ha parlato troppo di paste. Alessandro correva e commercia in caffè; Guido si è messo con le macchine. Io sono qua. Povero Nannini, perché nell’azienda o sei sempre li, o vai in malora. Lui ci deve stare, non è come quando alla Fiat c’erano gli Agnelli con centomila operai. Pensare che ha tirato come un matto: dai negozi alla fabbrica. Ma il culo, diciamo la verità, se l’erano fatto i nonni… Sento ancora l’odore della nonna. La nonna della Maremma. In fondo ho sempre cantato per lei. Un odore che ritrovo nei posti dove è passata. Profumo di vecchi vestiti, forse il respiro della pelle di una donna bella, alta, grossa; forse il legno dei suoi mobili che diventavano miei nei mesi di vacanza al mare”.
Al mare si stava bene perché la vacanza è vacanza, e i nonni e gli zii con sangue maremmano le sembravano un pòmatti. Una zia andava a caccia come un uomo e la portava a cantare di nascosto al Salone Margherita di Viareggio “quando il Nannini non voleva”. E i cugini, uno sull’altro, nei letti a castello. Ricordi meravigliosi: “Perché dagli zii si andava a tavola tutti assieme. Nei giorni normali i Nanni non erano proprio una famiglia: Guido in Svizzera, Alessandro in collegio a Siena fino a sera. Tornava e usciva in motorino. Ognuno mangiava per i cazzi suoi. Ma nella casa accanto c’erano i contadini e c’era Lucia, l’amica d’infanzia. Ero sempre li’a mangiare. La cosa che mi colpiva è che tutti i giorni, proprio tutti, si trovavano attorno alla tovaglia a masticare assieme. Tutti pescavano dalla stessa ciotola. Che bello sentirsi a casa così. Come dalla nonna…”
Figurarsi se la famiglia Nannini non si raccoglieva intorno alla stessa tovaglia…” Succedeva quando c’era gente. E di gente ce n’era spesso. Due volte la settimana arrivava l’Anconetani da Pisa. Romeo, il presidente della squadra di pallone. Lui e il Nannini, presidente del Siena, non smettevano di parlare: di calcio, di calcio e di calcio. Discorsi fra padroni di squadre. Due palle… E c’erano le feste, e per le feste si stava insieme, magari coi parenti. E si discuteva delle paste. Delle paste non vendute, per esempio.
“Ma guarda la disgrazia: adesso bisogna macinarle per fare la diplomatica” (riaffiora il lessico della pasticceria: la diplomatica è una torta). Oppure tutti contenti: “Hai visto che alle 11 le vetrine erano vuote?”. Discorsi da scappare”. E la mamma? “Non è che si capisce che io ce l’ho con i miei, vero? I miei li amo. Solo che non dovevo arrendermi ai progetti del Nannini o a chi mi diceva: stai buona e torna a casa. Avevo paura di finire risucchiata dal loro affetto mai più libera di diventare come volevo. Terribile avere attorno sempre la stessa gente che soffoca le cose che hai dentro. Cerca di castrarti. Ti frega e sono scappata per non farmi fregare. Non mi si deve fraintendere: a mio padre e a mia madre voglio bene davvero. Adesso che parlo di loro sento un bisogno fisico di vederli. Stanno invecchiando, fanno tenerezza. Ma quando sono arrivata a Milano piuttosto che tornare a Siena sarei andata a far soldi sul marciapiede. Ero sicura di farcela. Volevo cantare”.
E sua madre… “Mia madre mi voleva signorina di buona famiglia. Comprava tailleurini e certi ricami dalle Cirri di Firenze… Una volta, mi ha regalato la minigonna con calzamaglia sotto. Avevo 14 anni, mi aspettavano a una festa. Torno a casa e il babbo vede la minigonna e s’incazza. Due schiaffi alla mamma; piglia le forbici e fa a striscioline la sottana. Allora mi sono messa a giurare: da oggi per sempre i pantaloni”. Però, le hanno permesso di studiare musica: prima solfeggio a Siena, poi conservatorio a Lucca… “Era d’accordo anche il Nannini. A un patto: niente canzonette: Beethoven e basta. E la mamma invitava le amiche per il tè.
“La bambina vi farà sentire qualcosa”. Suonavo per loro. Su quei pomeriggi ci ho scritto su una canzone ( e la comincia a cantare): “Bimba bionda che scende lentamente le scale e la madre che invoca ‘vieni, vieni c’è gente’. Manichini che siedono già comodi: con le mani dietro recito a memoria… Come un angelo! (coro). Diventa rock” . Sempre in pantaloni, sempre contro il Nannini…
“Finito il liceo mi iscrivo a filosofia. Continuo a rimandare ma penso di laurearmi; in ritardo, è vero: nel frattempo ho fatto anche dieci LP… Torniamo alla filosofia: mi affascinava la mentalità complicata dei metafisici tedeschi. Insomma, all’università andavo forte; anche se restava il complesso di essere ricca e mi vergognavo. Frequentavo Lotta Continua, quindi Radio Siena. Un amico che si chiama Gianni mi odiava perché ero figlia del Nannini. Faceva i picchetti davanti alle pasticcerie gridando ‘Le paste del Nannini uccidono i bambini. Il babbo s’incazzava, lui vecchio tipo patriarcale seduto sul suo vecchio mondo dove la donna non conta niente. Discutevamo delle donne che in fabbrica erano pagate meno. Prendevano 2.400 lire all’ora; gli uomini 4.500. Mi arrabbiavo: ‘Non è giusto’. Rispondeva: ‘Ma poi restano incinte…'”
Perché ha fatto l’operaia? “Volevo lavorare dal Sapori per guadagnarmi i soldi e scappare in America. L’America voleva dire libertà, un sogno. Si sogna sempre quando le cose non vanno bene. Quante volte ho sentito dire che l’America risolve un sacco di problemi. Uno scappa e fa la febbre dell’oro. Non potendo scappare volevo andare dal Sapori per far dispetto al Nannini, ma mi sono arresa alla fabbrica di famiglia per mostrargli quanto ero brava. Studiavo e lavoravo. Operaia a duemila e 400 lire l’ora. Avrà pur capito che sua figlia guadagnava poco. Eravamo in tre ed era appena arrivata la macchina per i ricciarelli. Non funzionava bene: le guide erano senza protezione e le teglie si ammucchiavano una sull’altra. Nel tirarle via ho sbagliato e l’ingranaggio, specie di catena da bicicletta, mi ha strappato le falangi. Dolore indescrivibile. Sono caduta. Mi hanno portata all’ospedale. Poi è arrivato il Nannini bianco come un morto, di corsa, da Viareggio. Era successo proprio alla figlia che non era assicurata. Mi hanno dato due milioni come infortunio di famiglia. Li ho messi in banca per scappare a Milano. Un mese dopo, via, ancora minorenne: agosto ’75”.
Come si fa a scappare? “Un giorno si decide: domani parto. Si lascia una lettera: vi ringrazio perché mi avete messa al mondo, ma questa vita è insopportabile, non la posso fare… Credo che il babbo ce l’abbia ancora nel cassetto. Tiene tutto, non butta via niente”. Neanche una telefonata? “Non volevo far sapere dov’ero. Non volevo mi riprendessero. Per dare notizie parlavo con la nonna. Che si preoccupava. A casa pensavano fossi scappata per fare la troia. La nonna raccomandava: ‘Piccinina, tienila da conto’. Ha capito di cosa parlava, vero? Invece Milano è stata la libertà. Sono arrivata con una valigia, dentro quasi niente. Estate, la città sembrava una piazza vuota. Ho preso albergo dove alla sera andavano le puttane, attorno a via Vittorio Emanuele. Costava poco. Poi ho trovato una stanza con due ragazze. L’anno prima ero venuta a trovare Gianni Mescoli per cantare davanti a quelli della Ariston. Il Nannini mi aveva mandato dietro la Lory, una che lavorava nel negozio. Che noia portarmi questo straccio, però con lei facevo tutto. A quelli dell’Ariston sono piaciuta, ma a me non sono piaciuti loro. Dicevano: bisogna tirar su i capelli, ci vogliono vestiti lunghi… Insomma, basta. Così mi sposto al Numero Uno, la casa di Battisti che faceva sognare. Insomma, lì conoscevo qualcuno e nella Milano della clandestinità mi sono rifatta viva. Comincio le serate all’Operetta, canto nei locali alternativi di Porta Ticinese. Subito il contratto della Ricordi. Ma un giorno mi chiamano e mostrano una lettera: il Nannini. Scriveva: ìPer favore, non voglio che mia figlia usi il nostro cognome. Non mi piacciono questi gruppi rock che fanno tardi di notte’. Pazienza, ho pensato: mi chiamerò Gianna”.
Invece si ribella. Sul primo disco c’è scritto Nannini. Si sente libera di tirar mattina. Sgobba e guadagna, compra una macchina e l’appartamento. Resta la bohème. Anni con qualche scivolata. “Ma dopo il buio è tornata la luce”. Ormai gira le piazze. Diventa “la voce etrusca” dei festival dell’Unità attorno a Siena. “I miei continuavano a incazzarsi. Eppure una volta papà è venuto a vedermi di nascosto: c’erano 40 mila persone. Me l’ha confessato dopo. Travestito da Lotta Continua, giubbotto, berretto, per non farsi riconoscere. Te l’immagini se scoprivano che il dottor Nannini era finito in mezzo agli scalmanati in delirio per la figlia…”
Quando vi siete rivisti? “Due anni dopo. Prima al telefono. Veniva a Milano, naturalmente al Gallia, per via dei calciatori. Ormai ce l’avevo fatta. Non avevo paura che mi riportasse indietro. Non con la forza; con la testa. Siamo andati a mangiare alle Colline Pistoiesi, sempre storie di pallone: il Bobo Gori dell’Inter. Abbiamo parlato alla pari. Ormai non dipendevo più dalla famiglia e ho capito che malgrado tutto con mio padre resisteva una certa complicità”.
L’America? “Due viaggi, un disco: California. Non proprio delusa però amo Berlino. Non solo perché è stato il primo successo fuori Italia: a Berlino la vita non finisce mai. Pensare che da piccola volevo scappare in America e per vivere m’ero ricopiata le ricette del Nannini. Spionaggio industriale. Pensavo: vado a New York e faccio le paste”. Non ha mai scritto una canzone che si intitola “paste”? Ride: “No, troppo dolce”.
(È il primo incontro, anni Novanta. Nella vita della Nannini sono cambiate tante cose. Alessandro non corre più: ha perso le gambe in una pista di Formula Uno. Il padre, la madre, le nonne, le zie sparite nel silenzio che tutti aspetta. Adesso il bambino…)
Come sono diventato Dario Fo: “La mia vita? Un mistero buffo”
Quanti Ruzante ha conosciuto Dario Fo? “Uno, il più grande, quando ero ragazzo: Giuseppe Rota, detto Bristin, soprannome rubato dal seme del peperone, la parte che brucia di più. Mio nonno, famosissimo. Una volta sono andato a Mortara, la prima tournée e con “Sette giorni a Milano”, fine anni Quaranta. La gente mi conosceva dalla radio. “Sette giorni a Milano” andava in onda alla sera del sabato. Come si diceva allora “con gli ascoltatori a tavola”, il massimo dell’audience. Mangiavano e ridevano.
A Mortara viene a salutarmi un vecchio signore. Parlava dialetto: “Brav, ma prima de rivar a livel de to non, eh…”, bravo, ma ce ne vuole per arrivare a tuo nonno”. Faceva l’attore? “Faceva l’ortolano. Piccolo, guance arrossate, occhi che bucavano. Chissà quante morose in giro. Un fabulatore famoso ma anche stupendo contadino. “Quan ritira il Nobel, l’orazione di Fo, definisce Ruzzante” il più grande autore di teatro che l’uropa abbia avuto nel Rinascimento prima dell’avvento di Shakespeare. Ruzzante Beolco è il mio maestro insieme a Molière, entrambi attori autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del tempo”. Il tempo del Ruzzante padovano corre tra il 1496 e il 1542.
Raccontava sorridendo della vita agra di contadini e povera gente in un dialetto pavano (antico padovano) che Dario resuscita nell’invenzione dei nostri giorni. Ma ad accendere il fuoco della sua adolescenza è Bristin, il nonno contadino. Lo ricorda in un incontro di qualche tempo fa: “Nel ’25, prima che nascessi, lo avevano chiamato all’Università di Pavia per dimostrazioni pratiche. Uno dei primi a tentare gli innesti. Pere con mele, prugne con albicocche. Quando arrivavo trovavo piante mai viste. Il paradiso terrestre in una serra enorme, alberi sotto cupole di vetro. Oltre questa “follia”, aveva un carro per vendere ortaggi. Ma anche fiori e la frutta di stagione. Carro immenso ed istoriato, coperto da ceste. Mi portava con lui. Si partiva che era buio, avvolti nelle coperte se era inverno. Appena l’aria addolciva, Bristin mi metteva a cavallo: un bertone di origine ungherese, grande come un elefante, orecchie minute che cascavano in basso. Sedevo sul culo, le gambe arrivavano a malapena a toccare la pancia infinita. Giravamo per fattorie che erano paesi: le cascine degli Aosta con trenta famiglie nella corte. Arrivavamo e scoppiava la festa. Lui cominciava a gridare. Raccontava storie in dialetto, ma non proprio storie: cronache indiscrete. Corna, tradimenti, la vendetta e il sangue.
“Tragedia a Sarzana”, urlava. “Lui esce in mutande dal balcone trascinando la moglie nuda come. è una puttana, annuncia alla folla. Intanto l’amico fedifrago scappa per le scale ma inciampa, rotola e si rompe le gambe. Lo potete ritrovare- il nonno alzava la voce-. all’ospedale di Carrara, camera 32. Portategli i fiori, se li è guadagnati”. Raccontava gli adulteri della cascina vicina. E la gente rideva perché Bristin infiorava la scena impugnando zucchine e porri enormi per far capire le dimensioni. Intramontabile la leggenda della cenere. Quando una vedova si innamorava, i ragazzi del cortile segnano con la cenere un sentiero fino alla porta dell’uomo del cuore: tutti dovevano sapessero.
“Attenzione – voce del nonno – il sentiero che a un certo punto prende due strade. Una va verso la casa del prete”. E le massaie che compravano e singhiozzavano con la mano sulla bocca. Compravano patate senza pagare il biglietto del teatro”. Andava spesso in giro con lui? “Ogni estate o quando nasceva qualche fratello. Venivo spedito in treno: Luino, Novara, Mortara, finalmente Sartirana, paese delle rane. Quattro ore di viaggio sui treni di allora ma non è che adesso si arriva prima. Mia madre, era una contadina letterata, ed ha scritto un libro, “Il paese delle rane”, pubblicato da Einaudi e tradotto in Europa: le storie della corte e delle altre cascine. Nel ricordo Sartirana diventa un paradiso, anch’io lo vedevo così. Il cortile, il fieno, i cavalli e, in fondo, la “conserva”, capanna coperta con canna di fiume. Si scendeva una scala a chiocciola. Sotto tenevano il formaggio, le uova, la carne”. E la nonna? “La Bella Maria. Stupenda, un filo di voce.
Gliel’aveva rubata la paura. Un innamorato respinto, era entrato nel cortile sparando. Appena una ferita di striscio al collo, il collo sottile di mia madre, ma la Bella Maria si era talmente spaventata da perdere la parola. Poi la voce è tornata: un sussurro. Dormivo in mezzo ai nonni nel lettone scaldato col prete e la slitta. Beato, come non ricordo più”. Suo padre? “Capostazione attorno al lago, e per 9 anni a Porto Valtravaglia, abito nero, bottoni d’oro, cappello rosso e le mostrine. Sembrava un generale. Ma il primo ricordo non è in divisa: recitava. Ero in braccio alla mamma e lui sul palcoscenico con un Ibsen crudele: storia del bambino del quale i genitori vogliono liberarsi. Che lo portino via gli zingari o una malattia. Un bambino attore giocava col “mio” cavallo a dondolo prestato alla filodrammatica. Lo aveva regalato uno zio megalomane. Slittava su una leva e dondolando camminava nella stanza. Mi sono messo a gridare. Capirai, un altro bambino sul mio cavallo”.
Gli anni più belli dell’adolescenza in riva al lago… “Non solo il lago. Valtravaglia è un bel paese di matti. Non per l’acqua dolce che, come dice Zavattini, fa impazzire la gente. C’erano soffiatori di vetro arrivati nei secoli da ogni parte. Basta guardare l’elenco telefonico: ungheresi, tedeschi, francesi. Un parente si chiama Sumacher. La malattia fondamentale era la silicosi con uno stadio di passaggio che procura un bello scatto di pazzia. Ricordo la macchina del comune imbottita: serviva a portare i matti a Varese. Sono stato fortunato; forse buona parte della mia fortuna viene proprio da lì. La mescolanza di gente diversa ha creato un tessuto culturale fantastico. Gente che raccontava favole. Sul molo, o sotto i portici, pescatori che riparavano le reti. Noi ragazzi aiutavamo il rammedatore nel trovare i buchi. Lui cuciva e contava. Li ricordo con i nomignoli del ribattezzo d’ogni paese: Dighelnò (non dirlo) e Angelo Scanabish, scannabisce. Storie paradossali: la caccia alle lumache con la fiocina. Lumache grosse come maiali e talmente veloci che serviva una moto per stare dietro. E poi la tragedia di Rocca Caldè, paese che stava in cima alle rocce di Caldè. Una frana lenta, per secoli lo ha spinto verso il lago, ma la gente non voleva saperne di andare via per non perdere la casa, soprattutto il privilegio di vivere così in alto. Finché il paese è precipitato trecento metri sotto l’acqua”.
“Andavo e venivo da Milano, il liceo a Brera, raccontando in treno queste storie. Ne sapevo tante, non tacevo mai. Vittorio Sereni, poeta dolce, sottile, intelligente; Sereni mi dava un tema: “Parla del Carducci e di Alberto da Giussano”. Io pensavo come Dighelnò avrebbe riferito la poesia agli amici: “Cioè, era lì davanti, l’Alberto quello che è un po’ Giussano, che lui sovrasta il capo anche con la barbuta… Allora il Barbarossa l’è venuto, l’è andato, l’ha preso, ci ha bruciato la città, ci ha messo anche il sale, ci ha portato via i comaschi che a me stavano anche sui coglioni. Ci aveva portato via già tutte le pietre, una a una, tutte numerate, e tutto quello che c’è di torno l’hanno costruito con la roba nostra, che poi, un giorno o l’altro, porca miseria, andremo là e tiriamo indietro. E Crema, come l’è nata? Crema è tutta portata via da qui. Quell’altro che fa il furbo, gliela vende la roba, mica la dà gratis: vieni, buttiamo giù Milano e la rifacciamo da capo. Intanto gli dà le pietre…”
Raccontava anche Milano? “Fuori da Brera c’è il Giamaica. E poi le sorelle Pirovini dove si andava a mangiare. Ci trovavamo tutti. Mi conoscevano; insistevano. Distribuivo le favole dei ricamatori di reti. Ne inventavo altre. Il paese che sente odor di funghi e cerca i funghi con cani da funghi, finché scopre di essere costruito su un fungo infinito. Allora si nutrono scavando caverne, mangiando funghi come vermi. Ascoltavano amici straordinari: Lizzani il regista, Carlo Bo letterato severo, Pietro Bianchi, Ugo Mulas, Cassinari, Morlotti, Pontecorvo, Emilio Tadini. Arrivava Vittorini con quelli di “Politecnico”. La scoperta di Milano era un incanto. Scendevo alla stazione Garibaldi che allora era dietro piazza Repubblica. Incontravo gente che chiacchierava, che rideva, i tram correvano sempre. Dava l’idea di qualcosa che non si fermava mai. Anche il vento alzava le sottane delle ragazze. Una festa. Sulla scoperta ho scritto una canzone per il primo spettacolo di Jannacci. Si parlava fino al mattino e Parigi sembrava dietro l’angolo, mentre adesso, malgrado l’aereo, è lontanissima. Perché Parigi non è cambiata, Milano sì. Devo a Tadini il primo personaggio fatto in teatro: Pover Nano. Lo ripeteva per commiserare la persona che prendeva in giro. E sul filo dell’Alberto da Giussano, ho rifatto Colombo, il Rigoletto, Davide e Golia, in fondo tanti pover nani” perché ha lasciato la pittura o lo studio da architetto, per il teatro?
“Nel ’48 ho avuto una crisi nera. Vivevo con i pittori. Morlotti veniva a casa mia. Bel tenebroso, incantava le donne. E mia madre lo fulminava con la sua ironia: “Lei Morlotti, appena ride, nessuna ragazza la guarda più”. Dipingevo. Ho fatto mostre. Perfino un premio Bergamo: figurativo guardando de Chirico. Non mi andava il sistema delle gallerie. Ti affittavano: tanto di stipendio, tanti olii, tanti disegni, tante tempere. Cose così. Come architetto dovevo fare gli “sviluppi” nello studio Ciuti. Pagato bene, ma lavoro da negro. Finché ho conosciuto Franco Parenti che mi ha offerto un posto in “Sette giorni a Milano”. Stava cominciando all’Odeon, poi l’ha ripreso la radio”.
Dove ha conosciuto Franca Rame? Risponde Franca: “Nella compagnia c’ero anch’io. Soubrette parlante. Niente nudo, qualche battuta. Dovevo dire: “Il Coriolano in cinque atti”, e Parenti che veniva dal Piccolo si arrabbiava: “Questa battuta devi portarla sul velluto”. Me l’ha fatta ripetere quaranta volte e sono scoppiata a piangere. Poi ho visto questo ragazzo bruttino che non mi guardava per niente…”. Fo: “Era impossibile. Aveva uomini che la corteggiavano dappertutto. Fuori, dentro, di traverso. Copertina sulle “Ore” come la Loren…” Rame: “Finché un giorno mi sono stufata. Stavamo provando in un cinema affittato, il Colosseo. L’ho sbattuto contro il muro e l’ho baciato in palcoscenico.
Dopo quel bacio è stato un amore di scarpe: abitavo in via Ennio, lui in via Eustachi, quattro chilometri di strada. Talmente poveri da non sapere cos’era un taxi. Dopo teatro Dario mi accompagnava, io riaccompagnavo lui e lui tornava a casa mia. Viaggi di notte. Adesso che ci penso, il 24 giugno abbiamo fatto 58 anni di matrimonio. Mi fa paura. Non ci siamo ancora uccisi”.