Mio padre mi raccontava che gli studenti italiani sono immolati sull’altare adorante de “I Promessi sposi” per un anno intero. Troppo per un solo autore, anche se importante. “Ma, a quel tempo, ci facevano solo intravvedere la veritá. L’insegnamento che veniva da ogni episodio era sempre lo stesso: quanti soprusi in questa valle di lacrime! Ma arriva sempre la Provvidenza e tutto si aggiusta, in questa o… nell’altra vita”. Riguardo alle fonti ispirative di questo grande romanzo ottocentesco, le notizie in possesso dei severi professori di mio padre erano incomplete. In questi giorni, una troupe del programma di Rai2 “Voyager” sta realizzando un servizio sul luogo preciso dove le vicende dei “Promessi sposi” si sono svolte per davvero. Ma con una sostanziale differenza, riguardo la reazione delle donne vittimizzate dai maschilismi violenti.
In base a recenti ricerche scientifiche, sappiamo che Quel ramo del lago di Como era in realtà in provincia di Vicenza, e precisamente ad Orgiano sulle propaggini orientali dei colli Berici. “Questo matrimonio non s’ha da fare” non è stato pronunciato da bravi dall’accento lombardo: il vero Griso e lo sgherro Nibbio parlavano veneto. E Lucia, in verità, si chiamava Fiore Bertola. Il suo promesso sposo non era Lorenzo Tramaglino ma un tal Vincenzo Galvan. Il coraggioso Fra’ Cristoforo da Pescarenico altri non era se non il vicentino padre Ludovico Oddi, che convinse Fiore a denunciare per sequestro e stupro presso il tribunale penale veneziano del Consiglio dei Dieci il suo violentatore Paolo Orgiano, alias don Rodrigo.
In altre parole, il Manzoni ha riprodotto nella prima parte del suo capolavoro tutta la struttura narrativa di un processo istruito nel 1605-1607 contro uno scapestrato rampollo della famiglia signorile degli Orgiano, accusato di violenza sessuale da ben cinquanta giovani donne! A raccogliere questa documentazione, organizzata ora anche in una mostra didattica itinerante dalla biblioteca orgianese, è il prof. Claudio Povolo che, su iniziativa della Regione Veneto, ha pubblicato nelle Fonti per la storia della Terraferma veneta, la versione integrale del processo contro il mostro assatanato che terrorizzava le vergini locali nelle contrade di provincia.
Da tale documento storico risultano facilmente riconoscibili tutti gli stereotipi seicenteschi presenti nell’opera manzoniana: i bandi contro i bravi, le soverchierie dei nobili che esigevano lo jus primae noctis, la inconsistente presenza della autorità politiche, l’opera di alcuni isolati religiosi a difesa delle donne. Come il Manzoni sarebbe venuto a conoscere di questo documento processuale? E’ provato che un assiduo frequentatore di casa Manzoni, Andrea Mustoxsidi, fosse un profondo conoscitore degli archivi della Serenissima. E che Agostino Carli Rubbi, allievo del Beccaria (suocero del Manzoni) fosse l’incaricato del riordino dell’archivio in questione. Infine che, dopo la caduta della Repubblica di S. Marco per mano napoleonica, i documenti veneziani vennero trasportati all’accademia di Brera, di cui era conservatore un amico del Manzoni, Gaetano Cattaneo.
Non sorprende che un documento storico come il processo a Paolo Orgiano sia la fonte di ispirazione dei Promessi Sposi. Per il Manzoni l’arte non può far a meno del vero, e la creazione artistica deve integrare i fatti della Storia. Data questa la concezione del romanzo, il Manzoni porta i suoi umili a sfiorare personaggi storici come la monaca di Monza, il card. Borromeo, l’Innominato, o eventi realmente accaduti come la peste del 1630.
Amareggia, peró, che nei Promessi Sposi non traspaia che lo stupro da parte dei signorotti perversi era un fatto abituale, come invece appare documentato dalla cruda testimonianza delle 50 donne violentate. In particolare, dalla denuncia di Fiore/Lucia, che non lesina in particolari scabrosi nel descrivere come sia stata trucemente assalita dai bravi in casa sua, sequestrata in un luogo segreto e violentata per vari giorni e vari notti da Paolo Orgiano/don Rodrigo. Il Manzoni lascia intuire il dramma vissuto dalla sua protagonista, parla sì della sua angoscia e desolazione. Ma sceglie di non parlare mai del Male. Non guarda mai in faccia il Male. Di esso, gli interessa solo quanto permette di scoprire – oltre l’umano (scontato per lui) dolore delle donne- il disegno della Provvidenza. Quello che gli preme è la relazione tra la confessione religiosa, il perdono e la grazia divina. A giudizio dello studioso Francois Bruzzo, “Manzoni si autocensura. Sempre”.
Donne raccontate: senza nome, affidate alla Provvidenza
Di Lucia, la principale figura femminile del romanzo, descrive appena la normale bellezza, il fascino privo di particolari caratteri dominanti e piuttosto semplice nel complesso. Una giovane filatrice che non si è mai allontanata dal paese dove è nata, educata secondo la severa tradizione religiosa dell’epoca da cui deriva la grande devozione e l’immenso rispetto per tutto quello che riguarda la fede e la dottrina cristiana, e che non presenta mai particolari velleità e ambizioni se non quella di sposarsi con Renzo. Nella grandiosa figura della mamma di Cecilia, una donna senza nome, che consegna ai monatti il corpo della figlia, chiedendo per la sua bambina posto e rispetto sul carro dei morti appestati, sapendo che la seguirà presto – emerge la pietas manzoniana. In altri personaggi femminili, la sagacia, l’arguzia, la curiosità. La dignità semplice, in Lucia. Mai, l’indignazione e la denuncia.
Donne reali: il coraggio della parola e la richiesta di giustizia umana
Fiore, la vera promessa sposa della storia, invece, guarda in faccia al suo carnefice, ha il coraggio della parola perché crede nella giustizia del tribunale degli uomini, rappresentato per l’occasione dal tribunale veneziano. Fiore chiede Giustizia, esige Castigo al Delitto. In effetti, lo stupratore serial sarà condannato all’ergastolo e morirà in carcere. La Lucia manzoniana invece prega, supplica, fa i voti, si affida solo a Dio. Il Manzoni non crede nella giustizia umana; quindi, evita accuratamente di riconoscere il Mostro. Non gli interessa che si sappia che lo stupro è una costante storica. Accenna al caso singolo, isolato, e in forma appena velata. Come una goccia in più nella palude delle scontate prepotenze in un periodo lontano nel tempo e superato. Non denuncia, non rivela l’orrore umano e la banalità del Male. Solo ha in testa di dimostrare la potenza della Grazia. Tutto ciò che è violenza sessuale e sordida passione, è rimosso “in nome della sfiducia manzoniana nella capacità dell’uomo di cambiare con i propri mezzi il proprio destino, che rimane quindi in balia all’incommensurabile Provvidenza”. Tutto ció che è “sporcarsi i piedi”, cercare giustizia, è pazzia profetica di qualche incompreso Frà Cristoforo/padre Ludovico Oddi. E…” a chi tocca, tocca”, conclude Tonio, un altro umile. Manzoni sbircia nella storia sporca, quotidiana, della violenza sulla donna, territorio dei vincitori, zuccherino per i festini del Potere, aggredita in casa e sulla strada. Ma si rifiuta di guardarne il corpo sfregiato, l’anima dannata per sempre. Presunto pudore di sacristia, che racchiude tutto nel velo privato del confessionale. Che non si sappia in giro, con il rischio di incontrare una Fiore che porta in tribunale il Miserabile nella speranza che, in futuro, ci siano meno miserabili nel mondo.
Se il processo a Paolo Orgiano avesse ispirato Victor Hugo
Un’altra occasione perduta, questa del Manzoni. Ben altro risultato storico ci sarebbe stato per la dignità delle donne, dal 1842 ai giorni nostri, se il testo veneziano del processo a Paolo Orgiano fosse stato visto e avesse ispirato un Victor Hugo o un Dostoevskij, capace di scavare tra i Demoni del Mostro: “L’evangelista Luca ci racconta che i demoni si erano insediati in un uomo, il suo nome era Legione, ed essi Lo [Cristo] pregarono: permettici di entrare nei maiali, ed Egli lo permise. I demoni allora entrarono nei maiali e tutto il branco si precipitò da un’altura in mare ed annegò. […] Esattamente la stessa cosa si è verificata anche da noi. I demoni sono usciti dall’uomo russo e sono entrati nel branco dei porci, e cioè nei Necàev, nei Serno-Solov’ëvic e così via. Quelli sono affogati, o affogheranno senza dubbio.” L’unica lezione da imparare è quella delle 50 donne venete che hanno avuto il coraggio di denunciare, di stanare l’Orco, di annegare il branco, di scendere in piazza contro tutti i don Rodrigo della storia, da quello violento tra le pareti domestiche, a quello che organizza la tratta delle donne immigrate costrette alla prostituzione, a quello che ricatta sessualmante negli ambienti di lavoro o fa turismo pedofilo nel paesi del Sud in cerca di una Cecilia dalla pelle ramata, “viva, ma coi segni della morte in volto”.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).