Di Cartagena posso raccontare la morbidezza del barocco, le ragazze che sorridono per strada e i venditori ambulanti dei libri di Gabriel Garcia Marquez, quasi sempre copie pirata che mandano in bestia lo scrittore. Posso ricordare il profumo d’aglio dei “patacones”, frittelle di platano famose come la pizza. E gli spaghetti dei ristoranti siciliani stesi sul mare e quasi sempre vuoti. Come riusciranno a tirare avanti gli elegantissimi signori dietro la cassa, chissà perché in avventura nella patria della coca? Ma non è il viaggio di un giornalista immerso nel fascino problematico dei Caraibi. Sono qui a far da spalla a Garcia Marquez che spiega a giovani giornalisti cosa non si deve fare per diventare comunicatori normali e non alla corda di qualcuno.
Ecco il ballo dell’ultima sera: il corso è finito. Dieci ragazzi hanno concluso l’inchiesta nella quale li ha guidati un capo cronista laureato dal Nobel. Con accanto due vice: uno spagnolo di El Pais, un italiano del Corriere della Sera. Insomma, c’ero anch’io. Avevamo conosciuto Garcia Marquez nell’occasione di una intervista. Ho scoperto mesi dopo che le mie domande gli erano sembrate “ripetitive ed uguali a milioni di altre domande”. I suoi brontolii da orso buono non hanno spiegato perché ci ha poi chiamati a dargli una mano nel seminario che regalava ai ragazzi innamorati del mestiere. Il seminario è finito, Gabo sta ballando con una fanciulla sottile dagli occhi sempre accesi: Laura Cardenas Muñoz. 28 anni, cronista dell'”Universal”. La sua inchiesta ha ricevuto i complimenti di tutti. La tiene per mano nel piccolo ristorante sotto le mura spagnole. Laura continua a sorridere. Gli si rivolge sottovoce come un’educanda. “Maestro…” Gabo mi guarda con imbarazzo. “In Colombia ogni giovane giornalista chiama così il redattore capo al quale si rivolge…” Dietro il separè di paglia un’orchestrina distribuisce languori, lentissimo cha cha cha.
I quindici giorni a Cartagena raccolgono tante storie. Le ho ascoltate soprattutto al mattino nella terrazza di Garcia Marquez, chiacchiere della prima colazione. Un po’ incantato, un po’ arrabbiato: il padrone di casa non rispondeva alle domande. Il suo racconto continuava ignorando le voci di chi voleva sapere, chi non capiva, chi chiedeva di più.
Gli scrittori raccontano sempre un viaggio. Viaggio dentro o viaggio fuori. I viaggi più belli di Gabo non sono mai usciti dalla famiglia. Ecco perché si innervosisce nel parlarne quando beviamo il primo caffè lontani dal soffio del condizionatore. Non gli piace il “freddo chiuso”. Preferisce la terrazza; aria immobile del mattino che soffoca la laguna. Nella cornice barocca della colonia ha messo in scena le storie di chi l’hanno aiutato a crescere. Le ha sepolte nei libri e non vuole mescolarle con “la piccola biografia di un ragazzo diventato scrittore”. “Chi sa tutto è mia cugina Margarita, memoria della stirpe…”. Margarita Baidesblankes vive ad Arataca (ufficialmente ribatezzata Macondo con decreto del presidente della repubblica colombiana: è la prima volta nella storia della letteratura che un paesino cambia nome per ufficializzare l’invenzione di uno scrittore amato). Una sera è seduta al nostro tavolo. Piccola, capelli ispidi, lenti come fondi di bottiglia. Sa di essere la storica designata “da un premio Nobel” a raccontare come Gabo è diventato uno degli scrittori più amati di qua e di la dal mare che divide il vecchio e il nuovo mondo. Lo ripete sorridendo ma appena sfoglia il quaderno degli appunti fa sul serio e Gabo scuote la testa per nasconderela vanità.
Il colonnello Nicolas Ricardo Marquez era stato informato delle nozze segrete della figlia unica: Luisa aspettava un bambino. “Voglio che nasca nella mia casa. Deve crescere con me ad Aracataca…” E ad Aracataca il 6 marzo 1928 viene al mondo Gabriel Josè. “I miei genitori gli hanno fatto da padrini”, inorgoglisce Margarita. “Nessuno lo ha mai chiamato Gabriel Josè. ‘Gabo’, diceva il nonno. ‘Gabito’, la nonna che parlava con i morti”. Racconta con la felicità di chi si sente qualcosa più di una cugina. Mentre Margarita attraversa il passato guardo le finestre dell’albergo Santa Clara, pochi metri in là. Signora bionda in accappatoio asciuga i capelli tirandosi le guance davanti allo specchio. Il bagliore della televisione illumina altre finestre. Un bambino sta gridando qualcosa. Pochi metri dividono mondi più lontani della luna.
Prima che Margarita continui a ricordare devo chiedere qualcosa. “La nonna parlava con i morti?” Vengo da lontano, mi è difficile capire. “Siamo in Colombia, non in Europa, caro signore. La magia è l’altra faccia della vita dove ogni giorno si specchiano”. Apre il giornale. “Legga qui”. Notizia di poche righe. Appello della signora Anselma Calderon Gaviria: “Mio padre è un vecchio dispettoso. Deve aver fatto uno sgarbo a qualcuno che gli ha dato l’incantesimo trasformandolo in un cane spelacchiato. Per favore, se incontrate questo cane randagio, bianco pezzato di nero, non sparategli. Spero possa riprendere forme umane e tornare a casa. Offro ricompensa a chi dà notizie: dove e quando ha visto il cane che adesso descrivo con precisione…” Nessun commento della redazione. “Possibile che i giornalisti abbiano preso sul serio la povera donna?” “La prendono sul serio perché ogni giorno ricevono lettere così”.
Margarita si emoziona nel ricordo del patriarca: “Il colonnello era tesoriere del municipio di Aracataca, ma l’aver partecipato alla guerra ‘dei mille giorni’ lo aveva trasformato nel patriarca, nel filosofo, nel saggio al quale la gente chiedeva consiglio. Dalla moglie Tranquilla, detta Mina, aveva avuto due ragazze e un maschio, ma non era un segreto che Nicolas Ricardo Marquez seminasse bambini fuori dal matrimonio, uno per ogni strada di Aracataca. Quasi cinquanta. La moglie si consolava discorrendo con le anime dei trapassati e, chi aveva sepolto un amore, andava a consolarsi da lei. Gabo è cresciuto in questa casa. Due vecchi strani nella loro magia e un bambino solo, mai coccolato, ma tanto ‘ considerato’. A otto anni parlava come un uomo. Si incantava ad osservare il nonno che trasformava piccole monete d’oro, in ciondoli e orecchini da distribuire in famiglia. Lavorava ogni pomeriggio perché era una famiglia grande: mezzo paese. Gabo passava ore a spiarne i gesti pazienti. Modellava l’oro impugnando una lente da collezionista di francobolli quando gli occhi cominciavano a stancarsi. Credo sia nata in quell’infanzia la pignoleria che ossessiona Gabo quando scrive e rilegge”.
Chi evoca la storia degli anni segreti di Garcia Marquez lega ogni piccolo episodio a un nome e a un cognome. Il nome della compagna di scuola, mano nella mano verso le prime classi del collegio Montessori di Aracataca, è Nora Fergunson. Adesso soffice signora. “Per favore Margarita, fagliela incontrare. Gli italiani sono amici bravi, ma rompono le scatole. Non voglio mi tormentino…” Gentilezza ruvida di Gabo. Sa che a Nora piace ricordare. “Non sono stata il suo primo amore. Il suo primo amore era la nostra maestra, Elena Fergunson, mia zia. Ogni mattina passavamo dalla casa del colonnello. Gabo ci aspettava sulla porta…” Una mano alla bambina, l’altra alla maestra: tremava per l’emozione. Elena aveva 24 anni e non era una bellezza, ma per Gabo rappresentava il mistero della femminilità mentre si affacciava dal buio dell’infanzia. “Forse è come dice lei…” Gabo prova a essere spiritoso mentre giro il registratore per fargli ascoltare la fine della confessione di Nora. Non vuole ammettere l’amore per la maestra. A più di 80 anni resiste la timidezza.
Come mai Aracataca, posto che ha segnato per sempre-polvere e misteri-la fantasia di milioni di lettori, è diventato Macondo? “Quando facevo il giornalista a Barranquilla viaggiavo come si viaggiava allora: treno, corriera. La sola cosa che cercavo nella vita era di essere scrittore e volevo diventarlo. Una volta il treno si è fermato in una stazione senza case attorno. E quando riprende il cammino attraversa un’immensa fattoria bananiera, la più imponente mai incontrata, feudo Standard Fruit, Usa. Il nome era scritto sul portale d’ingresso: Macondo. Sfogliando l’enciclopedia scopro che è il nome di una pianta. Non produce ne fiori ne frutti. Solo il tronco va bene per costruire canoe o scolpire le insegne dei posti dove si mangia. Non mi importava dei fiori o del legno. Il nome mi piaceva: rotondo, compatto. Ho cominciato ad usarlo in qualche racconto, e dovendo ribattezzare Aracataca, mi è sembrato il nome giusto”.
La vita privata di Garcia Marquez non è mai uscita da questa e dalle altre terrazze delle case che abita. Mai chiacchiere. Mercedes è una moglie nell’ombra: non appare negli incontri pubblici se non gli incontri solenni di quando Cartagena ha festeggiato i 50 anni di “Cento anni di solitudine”. Chissà cos’ha pensato lo scrittore della confusione dei numeri. Li ho visti per mano in tv. Lei seria come a un funerale, Gabo che sorride come chi non sa se ringraziare o querelare. La loro vita si è fatta ancora più nascosta dopo la malattia che lo ha invecchiato.
Mercedes ha sposato Gabo quasi 60 anni fa. Si veste solo di bianco. E scioglie il bianco in ogni stanza: moquette, pareti, librerie. Nella casa di Bogotà, nella casa di Cuernevaca, Messico, dove Gabo era scappato, minacciato dai califfi della “Violencia” colombiana. Bianca anche la casa di Cartagena quasi appoggiata al monastero di Santa Clara, teatro dell’ultimo romanzo barocco del premio Nobel: quella novizia morta adolescente nei giorni della peste ma i suoi capelli continuano ad allungarsi un secolo dopo l’altro. Sono andato a passeggiare nei portici del convento diventato l’albergo che sovrasta la terrazza delle nostre prime colazioni. Qui hanno girato le scene del il film “L’amore ai tempi del colera”, il solo romanzo che Gabo sente davvero suo, storia del padre telegrafista: incontra la ragazza che corteggia di nascosto battendo i tasti del telegrafo. Il Santa Clara affitta camere con prezzi diversi. Le finestre affacciate sulla terrazza dove facciamo colazione costano 30 dollari in più. Un depliant invita ad alzarsi di buon’ora.
“Alle 7 del mattino lo scrittore già lavora…” E lo scrittore si difende con siepi verdi e tende che sembrano muraglie. “Se all’improvviso si alza il vento e le porta via, i curiosi scoprono un signore che volta le spalle alla loro curiosità per discorrere con due sconosciuti nascosti dietro occhiali neri, facce pallide e sudate, pesci d’aria condizionata che non amano l’umidità della laguna. Vorrebbero far colazione nel soffio fresco che fa male al padrone di casa. E si costringono a sorridergli quando vorrebbero prenderlo a calci”. Il giorno comincia con questa risata.