Ettore MASINA – Come sono lontani dalla “Chiesa dei Poveri” i gemelli d’oro del cardinale Bagnasco
31-05-2010Nel dicembre del 1992 l’inverno incrudelì sui Balcani. E nel gelo, nella pioggia, nel fango andava morendo l’utopia jugoslava: uno stato multietnico che sembrava avere consolidato pacificamente un’area europea storicamente segnata da conflitti senza fine, adesso s’era nuovamente frantumato sotto la spinta di egoismi locali e correità internazionali. Cominciava un’atroce guerra civile che divideva regione da regione, quartiere da quartiere, villaggio da villaggio, talvolta famiglia da famiglia. L’ONU e i governi europei e quello degli Stati Uniti sembravano (o fingevano di essere) incapaci di fermare il genocidio. Simbolo dell’odio etnico e religioso, la città bosniaca di Sarajevo (300 mila abitanti) veniva assediata dall’esercito serbo. L’8 dicembre di quell’anno terribile, una colonna di 500 italiani riuscì a rompere la cintura di fuoco: erano volontari di Pax Christi e li guidava il loro presidente, Antonio Bello, vescovo di Molfetta.
Se lo si rivede nelle fotografie dell’epoca, sembra impossibile che egli abbia partecipato all’impresa, da lui ideata: era stato un uomo bello non soltanto di nome ma anche fisicamente, adesso il suo sorriso illuminava un povero volto che sembrava un teschio, con occhi troppo grandi sotto un passamontagna che non riusciva a liberarlo dal freddo. “Don Tonino”, come voleva essere chiamato rifiutando gli altri titoli della cerimoniosità ecclesiastica, stava morendo di un cancro e lo sapeva, ma voleva mostrare che a una crociata senza spade e senza stendardi, a un “esercito senza armi, come saranno quelli del futuro”, a un “ONU dei popoli” era possibile spezzare, almeno per qualche ora, la logica della violenza. L’arrivo a Sarajevo della colonna da lui guidata sembra una pagina dell’Antico Testamento: la città era piena di “cecchini”, tiratori scelti, che sparavano su tutto quello che si moveva per le strade, ma, improvvisamente, una fitta nebbia impedì loro ogni visuale e i volontari passarono indenni.
Mi rallegra la notizia che va avanti la causa di beatificazione di questo vescovo della “Chiesa del grembiule”, come lui la chiamava per richiamare l’umiltà di Gesù nella lavanda dei piedi; e ripensando a questo meraviglioso amico mi confermo nel ritenere assoluta la necessità di atti profetici nel cammino dei cristiani, senza i quali la comunità ecclesiale non rende percepibile né comprensibile né credibile la sua testimonianza del vangelo. Quella che per altre istituzioni può essere “ordinaria amministrazione”, per la Chiesa è uno stato pre-agonico: lo vediamo tutti, lo sentiamo tutti, ce lo diciamo tutti – o almeno quelli di noi cattolici che hanno il coraggio di guardare oltre i confini della nostra cerchia. Una Chiesa del buonsenso, del galateo, delle idee che galleggiano nell’aria senza ancorarsi all’evidenza dei fatti, che più o meno implicitamente contratta la vaghezza dei suoi “Non ti è lecito!” con l’acquisizione di privilegi mondani è una aggregazione che pare lontanissima dal vangelo, quanto i gemelli d’oro ai polsi del cardinale Bagnasco sembrano lontani dalle vesti di un mondo sconvolto dalla povertà.
Mi capita di ripensare spesso al contrasto fra due documenti letterari che descrivono la fede e la prassi della Chiesa. Il primo, scritto all’inizio del secolo scorso, è un brano del “Dedalus” o “Ritratto dell’artista da giovane” di James Joyce. Vi è descritta la predica di un gesuita sul tema dell’inferno. Il secondo è un capitolo di “E non disse neppure una parola”, di Heinrich Böll e racconta di un tedesco, reduce dalla seconda guerra mondiale, il quale, schiacciato dalla sua esperienza, entra in una chiesa e ascolta la predica di un vescovo; a un certo punto è sorpreso da un pensiero che gli pare peccaminoso ma non riesce a respingere: quel vescovo è noioso. Fra questi due documenti corrono cinquant’anni. Il primo è l’esempio di una Chiesa disposta a usare anche una paura primordiale pur di governare le anime; è intriso di superstizione, di volontà di dominio ma è almeno un documento che ha una sua alta tragicità. Il secondo è un documento di pigra tiepidità, incapace sia di scuotere che di rasserenare. Ricordate quella terribile frase dell’Apocalisse? “Il tiepido io lo vomiterò dalla mia bocca”.
L’impressione che molti, moltissimi abbiamo – cattolici come me o “lontani” – è quella che la Chiesa di questi nostri terribili giorni sia tiepida; e i giovani, quelli ai quali viene proposta, molto spesso da insegnanti demotivati, la giudicano noiosa. Chi ha la pazienza di leggere i documenti scritti dai vescovi italiani sa che molti di essi contengono inedite aperture, elenchi minuziosi di validissime possibili opzioni, elenchi minuziosi di comportamenti ingiusti, da sanzionare. Ogni anno la Conferenza episcopale italiana compone una specie di enciclopedia, quattro, cinque, dieci volte più lunga dei quattro evangelisti; ma in mancanza di segni, di prassi (di quella che padre Balducci chiamava ortoprassi: comportamenti che rendono evidenti gli imperativi etici della fede) ben pochi dei “fedeli” e dei “lontani” sentono la necessità di andare a leggerli. In una società-spettacolo come la nostra, le biblioteche rimangono assolutamente importanti ma non bastano più, ammesso che qualche volta siano bastate.
Voglio fare qualche esempio. Noi viviamo in una comunità politica in cui, con il consenso di milioni di cattolici, una forza di governo, di peso politico crescente, non soltanto ha bloccato il fortunoso arrivo di disperati alla ricerca di pane e più ancora di pace (e un recentissimo rapporto di Amnesty International denuncia il comportamento in più occasioni inumano delle nostre autorità) ma, con cadenza programmatica, inasprisce la condizione dei “terzomondiali” presenti fra noi e ormai indispensabili alla nostra economia. Il ministro degli Interni, forse il più intelligente esponente di quel partito, ha teorizzato apertamente la necessità della “cattiveria”. Anni addietro la Lega portava la maschera della ragionevolezza: “Aiutiamo i popoli della fame, ma a casa loro”.
La maschera è caduta: la cooperazione italiana è ridotta a dimensioni vergognose. I trafficanti di schiavi dei secoli scorsi crearono stati-mercato, come il Dahomey o Zanzibar, per le esigenze del loro infame commercio. Maroni e Berlusconi cercano di creare stati-poliziotto (la Libia, Malta) che facciano il lavoro sporco per noi, magari con la creazione di veri e propri lager. La paura e l’odio usati dalla Lega per la conquista di un consenso “popolare” hanno dato vita a episodi vergognosi, come nel caso delle mense scolastiche. È follia pensare che sarebbe stato bello che qualche vescovo delle diocesi in cui sono avvenuti episodi del genere si fosse recato nelle parrocchie di quei luoghi ricordando, ai fedeli, anche con pastorale durezza, la predicazione di Gesù sul giudizio dell’ Ultimo Giorno: “Io ero forestiero e tu mi hai accolto”?
La diffusione del razzismo leghista avvelena il costume, la politica, la cultura e la testimonianza di fede nel nostro paese. Drena e raccoglie e organizza la paura dei poveri per i più poveri. È follìa sperare che qualche vescovo, se non l’intera CEI , abbia il coraggio di citarlo per nome? Lo si è ben fatto quando l’onorevole Cota ha dichiarato che nel “suo” Piemonte la pillola detta “abortiva” sarebbe “rimasta in magazzino”. Allora non un piccolo vescovo “di periferia” ma monsignor Fisichella, tonaca rampante che secondo alcuni si tingerà presto di porpora, dichiarò (cito dal virgolettato di una sua intervista al “Corriere della Sera”) che “bisogna prendere atto dell’affermarsi della Lega, della sua presenza ormai più che ventennale in Parlamento, di un suo radicamento nel territorio che le permette di sentire più direttamente alcuni problemi presenti nel tessuto sociale”.
Quanto ai problemi etici (udite, udite!), Fisichella aggiunse. “Mi pare che la Lega manifesti una piena condivisione del pensiero della Chiesa”. Piena condivisione? È come dire che nel pensiero della Chiesa è molto più importante lottare contro le legge dello Stato in materia di aborto (legge che ha diminuito in maniera notevole il numero delle interruzioni di gravidanza del periodo clandestino) che esigere dai fedeli la fratellanza che Gesù ha posto come condizione di salvezza eterna. (Fisichella è lo stesso evangelizzatore che, con qualche contorcimento teologico, ci ha spiegato che Berlusconi può ben fare la comunione perché l’abbandono da parte della seconda moglie lo ha salvato dalla condizione di peccato nella quale si trovava come divorziato risposato…).
Il razzismo “internazionale” non è il solo peccato collettivo della società italiana. In molti luoghi, anche geograficamente vicinissimi alla sede del Papa, proseguono gli sgomberi forzati dei campi rom. La brutalità di queste operazioni di polizia si aggiunge alla reale mancanza di offerta di sedentarietà ai nomadi che vorrebbero cambiare vita. È follia pensare che sarebbe bello che un vescovo visitasse questi più poveri fra i poveri e magari assistesse di persona a uno sgombero? Ricordo ancora con profondissima emozione la messa di Natale che il futuro Paolo VI andò a celebrare al “Porto di Mare”, una bidonville alla periferia di Milano. Proclamò allora che la baracca trasformata in cappella era diventata quella mattina la cattedrale della diocesi, perché anche Gesù era nato in un’estrema periferia. Quel suo gesto profetico ebbe risvolti importanti anche dal punto di vista della politica cittadina. Certamente destò il volontariato da un suo torpore, fu il momento più alto della Missione di Milano.
E ancora. La guerra guerreggiata per salvare la pace è un ossimoro che segna profondamente il nostro tempo, scavalcando il cinico “Si vis pacem para bellum” dell’antichità romana. Molto al di là della Costituzione e dei patti internazionali, l’Italia è involucrata in questa tragedia. Ricordo i moniti di Giovanni Paolo II contro il primo conflitto “del Golfo”; rottami teologici? Qual è la presenza della Chiesa italiana? Decine di cappellani militari sono mobilitati ad assicurare ai soldati che essi possono usare le armi per difendere la pace. Un vescovo-generale benedice le loro bare, se qualche povero giovane cade in questo lavoro talvolta senza alternative. Ricordo che un suo predecessore dichiarò in televisione che i “suoi” piloti che andavano a bombardare la Serbia compivano un’opera di carità. Non apro qui una discussione sul fatto che la pace come ce la dà il Signore non è come quella che dà il mondo, ma domando: sarebbe follìa sperare che la CEI mandasse un sua delegazione alla Marcia della pace Perugia-Assisi, che è la più alta testimonianza collettiva in Italia di un progetto di civiltà dell’amore?
In tutta la cronaca nera economica che ha mostrato, in questi ultimi tempi, la presenza in Italia di una sfrenata corruzione compare immancabilmente qualche prete (o monsignore o “religioso”) affarista, in proprio o come amministratore di opere ecclesiastiche; sono comparsi due “gentiluomini di Sua Santità” (uno era anche un cacciatore di seminaristi) e lo Ior (la banca vaticana) sembra implicato in legami quanto meno imprudenti. Considerata la durezza con la quale le gerarchie ecclesiastiche intervengono sulle “imprudenze” dei preti “dei poveri” (ho in mente, per esempio, il caso della Comunità delle Piagge e dell’arcivescovo Betori), non sarebbe auspicabile che qualche vertice ecclesiastico richiamasse i preti “dei ricchi” a un po’ di castità finanziaria? Che la gestione economica della Chiesa (o almeno dello Stato vaticano) diventasse più trasparente? E poiché i “gentiluomini di Sua Santità” fanno parte della Curia Vaticana, non sarebbe da aggiornare, per così dire, il loro elenco, spiegando in base a quali requisiti e da chi essi vengono selezionati? E magari, ricordando l’estrazione sociale del primo papa e dei suoi amici, non si potrebbe sopprimere la categoria, il cui nome appare persino ridicolo?
La terribile questione della presenza di pedofili nel clero cattolico ha rivelato non solo la gravità di un problema ma la gestione castale e poi avventata, di quella tragedia. Dico “gestione castale” perché il silenzio che ha circondato, per chissà quanto tempo, l’infamia, ha trascurato il martirio delle vittime, negando loro la parola, per difendere la categoria ecclesiastica. Dico sprovveduta perché, anche quando la tragedia è emersa, è mancato, a quanto sembra, il ricorso ai competenti, cioè agli psicologi, gli unici che avrebbero potuto spiegare alla gerarchia la sofferenza dei bambini abusati e la patologia gravissima del pedofilo. Ancora in non poche recenti dichiarazioni di vescovi sembra invece che la pedofilia venga considerata piuttosto un disordine morale che richiede pentimento e provvedimenti disciplinari. Sarebbe importante sapere se e come sono stati presi provvedimenti “scientifici” per la prevenzione del problema.
A questo proposito, comunque, mi sembra doveroso registrare che non soltanto Benedetto XVI ha gestito il caso con rara fermezza ma anche ha compiuto uno di quei gesti significativi che molti cattolici e non cattolici attendono. Il suo incontro con alcune vittime di abusi, a Malta, è stato per me il punto più alto del suo pontificato. Io credo che la Chiesa non sia mai così grande come quando si inginocchia; e lo stesso vale per il singolo cristiano, come io cerco di ricordare a me stesso.
Io non dimentico che “questa” Chiesa, la “mia” Chiesa, è stata ed è la chiesa dei don Puglisi e dei don Diana, dei don Ciotti e dei don Di Liegro, dei cardinali Martini e Tettamanzi, dei vescovi Nogaro e Bregantini, degli Scoppola e dei Giuntella, dei don Arturo Paoli e di tanti e tanti altri laici e sacerdoti. Ma è proprio il loro esempio, mi pare, che ci spinge ad essere più coraggiosi e ad abbandonare i troppi comodi rifugi della cautela.
Ettore Masina, giornalista e scrittore. Ha lavorato ne "Il Giorno" di Italo Pietra. Primo vaticanista della televisione italiana, poi nel TG2 di Andrea Barbato. Nel 1964 ha fondato e per trent’anni diretto un’associazione di solidarietà internazionale (Rete Radiè Resch) tuttora attiva in vari paesi. Tra i suoi libri "Romero, il vescovo deve morire", "Le barche sono rotonde" (G.O.); finalista al premio Viareggio con "Il vincere" (edizioni San Paolo). Deputato per due legislature, è stato scelto all’unanimità dai gruppi parlamentari come presidente del Comitato della Camera per i diritti umani.