“Ho lasciato il ministero dieci mesi fa. Dio è diventato un estraneo che mi sta vicino. Celibato? La Chiesa dovrebbe rendere libero ciò che è obbligatorio. Istruzione deficitaria nei seminari. Si parla poco di sessualità”
Ho lasciato il ministero presbiterale nella Chiesa cattolica apostolica romana circa dieci mesi fa. Dal profondo di un’opportuna crisi di identità è emersa incontrollabile la domanda decisiva: qual è la mia funzione nella storia? (…). Sono una sorgente di dubbi, sempre più lancinanti. Non ho molti assoluti da preservare, poiché ho smarrito sicurezze che non avrei mai immaginato di perdere. Mi sono sentito tradito da me stesso e dai migliori sogni che ho coltivato. Quasi senza più direzione, oso chiedermi: a cosa servo in questo universo pieno di miserie e contraddizioni, molte delle quali risiedono nel mio povero cuore? (…). Confesso di sentirmi distante da Dio. Egli è diventato un estraneo che mi sta vicino. È una presenza inevitabile, dopo tanti anni di preghiere, canti, liturgie, omelie e riflessioni. Ho la convinzione che sia Lui la felicità suprema. Ma ci appare solo attraverso dei lampi, come riflessi intermittenti di lucidità, senza mai definirsi pienamente in un concetto nitido e distinto. Chi è Dio? È il fondamento dell’essere, un fondamento personale, semplice e infinito, unico, immutabile ed eterno. È quello che mi dice la ragione, educata alla freddezza dell’argomentazione scolastica. E le prove dell’esistenza di Dio? Quanto rigore e abilità nell’analisi deduttiva! Motore immobile, causa prima, essere sussistente in sé, perfezione suprema, intelligenza ordinatrice… (…).
Ma la ragione non si ferma e non esita a interrogarsi (…). Perché pensare che Dio non vuole il male ma lo permette? Qual è la differenza, per un essere che è onnipotente e onnisciente, tra il permettere un male – che teoricamente potrebbe evitare – ed esserne responsabile? Per me, è molto più coerente affermare: Dio non vuole, né permette, né tollera alcun male, in quanto è Amore e soltanto Amore. (…). La risposta è nell’inevitabilità di un mondo infettato dal male, a causa della sua radicale limitazione e imperfezione. La vita è così, e io l’ho sperimentato oltre misura. Se Dio crea l’universo, non può che dare esistenza ad essere carenti, tendenti a una perfezione mai raggiungibile per diritto proprio. Se creasse un mondo senza male, starebbe creando se stesso. L’unica “colpa” che si potrebbe imputare al Creatore è quella di aver creato il mondo, sapendo della radicale imperfezione e vulnerabilità al male implicite nel processo. Con il teologo gallego Andrés Torres Queiruga mi domando: vale la pena che il mondo esista malgrado il male? La fede cristiana risponde positivamente, indicando un piano di Dio orientato completamente alla nostra salvezza (…).
E cosa dire della preghiera di petizione? (…). Questo altro piano si rivela nella domanda: quali sono i criteri di Dio nel rispondere alle nostre preghiere? Ho vissuto già l’esperienza del mancato ascolto da parte di Dio. Una cosa banale, si potrebbe dire, ma che ha cambiato la mia vita e mi ha condotto a mettere in discussione profondamente la mia relazione con il sacro. Sarebbe realmente gratuito l’a-more di un Dio che ci aiuta solamente se glielo chiediamo, a volte con sacrifici estremi? E perché aiuta gli uni e non gli altri? In fin dei conti, non si può negare l’”inefficacia” di certe preghiere, come quelle che rivolgiamo nella preghiera dei fedeli, nella santa messa, supplicando per i bambini affamati, per la fine della violenza e per l’onestà dei politici. L’esperienza mi ha mostrato che molta gente prega, e prega con fede – chi sono io per negarlo? – ma non ottiene un ritorno e addirittura muore senza risposta. Il nostro Dio fa favoritismi? (…).
Ho tentato di trovare dei motivi per le scelte divine, ma nulla mi ha convinto. Si dice che la sofferenza è un apprendistato, che è la salvezza in fin dei conti quello che conta, e poco importa se qualcuno debba passare per un dolore momentaneo. Si dice anche che Dio scrive dritto su righe storte. Tutto questo mi sa di machiavellico. Non combina con il mio concetto di Dio. S. Tommaso d’Aquino arriva a dire che la pazienza dei martiri non esisterebbe senza la persecuzione dei tiranni. (… ) La provvidenza divina, per me, si identifica con il nostro agire in cerca del bene. Nel bene che pratichiamo. Dio-Amore opera nel mondo e ci spinge a trasformarlo. Quanto a un’eventuale intervento di Dio nella storia, un miracolo, non ho soluzione. (…).
Ancora prego, anche rischiando di alimentare, con questo atteggiamento, l’immagine di un Dio che può aiutare, ma che, per qualche motivo sconosciuto, non vuole o non può in quel momento. Questo Dio io lo rifiuto con veemenza. Il mio Dio vuole solo il mio bene e fa di tutto per conseguirlo. Se gli rivolgo suppliche per me, per mia moglie, per mio figlio e per i bambini affamati dell’Africa, tento di concepirlo in un’altra sfera di valori, che trascende i miei migliori criteri di bontà, solidarietà, comunione, salute e pace. I valori di Dio sarebbero gli stessi, ma trascendentalizzati, forse purificati da interessi immediati e, senza dubbio, ricoperti dal segreto. Sarebbero i valori dell’Amore, che opera senza scelte, salva senza privilegi e cura senza ragioni, perlomeno le nostre ragioni.
Ho parlato troppo di Dio. Sembro arrivato al punto in cui, come direbbe Wittgenstein, è necessario tacere rispetto a ciò di cui non si può più parlare. Parliamo, allora, della Chiesa: di essa c’è molto da dire. Non ho risentimento nei confronti della Chiesa. Al suo interno, ho imparato a orientare la mia esistenza secondo principi basilari, i pochi ancora assoluti nel mio timido universo discorsivo. Il cristianesimo mi ha mostrato come le circostanze siano meri dettagli, in quanto l’essenziale è l’amore. (…). La Chiesa non è solo santa né può esserlo. Peccatori abitano in questa casa, rendendola sempre bisognosa di purificazione, per usare un’espressione del Vaticano II. Inoltre, vi sono cose nella Chiesa che attestano non solo mancanza di fede e di carità, ma anche mancanza di intelligenza. Non mi riferisco alla capacità intellettuale di chicchessia, bensì alla stupidità di certi schemi teorici e disciplinari. Sono norme e proibizioni estranee alle reali esigenze del popolo, senza alcun nesso con l’attuale paradigma di civiltà in ciò che ha di positivo e liberatore. Canonizzazione di metodi naturali di programmazione familiare e demonizzazione di quelli artificiali, condanna del divorzio, anche in casi di adulterio, e quasi tutta la predicazione della morale sessuale cattolica sono affette da un immobilismo che si spiega solo con il desiderio, forse inconsapevole, di dominare più facilmente le coscienze. (…).
E il tema del celibato? Non è il più importante, ma ha occupato uno spazio considerevole nelle mie ultime divagazioni. (…). Senza essere dogma di fede, la vita celibataria dei preti è stata, nel corso della storia dell’Occidente, l’ideale della vita relazionale del clero, con le defezioni e gli scandali noti a tutti. È ora di cambiare! (…). Non si chiede altro che di rendere libero ciò che oggi è obbligatorio (…). La Chiesa guadagnerebbe in qualità nel caso potesse contare su presbiteri sposati, padri di famiglia, con l’esperienza necessaria ad orientare coppie e consigliarle nell’esperienza dei figli, oltre al fatto che si renderebbe l’ambito del sacro qualcosa di ben più “familiare” nelle nostre comunità (…). Ho sempre considerato la formazione sacerdotale piuttosto deficitaria in campo umano-affettivo. Nei seminari si parla poco di sessualità, lo stesso celibato è affrontato in maniera superficiale (…). È una deficienza strutturale, derivante, in gran parte, dall’insicurezza dell’istituzione di fronte alle novità della psicologia, della sessuologia e della stessa etica sessuale.
Il mio allontanamento dal ministero non è avvenuto all’improvviso. Mi sentivo realizzato nelle mie attività pastorali. Le predicazioni, le conferenze, i vari articoli catechetici, gli incontri di formazione con i laici, i sacramenti, tutto questo mi rallegrava. Ho sempre avuto, però, problemi con il celibato. Ho fatto la promessa ancora giovane e oggi sento il peso di una decisione sbagliata. È stata una decisione cosciente e libera: non ho subito alcuna pressione. So che la consapevolezza non implica sempre maturità e, a volte, c’è troppa precipitazione. (…). Il mio progetto di vita celibataria è fallito. Ho cambiato vita e opzione fondamentale. Non mi pento assolutamente, poiché ho scoperto dimensioni nuove dell’esistenza, come il fascino di sentirmi genitore. La mia compagna è stata un fascio di luce nel mio cammino, insegnandomi, più di quanto abbia fatto qualunque libro, a sperimentare le gioie del mondo in maniera assertiva e coerente, senza le dissimulazioni e le scappatoie di una vita doppia che oggi mi disgusta. Penso a tanti colleghi ancora presi da tale duplicità, dolorosamente divisi tra una passione e un ideale. Entrambi legittimi, ma irriconciliabili nella disciplina ecclesiastica. Rendere opzionale il celibato non eliminerebbe tutte le vicissitudini dell’esistenza sacerdotale, frequentemente segnata da dubbi e rotture, ma valorizzerebbe il carisma in ciò che esprime di più bello: la pura libertà di fronte a qualunque imposizione stabilita.
Se mi dessero la possibilità di tornare al ministero, sposato e con figli, non so se lo farei. Mi auguro sinceramente che il dispositivo canonico del celibato obbligatorio sia revocato, per quanto creda che non vivrò abbastanza per vederlo. Molte altre riforme devono essere realizzate nella Chiesa. In attesa che avvengano, cerco di custodire il bene che ho imparato a realizzare e di fare la mia parte nella costruzione di un mondo migliore. Prima, ispirato da un’ecclesiologia alla Karl Rahner, credevo nella mediazione istituzionale della religione come qualcosa di antropologicamente necessario, considerando la natura sociale dell’essere umano anche nella sua relazione con il sacro. Oggi questo è un altro principio non più così assoluto per me. (…). Ovviamente, considero la condivisione della fede e dell’amore nelle diverse comunità cristiane un elemento importante per la spiritualità. Le Chiese sono strumenti fondamentali per la promozione integrale dell’uomo e della donna. Non riusciamo ad amare Dio da soli, in quanto non possiamo amarci gli uni gli altri senza la presenza del prossimo. Tuttavia, abbiamo bisogno di relativizzare l’istituzionalizzazione della fede, soprattutto nei suoi aspetti di centralismo e dominazione. Siamo capaci di organizzarci per amare Dio e i fratelli senza doverci strutturare in maniera tanto rigida e burocratica. (…) Posso intravedere ora la mia funzione storica. Non lo so con certezza matematica, ma mi viene, quasi senza volerlo, un’intuizione che esprime la bellezza e l’insistenza della vita. E da cui costruire una risposta: sto qui per amare, per fare del bene, e questo mi basta. È una consolazione e un grande fastidio conoscere questa missione.
Tarcisio Bràulio Gonçalves, abbandonato il ministero, insegna sociologia all’università di Brasilia.