Nei giorni scorsi ho sentito una notizia: nelle carceri italiane si è arrivati al detenuto suicida numero 58, e ho fatto i conti. Dal 1° gennaio al novembre 2011 si è «suicidato» un detenuto ogni cinque giorni e mezzo, poco meno di sei al mese. Scrivo sempre la parola «suicidio» tra virgolette, perché molti insegnano che non tutte le notizie che danno i mass media corrispondono a verità. Può darsi, insomma, che giornali, radio e tv facciano degli errori. Tanto è vero che, talvolta, si viene a sapere di indagini giudiziarie su un caso o sull’altro che, all’inizio, parevano chiarissimi. Poi i giornali se li dimenticano e scompaiono: in fondo, per i lettori la notiziola di un morto in carcere ha il peso di una mosca sulla schiena di elefante.
Il suicida numero 58 di quest’anno si trovava in prigione perché aveva tentato di uccidere la compagna, la madre e la sorella. I mass media dicono che, in cella, si è impiccato. Mi sembra giusto che la società si sia difesa mettendolo in grado di non uccidere né le tre donne, né altri, ma ogni cittadino si domanda se non fosse il caso di metterlo in condizione di proteggersi anche da se stesso. Se era così fuori di testa da volere un eccidio familiare, forse era il caso di provvedere affinché non scatenasse la sua pazzia contro di sé. Come? Questo è il compito di chi si occupa di giustizia: dai magistrati in avanti. La cronaca prende nota che un uomo ha cercato di spegnere tre vite, e, non riuscendovi, ha spento la propria mentre la società in teoria lo custodiva.
Quando cominciai a fare il giornalista, venni subito spedito nei commissariati di polizia e in questura a raccogliere notizie: per anni ho seguito la cronaca nera e quella giudiziaria. Adesso, il gossip, le chiacchiere, la curiosità, si appuntano soprattutto sui fatti di sesso. I delitti, le rapine alle banche, i furti, erano gli argomenti che più attraevano i lettori negli anni Cinquanta e Sessanta; poi è arrivato il Sessantotto ed è cambiato tutto. Noi cronisti, in una grande città, prendevamo nota di tutto e di quel periodo abbiamo in testa centinaia di casi umani, centinaia di storie, di personaggi, dalla contessa Bellentani (che uccise l’amico durante una festa di vip), alla saponificatrice di Correggio (che faceva bollire le sue vittime nella soda caustica), a Caterina Fort (la quale sterminò moglie e figli dell’amante), allo scontro giudiziario politico e morale De Gasperi-Guareschi, e così via.
I cronisti di «nera» conoscevano ambienti sordidi e sfavillanti, intellettuali e miserabili degni dei racconti di Hugo, Balzac, Paolo Valera. Il caso del «suicida numero 58» mi ricorda quello di un povero diavolo degli anni Cinquanta che, rimasto disoccupato e solo, un giorno staccò la corrente elettrica del suo appartamento, chiuse le finestre e aprì il gas. Non voleva far saltare in aria i vicini, voleva morire. Ma, poi, sarebbe scoppiato tutto ugualmente. Fu salvato appena in tempo.
Mandato in carcere, ebbe una pena lieve: era considerato seminfermo di mente. Nessuno pensò di seguirlo, di tenerlo temporaneamente in cura presso qualche istituto. Non un medico, uno psichiatra, un ufficio penale, un semplice assistente sociale, un samaritano. Uscì dal carcere, senza un lavoro, senza una famiglia, senza nessuno. E allora? Fu rispedito a casa. Si immagini che colpo fu per i suoi vicini. Era solo prima, era solo dopo. Non ricordo l’anno, né ho mai conosciuto la sua fine, ma anche lui è un «numero 58». Non ci fu giustizia, né serietà burocratica, non società civile né cristiana. Dove siamo finiti?
Voce dal cortile: «Accendi la tv che c’è la partita».
Mario Pancera, giornalista e scrittore. Tra i suoi libri, una testimonianza diretta e affascinante su Don Mazzolari, parroco dalla parte dei contadini diseredati: “Primo Mazzolari e Adesso: 1959- 1961” ('Adesso' era il giornale che Mazzolari pubblicava). Ultimo lavoro di Pancera “Le donne di Marx”, edizioni Rubettino