Nell’ultimo film di Walt Disney la tecnologia avanzata ha permesso di tradurre i vecchi ma mai usurati personaggi cartacei dell’immaginario collettivo, in un mondo tanto più fantastico quanto più iperrealistico, grazie al potere del digitale tridimensionale che sa come rendere vero il falso e falso il vero. L’ambiguità dell’effetto è tale che agisce efficacemente dal piano percettivo a quello psicologico, tanto da rivelarne la strettissima inevitabile connessione.
Ci sembra così che qualcosa dalla scena giunga fino a noi o che lo schermo sia una finestra aperta sull’altra dimensione, anzi ci ritroviamo catapultati, insieme ad Alice, lì nel bel mezzo del suo mondo magico e paradossale, dove forse si può imparare a guardare con altri occhi, quelli della metafora vivente, ciò che pure quotidianamente ci succede. Potrebbe essere questo, almeno, il felice vantaggio.
Non che non fosse efficace, un tempo, il modo tradizionale. Da bambini abbiamo imparato almeno a sognare, oltre che a leggere, sui libri di fiabe illustrate; mentre invece i nostri figli si sono immersi, più pigramente, nella più amata e animata immagine disneyana, ricavandone sicuramente tanto vantaggi quanto svantaggi per lo sviluppo dell’immaginazione… Certo ancora con migliori risultati emotivi rispetto a chi è invece cresciuto guardando soltanto gli atroci reality propinati quotidianamente dalla tv spazzatura.
Ma oggi che si va decisamente verso un mondo virtuale” ad immersione” anche nel campo della fiction, gli effetti potrebbero avere risvolti imprevedibili.
Non ho visto Avatar, il cui tema può forse essere considerato più accattivante dalle nuove generazioni (sia pure col rischio di banalizzazioni manichee). Mi sono fidata di più di un classico, come quello di Lewis Carroll – ma dove il tema è in buona parte anticonvenzionale – per cercare di capire la portata psicologica di questa nuova versione. Ed ho pensato che, sì, certamente può essere, il 3D, una modalità inconsueta per riuscire ad immedesimarsi nel personaggio e viverlo dal di dentro, ma che nello stesso tempo si può correre il maggior rischio di una spettacolarizzazione passiva che finisce con il distrarre dal vero tema… Come dire che il racconto diventa tanto avvincente, nel suo ravvicinarsi a noi, da diventare fondamentale solo ai fini dello spettacolo che produce. O, come dire, che l’impegno dello spettatore di leggerne il messaggio rischia di essere travolto dalla innovativa modalità formale del prodotto.
Avvezza come sono a scavare a fondo non ho avuto difficoltà a ripensare al “senso” del percorso iniziatico condotto dalla giovane protagonista (l’incubo della bambina si risolve, senza psicoanalista – si badi bene – in una discesa agli inferi fondamentale per la presa di consapevolezza di sè) e la follia viene espressa nella sua ambiguità quasi come nel classico “elogio” erasmiano… la follia dell’odio e della violenza della piccola regina di picche dalla testa troppo grande, viene compensata e sconfitta dalla sana follia di chi, come Alice, attraverso l’incontro con i suoi demoni-paradosso, ha il coraggio di imparare a farne i conti… mentre lo stregatto, sfumato in verde smeraldo appare e riappare, e il Cappellaio matto – il tanto atteso Johnny Depp – rivela tutta la fragilità e grandezza del personaggio da sogno…
Il finale può aiutare chi è alla ricerca della propria indipendenza dalle convenzioni, ossia qualunque forma di adattamento allo “status quo”. Come dire che un pizzico di follia è la chiave di ogni anticonformismo salutare, anche se si trattasse di salvare un accordo economico con una famiglia potente senza per questo sposarne il figlio ma rivelando doti da imprenditrice… questa forse può non piacere, ma è solo una delle tante vie per mettersi alla ricerca della felicità come realizzazione di sé, come vuole la sempiterna Costituzione Americana, sicuramente un po’ meno traballante della nostra, sia nello spirito che nella divisione dei poteri. E almeno si spera che Alice non voglia poi entrare in politica con un conflitto di interessi…
Resta da sciogliere il dubbio: La metafora messaggio si trasmette meglio in 3D? O si può invece così più facilmente ritornare a casa distratti e contenti?
Giusy Frisina insegna filosofia in un liceo classico di Firenze