Quando il teatro lo fa il pubblico. Spettatori difettosi ma simpatici.
Se i buoni attori sono pochi, i buoni spettatori sono pochissimi, trattasi di categoria in estinzione. “Non ci sono più gli spettatori di una volta”, potremmo dire, se ne sono andati insieme alle mezze stagioni, gli spettatori che andavano a teatro per vedere uno spettacolo, lasciandosi coinvolgere da un’emozione, si sono squagliati come una manciata di neve fra le chiappe di una pornostar. Oggi, a teatro, si va in genere per farsi vedere. Farsi fighi. Farsi i fatti degli altri. Qualcuno ci va per farsi qualcuna, qualcun altro ci va per farsi e basta, protetto dal buio della sala. Tutti con qualcosa da fare, pochi con il tempo di ascoltare, lasciarsi andare. Sommersi da fretta e fregole. Senza motivo, perché sul palcoscenico, talvolta, non accade niente, tutto tace, addirittura si avrebbe il tempo di pensare. Per questo il teatro è rivoluzionario, perché stimola il pensiero come una pastiglia di Falqui stimola la digestione. Il teatro è rivoluzionario perché sovverte i tempi della televisione, “tempi imperanti”, direbbe il calzolaio comunista sotto casa mia. In tv, se trascorrono trenta secondi senza applausi o risate in sottofondo, è logico gridare alla noia. In tv, trenta secondi senza inquadrare una tetta, una gamba o un paio di labbra, sono come due anni senza sesso. Si sopravvive, per carità, ma che barba! E si cerca di cambiare canale, quando invece dovremmo spegnere la tv.
Lo spettacolo, quello vero, avviene fra il pubblico, nelle platee dei teatri o tra le sedie di plastica dei circoli arci. Ci sono i corrotti dalle tecnologie, quelli che prima dello spettacolo gli occorrono cinque minuti per spegnere tutto: cellulare satellitare, iphone, mp3. Sono quelli che allo spegnimento del cellulare si ode: “PI-PIIII-PA-PARAPAAAA-PUM”, tutti li guardano e loro sussurrano: “L’ho spento”. “Ah, mi scusi, pensavo fosse l’allarme antincendio del teatro”.
Sono gli stessi che durante lo spettacolo devono riaccenderlo perché magari gli ha scritto nonna Pina o zia Celestina o l’amante brasiliana che poi scoprono essere brasiliano. E devono pure rispondere, perché se qualcuno li cerca loro rispondono subito, sono educati, salvo rompere i coglioni all’attore in scena.
Ci sono quelli che ridono fuori tempo, ridono solo loro e non riesci a capire se lo fanno perché hanno compreso qualcosa che a te e agli altri è sfuggita, oppure se hai fatto qualcosa che non avresti dovuto fare, o se oggi le suore hanno portato in gita gli euforici incontenibili. E soprattutto ti chiedi perché li abbiano portati in ricreazione proprio al tuo spettacolo.
Ci sono gli affaccendati. Sono quelli che tossiscono, si soffiano il naso, si schiariscono la voce. Non stanno mai fermi. Sbucciano una caramella, la rompono con i denti e producono un immenso “Sgrunch!”, oppure la succhiano provocando una serie di irregolari “Slap! Slap!”.
Ci sono quelli che annuiscono, guardando con approvazione. Trascorrono il tempo dello spettacolo muovendo la testolina “su giù” come un continuo “sì sì sì”; forse perché condividono il testo, il pathos, forse perché comprendono l’eterna sofferenza dell’attore nel reggere una parte, nel non mandare tutti a quel paese e raggiungere il ristorante anzitempo. Sono gli spettatori che preferisco, perché sembrano darmi ragione qualsiasi cosa dica. Sono egocentrico e pieno di difetti. Non resisto, a chi mi loda. Fosse anche un principio di parkinson.
A proposito: voi che spettatori siete?
Saverio Tommasi è attore e autore di libri e spettacoli di teatro civile. Realizza inchieste video di taglio giornalistico, anche con telecamera nascosta.
Il suo pensatoio è http://www.saveriotommasi.it.