Un piccolo Stato incastonato nel territorio sudafricano, poco più grande della nostra Lombardia; un clima fresco, altipiani che raggiungono i 2000 metri di altitudine e tre fiumi che scorrono sulla sua terra; poco più di un milione di abitanti di etnia Basotho, molti dei quali emigrati per lavorare nelle miniere sudafricane; un’economia estremamente dipendente dal Sudafrica, un reddito medio molto basso, che si attesta sui duemila dollari l’anno: questo è il Lesotho.
Un paese molto diverso dal resto dell’Africa da un punto di vista climatico e geografico, ma con una storia singolare anche per quanto riguarda l’accesso all’acqua e la sua distribuzione.
Il Lesotho è un paese estremamente ricco d’acqua: dai suoi altipiani nasce il fiume Arancione, il più lungo di tutta l’Africa australe. Da dieci anni il Lesotho è un esportatore d’acqua: attualmente, il 70% circa della sua popolazione non ha accesso diretto alle risorse idriche. Una condizione tanto grave da spingere le Nazioni Unite a intervenire nel 2007 per fornire riserve d’acqua per il sostentamento della popolazione e dei capi di bestiame.
Le dighe per il Sudafrica
Questa situazione è da ricondurre al Lesotho Highlands Water Project (LHWP), il più grande “progetto” di gestione delle acque al mondo dopo la famosa diga delle Tre Gole in Cina. Un piano concepito e avviato ai tempi dell’apartheid africana con lo scopo di deviare il corso del fiume Arancione verso Nord, attraverso un sistema complesso di tunnel sotterranei destinati a raggiungere l’assetato distretto di Johannesburg, in Sudafrica.
La prima fase del “progetto” ha portato all’implementazione di due delle cinque dighe previste dallo schema originario: la diga di Katse, la più grande dell’intero continente africano con un’altezza di oltre 200 metri, e la diga di Mohale. A queste si è aggiunto il più piccolo impianto di Muela.
Le dighe sono state realizzate da tre grandi consorzi internazionali: in particolare la diga di Katse è stata implementata da un consorzio guidato dall’italiana Impregilo. Al LHWP si è interessata la Banca Mondiale, che ha finanziato il progetto già dall’inizio degli anni Novanta, ai tempi della stipula del primo contratto tra Lesotho e Sudafrica.
I milioni di litri d’acqua sottratti al fiume Arancione hanno avuto un impatto devastante, dal punto di vista ambientale e sociale. La deviazione del fiume ha fatto letteralmente scomparire le terre fertili, soprattutto nelle zone a valle, danneggiando in modo consistente un’economia già molto povera e precaria. Il terreno ha subito un notevole degrado idro-geologico, con ampie frane e smottamenti. Molte specie di piante e animali sono ormai in via di estinzione. Inoltre, del promesso sviluppo i Bashoto (la popolazione locale) non hanno ravvisato nessuna traccia. Oltre 27.000 persone hanno perso case e terreni.
L’arrivo in massa di forza lavoro straniera in questo paese sperduto e la successiva nascita dei compounds, ovvero gli insediamenti dove vivevano ingegneri, operai e manodopera, ha portato alla diffusione di alcolismo e prostituzione. Di conseguenza si è sviluppato il virus dell’HIV, giungendo a una percentuale di popolazione sieropositiva che supera oggi il 20%.
Il paradosso più grande di questa situazione sta nel fatto che l’acqua deviata che raggiunge il Sudafrica, viene utilizzata principalmente per usi irrigui e industriali ma non arriva nelle città. Non apporta dunque nessun beneficio alla popolazione in termini di accesso all’acqua potabile e a migliori condizioni igienico-sanitarie.
La corruzione dell’acqua
A una situazione già abbastanza complessa si aggiunge uno dei casi di corruzione più eclatanti nella storia delle grandi infrastrutture. Il Lesotho è passato alla storia come unico paese del Sud del mondo dove le più grandi multinazionali responsabili della costruzione delle dighe sono state tutte condannate per corruzione.
Un processo storico, condotto da magistrati sudafricani che hanno svolto, senza nessun appoggio da parte delle istituzioni internazionali, un lavoro eccezionale di ricerca e documentazione delle numerose mazzette pagate dalle multinazionali del settore edile ai pubblici ufficiali locali.
A questo processo ha fatto seguito un lavoro di reinsediamento e compensazione per le popolazioni locali che stenta ad andare avanti.
Sono in molti a chiedere ancora giustizia, a domandare un risarcimento per la perdita delle loro case e delle loro terre. Basti pensare che, durante la costruzione degli impianti, sono stati utilizzati grandi quantitativi di esplosivo che hanno creato crepe sugli stessi nuovi insediamenti abitativi. E non si può dimenticare il feroce massacro del 1998 presso l’impianto di Muela, quando la forza lavoro locale indisse uno sciopero all’interno del compound e la polizia ebbe l’autorizzazione di sparare sul gruppo dei manifestanti. Per questo fatto non c’è stato mai nessun processo, l’indagine è stata chiusa e i lavoratori non hanno avuto giustizia.
Questa situazione così complessa, caratterizzata da scontri, lotte legali e ingiustizie perpetrate, è stata un’occasione per la debole società civile del Lesotho di organizzarsi. Sono nate diverse associazioni, come ad esempio il Transformation Resource Centre (TRC) che fin dal 1979 lotta affinché vengano riconosciuti i diritti fondamentali alle popolazioni locali, tra cui il diritto d’accesso all’acqua che oggi è negato a buona parte degli individui.
L’acqua in vendita
Il caso del Lesotho è emblematico perché per la prima volta, su scala nazionale, un paese ha venduto la sua acqua come principale risorsa per far entrare proventi nelle casse dello Stato. Una strategia di mercificazione della risorsa idrica che sottostà a logiche di potere e rapporti tra stati e di cui la popolazione non beneficia in nessun modo. Nonostante ciò, proprio in questi ultimi mesi il Sudafrica ha siglato l’accordo per procedere alla ricerca fondi destinati alla realizzazione della seconda fase del progetto.
Il Lesotho si trova di fronte a una situazione difficile poiché non ha una sua indipendenza economica e gran parte dei suoi introiti derivano dalla vendita dell’acqua. Ciò significa che non ci si aspettano grosse resistenze da parte delle autorità locali all’avvio del nuovo progetto, fortemente voluto dal Sudafrica e per nulla osteggiato dalla Banca Mondiale. Per questo è necessario che, di fronte alla ventilata e sempre più prossima opportunità di proseguire con la costruzione delle dighe, la società civile entri in collegamento con un più vasto movimento internazionale di lotta.
È necessario creare forti legami di solidarietà affinché le persone si oppongano in modo cosciente e compatto all’avvio della seconda fase del progetto.
È fondamentale inoltre, che siano riconosciute e stabilite dalle istituzioni locali nuove priorità, come l’accesso all’acqua per tutti, che è considerato un aspetto del tutto secondario. A oggi, non esiste in Lesotho una distribuzione equa della risorsa idrica: basti pensare che esiste in media un rubinetto ogni venti case in un paese con un clima molto fresco ed estremamente ricco d’acqua.